lunedì 30 settembre 2013

Il buffo dittatore

Cari amici del Bradipo, compatitemi: ormai una buona parte delle mie energie mentali va via nell tentativo di difendermi dalle accuse di amici, parenti e conoscenti, per aver contribuito col mio voto a fare la fortuna politica del tiranno in erba che vedete ritratto nella foto. Mi sono così deciso a fare una specie di FAQ relativa a lui e al M5S, a cui indirizzarli, per comodità, ogni volta che nascono discussioni di quel genere. Tanto, le critiche sono quasi sempre le stesse. Ecco dunque le più comuni, con le relative risposte.

1) Grillo è un dittatore. Se qualcuno non è d'accordo con lui, lo caccia dal Movimento.

Il M5S, a differenza dei partiti, non è un gruppo d'affari, non è una lobby, non è una associazione a delinquere. Al contrario, è un movimento politico nato intorno a una serie di istanze ed obiettivi. Chi lo ha votato, lo ha fatto perchè condivideva, almeno in buona parte, quelle istanze e quegli obiettivi. Se qualcuno degli eletti pensa di potersi spendere la propria elezione come un patrimonio commerciabile, è liberissimo di andare in uno dei tanti partiti esistenti. Lì troverà gente che ragiona esattamente in questo modo. Gente che, ad esempio, non trova nulla di riprovevole nello stringere un'alleanza e fromare un governo con l'uomo che va demonizzando da 20 anni, salvo poi buttarlo a mare quando finalmente la magistratura, con sospetto tempismo, si accorge che è così, quello è proprio un lestofante. Per queste persone non c'è posto nel M5S, perché non rispettano il principio del vincolo di mandato, non perchè lo ha detto il dittatore Grillo.

2) Il M5S è come gli altri. Invece di fare qualcosa, ha sprecato la sua occasione in uno sterile massimalismo.

A questa idea, che ritengo con tutto il rispetto bislacca, io do il nome di Teoria di Bersani. La realtà è che il M5S aveva una sola possibilità, ed era quella di seguire la strada tracciata in campagna elettorale. Siamo di nuovo lì: il vincolo di mandato. Se io voto te per mandare a casa Tizio, poi non accetto che tu dia i tuoi voti per far partire un governo di Tizio, e poi voti di volta in volta sui singoli provvedimenti. La possibilità di un'alleanza politica, come detto più volte dallo stesso Bersani, non è mai esistita. Del resto, pensare che il PD potesse condividere anche solo in minima parte il progetto politico del M5S è come pensare che Belzebù possa collaborare con padre Amorth a farsi esorcizzare. 

3) Il PD è stato costretto da Grillo ad allearsi con il PDL. La colpa è tutta di Grillo.

Dunque, c'è una forza politica che alla prima uscita a livello nazionale prende un voto su quattro, senza distribuire prebende, raccomandazioni, posti pubblici  e via dicendo (semplicemente perchè, se non altro, non può). Dall'altro lato, due partiti che perdono costantemente voti da anni, e che devono molto del consenso che ancora riscuotono a varie forme di clientelismo. Chi deve andare incontro a chi? L'idea che il M5S dovesse portare disciplinatamente i suoi voti al mulino dei Democratici ci dà la misura di quanto sia ostinatamente conservatore questo paese, al di là del colore delle casacche.

4) Grillo è un fascista latente. Ha anche flirtato con Casapound.

Questa è un'accusa che viene prevalentemente da sinistra. Da una sinistra che in Italia, essendo ormai da anni sostanzialmente impotente sul piano politico, si è gettata anima e corpo nella costruzione di una identità a-storica, mitologica, irrimediabilmente romantica. L'antifascismo è un valore importantissimo, fin tanto che ci si rende conto che l'essenza del fascismo non è il manganello o la camicia nera, ma l'autoritarismo con cui una classe si impone sulle altre. Oggi quell'autoritarismo è rappresentato prevalentemente dalle istituzioni economiche e finanziarie sovranazionali che ci portano via la sovranità, pezzo dopo pezzo. Casapound è feccia ma, al di là degli atti di comune teppismo di cui può rendersi protagonista, politicamente innocua. Del resto Grillo non ha flirtato con Casapound. Rispondendo a Simone Di Stefano, esponente di rilievo del movimento dei "fascisti del terzo millennio", ha detto un'ovvietà tramutata in "apertura al fascismo" dalla malafede mediatica: se un ragazzo di Casapound vuole entrare nel M5S, ed ha i requisiti per farlo, non c'è motivo per cui non gli debba essere consentito. Dunque, il M5S non ha una pregiudiziale antifascista di tipo identitario, e su questo possiamo discutere; ma pensare che flirti con il fascismo è scorretto.

5) Il M5S è un movimento interclassista. Un comunista non può votare per loro, o appoggiarli.

Prima di imparare a correre, bisogna imparare a camminare. Sì, è vero, il M5S è un movimento interclassista; e questo è uno dei motivi del suo successo. Perché non esiste, oggi in Italia, la possibilità di fare un discorso di tipo marxista-leninista e riscuotere apprezzabili consensi. La storia recente ci indica che le rivoluzioni, anche in parti del mondo tradizionalmente più turbolente della nostra Europa, si fanno nelle urne, non più con le armi. Chavez fallisce nel '92 con il fucile, e vince nel '98 al voto. Ma dietro il Comandante, nella fase iniziale della sua parabola politica, non c'è un partito di sinistra (il PSUV sarà fondato solo nel 2008), bensì un movimento multicolore come il Movimento Quinta Repubblica. Il neoliberismo ha paralizzato, con le sue logiche velenose somministrateci a poco a poco negli ultimi due decenni, la politica. Se non si ridà dignità all'idea di partecipazione politica, la democrazia resterà una questione di eleggere gli squallidi caporali incaricati di mediare fra noi, il popolo, e le oligarchie economiche e finanziarie che stanno gettando milioni di persone nella disperazione e nella eterna precarietà.

6) Dulcis in fundo: la politica è una cosa seria, e Grillo è un pagliaccio.

L'idea che la politica sia appannaggio di un ridotto numero di tecnocrati è centrale, direi indispensabile alla perpetuazione del paradigma neoliberista. E' questo il modo in cui si neutralizza la democrazia. Io penso che la politica sia una cosa seria, ma non come la biologia molecolare o la fisica nucleare. Pur essendo effettivamente complessa, riguarda tutti. Se qualcuno non si sente rappresentato dai tecnocrati (per giunta ladri) di cui sopra, ha il sacrosanto diritto di organizzarsi e partecipare direttamente alla costruzione di un'alternativa. La comunicazione politica, poi, è una vera e propria arte. Se mettermi a gridare e fare il gesto dell'ombrello mi aiuta a far arrivare il mio messaggio ad alcune persone, perchè non dovrei farlo? Io, personalmente, trovo più serio quello che non le insulse manfrine che il PD mette in scena da mesi per salvare il salvabile.

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Mi fermo qui, per il momento, sperando che questo mi tenga al riparo, almeno per un po', dagli improperi e dalle maledizioni. Di convincere qualcuno non dico a cambiare idea, ma almeno ad assumere per un attimo un diverso punto di vista, non ci spero tanto. Ci piace giocare a guelfi e ghibellini, e chi ha un problema di solito se lo risolve, in modo splendidamente amorale, per i fatti propri. La politica-teatrino, a molti di noi, casca a fagiuolo. Scusate, per dirla col Maestro Guccini, se non mi lego a questa schiera; morrò pecora nera...

venerdì 27 settembre 2013

L'intervista che non leggerete mai


Cari amici del Bradipo, vi siete ripresi dallo choc del maccherone infingardo e omofobo? No? peggio per voi. Perchè io, Pier Paolo Palermo, nato a Napoli ed ivi residente, in via D. Fontana, 39, CAP 80128, codice fiscale PLRPPL73H22F839N,  ho scritto per voi l'intervista che non leggerete mai.

Non la leggerete mai perché siamo un paese devastato dal politically correct, perché noi dagli altri prendiamo per lo più la cacca; perché se fermi dieci persone per strada e gli chiedi chi era John  Fante e ti risponde uno solo ti è andata bene, ma se domandi invece come si dice "cieco" in politically correct almeno cinque o sei esclameranno subito "non vedente!".

E allora beccatevela, questa intervista. L'intervistatore andrà sotto il nome di Otto Von Bismarck, Cancelliere di Prussia, abbreviato per comodità in Otto. L'intervistato è Altero Bastone, Amministratore Delegato della Inculben, ipotetico primo produttore mondiale di vasellina, abbreviato in AB. Spero che voi vi divertiate a leggerla quanto mi sono divertito io a scriverla.

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Otto: Signor Bastone, lei è a capo dell'azienda che domina il mercato mondiale della vasellina. Come descriverebbe la sua mission?

AB: Direi che la nostra mission consiste nel facilitare l'atto della sodomia, in qualsiasi forma e contesto. In seconda battuta c'è l'uso medicamentale del prodotto, come ad esempio per le applicazioni su tatuaggi freschi. Tuttavia direi che il nostro mercato di riferimento è decisamente quello del cazzo in culo.

Otto: Mi scusi, dottor Bastone, ma non le sembra di usare un linguaggio un po' scurrile? Siamo in fascia protetta...

AB: Deve scusarmi, Cancelliere, ma io sono affetto dalla sindrome di Tourette. Non posso fare a meno di erompere continuamente nel turpiloquio più laido. Cazzo merda culo sciorda cacata in bocca a chitemmuorto! Ecco, vede?

Otto: Beh, la nostra emittente ha una politica di inclusione assoluta, è contraria a ogni tipo di discriminazione, figuriamoci se io adesso interrompo l'intervista perchè lei ha la sindrome di Tourette. Piuttosto aspetto che il cardinale di turno faccia la sua telefonata e vengano a chiudermi la radio.

AB: La rigrazio della sua comprensione e della sua impeccabile ospitalità. 'A fessa 'e mammeta!

Otto: Dunque, dottor Bastone, a quale tipo di pubblico è diretto il suo prodotto?

AB: A tutti. Le sembrerà strano, caro Cancelliere, ma per me basta che si comprano la vasellina, poi quello che vanno facendo non mi concerne minimamente. Uomini, donne, cani, puorci, basta che cacciano i soldi.

Otto: Mi scusi, ma mi sembra un po' qualunquista la sua posizione. Cosa fa la sua azienda contro la disciminazione di genere?

AB: La vasellina. La mia azienda fa la vasellina. Si mette sopra al cazzo quando lo devi mettere in culo a qualcuno. Ha presente?

Otto: Sì, sì, ho presente... ma dico, nell'ambito dello spinoso dibattito sul matrimonio gay, voi come vi ponete?

AB: Assolutamente contrari. Tutti i sondaggi dicono che la gente sposata scopa meno, e per noi questo è un male. Cazzo cazzo cazzo 'nculo a mammeta ce l'aggia chiavà!

Otto: Ma insomma, lei si rende conto di proiettare un'immagine negativa dell'Italia nel mondo?

AB: Abbia pazienza, Cancelliere, ma io faccio la vasellina. Cosa vuole che proietti? 'Stu cazzo 'nculo a chi t'è viecchio?

Otto: Insomma, dottor Bastone, facciamo chiarezza, una volta per tutte. Come si pone la Inculben rispetto alla lotta per una società più educata, in cui tutto quanto esista di deteriore nella natura umana venga sistematicamente e rapidamente spazzato sotto il tappeto?

AB: Guardi, a me interessa poco di quel che si spazza sotto il tappeto. Fin quando ci sarà gente che praticherà il sesso anale, io sarò un uomo molto felice e molto ricco. Anche se, per dire, qualcuo avesse il desiderio di praticare un foro nel muro e penetrarlo, io chi sono per dissuaderlo? Gli consiglierei certamente di usare la mia vasellina, questo sì...

Otto: No, questo è troppo! I buchi nel muro...

AB: E perché no, Cancelliere? Se qualcuno ha questo sogno, chi siamo noi per tarpargli le ali?

Otto: Ma è disgustoso, tristissimo e anche pericoloso!

AB: Mi permetto di dissentire. Basta levigare bene i bordi, stuccarli, e usare tanta vasellina Inculben. Provi anche lei, ne rimarrà sorpreso, budino di stronzi per dessert.

Otto: Vedo che è impossibile affrontare seriamente una discussione con lei. Le auguro di guarire dalla sua Tourette, e do appuntamento ai nostri ascoltatori alla prossima puntata.

AB: E vafammocca a chillu ricchione 'e patete!

martedì 24 settembre 2013

Ci sono Blanc, Proudhon e Marx seduti al bar...

Questo è un post che da un po' mi trattenevo dallo scrivere. Ma siccome dovunque mi giri vedo autoritarismo, rigidità, idiozia sclerotizzata, sono costretto a difendermi con la consueta arma dell'invettiva dialettica. Mettiamo le carte in tavola, poniamo fine ai sospetti e agli equivoci: voi mi dovete schifare con piena coscienza. Tanto lo so che la morte sociale, più volte paventata da queste pagine virtuali, non arriverà; se non altro, perchè mi leggete in quattro.

Oggi dovete avere un po' di pazienza con me, perchè dobbiamo partire da lontano. Per la precisione, dal 1846, data di pubblicazione del Sistema delle contraddizioni filosofiche di Pierre Joseph Proudhon. In questa opera il fiosofo francese polemizza con Louis Blanc. Chi è questo signore? Avete mai sentito o letto la massima "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni"? Questa frase non è di Marx, come pensano in molti, ma di Blanc, il più autorevole esponente di quello che allora in Francia si chiamava "socialismo di stato". Perchè lo critica Proudhon? Perché, secondo lui, una filosofia basata su questo concetto, apparentemente equo e di grande umanità, presuppone l'aderenza a un concetto di giustizia autoritario. Il concetto di giustizia distributiva contenuto in questo aforisma presuppone infatti che qualcuno abbia il compito, si arroghi il compito di decidere quali sono le mie capacità e i miei bisogni. Il rischio è che porti a una società in cui tutti gli animali sono uguali, ma i maiali sono più uguali degli altri, per dirla con Orwell. L'alternativa, per Proudhon, è la giustizia commutativa che regola i rapporti fra liberi produttori associati, sostenuti da un sistema di credito non più finalizzato all'accumulo e all'arricchimento di pochi, ma messo al servizio della collettività.

Non è mia intenzione entrare adesso in una discussione sulla validità del modello proposto dal rivoluzionario di Besançon; quello che mi interessa è la sua critica del concetto di giustizia distributiva, e l'intima relazione di quest'ultimo con il concetto di rivoluzione sviluppato da quella parte del movimento socialista che avrebbe maggiormente inciso nella storia a venire. Non è questa la sede per sviscerare la virulenta polemica scatenata dal giovane Marx nei confronti del più maturo Proudhon, per il quale pure aveva espresso ammirazione in precedenza. Tantomeno è il caso di schierarsi. Limitiamoci a constatare che la storia della Sinistra è, fin dagli albori, una storia di scazzi e rivalità personali. Quello che ci concerne, ora, è che Prodhon ha cominciato ad avere ragione sulla giustizia distributiva nel 1848, quando gli ateliers nationeaux di Blanc fanno clamorosamente fetecchia, e non ha ancora smesso. 
 
Se la classe mercantile è riuscita ad emergere, nel contesto della società feudale, e trasformarsi col tempo in classe dominante, è perchè non solo nei rapporti con le altre classi, ma anche in quelli fra i suoi membri, si erano instaurati modelli di comportamento funzionali alla sua crescita. Il feudatario depredava, esigeva, rapinava; il borghese lavorava e produceva. La dignità del lavoro, che secoli dopo sarebbe stata così strenuamente difesa dal Socialismo, è un prodotto etico della borghesia nella sua fase giovanile. Il mercante del Medio Evo commercia in prima persona, solca i mari, attraversa i deserti, si fa un culo come una capanna per arricchirsi. Tutt'ora il rapporto fra impegno personale e successo economico è un caposaldo della Weltanschauung borghese. Il limite di buona parte del pensiero di sinistra nel Novecento e in questo scorcio di nuovo millennio è stato non capire che quello spirito va preservato e ricreato - in diverse forme, è ovvio - in una società socialista. L'uomo deve essere protagonista del proprio lavoro. Sostituire un meccanismo di alienazione con un altro condanna inevitabilmente qualsiasi processo rivoluzionario al fallimento. 

Perfino oggi, dopo la scomparsa pressochè totale dello Stato dalle nostre economie (parlo a livello europeo), c'è chi ancora resta aggrappato a modelli rivendicativi assolutamente obsoleti. Si pensa forse che una società più giusta si possa costruire per sottrazione, che se si gratta via la patina di barbarie e iniquità sedimentata in secoli di capitalismo ci si troverà sotto un'Umanità già perfetta. Si crede, magari, che sia ancora possibile affidarsi a sedicenti avanguardie che marciano spedite alla testa di plotoni di fantasmi. Si pensa, per tornare al povero Proudhon, che il nemico sia l'eterodossia, e non la carenza di idee capaci non tanto e non solo di mobilitare e sostenere proteste, ma soprattutto di dare vita a un'alternativa, di far germogliare il seme di un nuovo mondo di stare insieme, di dividersi il lavoro e i suoi frutti. Di realizzare la democrazia, a livello tanto politico quanto economico, e dunque di realizzare il Socialismo, che è la sua più vera e piena essenza.

Ma forse sono io a sbagliare, nel dare troppa importanza a queste elucubrazioni postprandiali, effetto di una digestione tanto laboriosa e difficile quanto il progresso sociale di una paese e di un continente decrepiti e stanchi. Mah, non lo so. Intanto, smetto di marciare con i fantasmi, e mi affaccio a guardare il drappello scalcagnato e multicolore che passa, al chiasso di mille inni dissonanti e confusi. Dopo tutto, solo la morte mette tutti d'accordo. Noi vivi siamo condannati dalla Storia a cambiare continuamente idea.

lunedì 16 settembre 2013

La solitudine del ciclope


Cari amici del Bradipo, oggi non ho niente di cui lamentarmi, nè alcuna osservazione da fare. Del raddrizzamento della Concordia m'importa sega, per cui ho scritto un breve raccontino. Prendete e mangiatene tutti.

La solitudine del ciclope

Dall’anfratto roccioso in cui aveva stabilito la sua dimora provenivano i fumi dell’arrosto. Si levavano in cielo in volute arricciate  come il vello dei montoni che aveva ucciso per il suo pranzo, e che riempivano l’aria del loro acre odore, ancora più penetrante adesso che erano lambiti dalle fiamme. La brezza alimentava il fuoco, e di tanto in tanto lo faceva crepitare. Quel suono si mischiava allo stormire delle fronde, al richiamo dei tordi, dediti ai frizzi e lazzi che da loro esigeva la stagione degli amori, e alle lontane, appena udibili bestemmie di un pastore che attraversava il sentiero, giù a valle.   
Facendo girare lo spiedo sul fuoco, pensava agli infiniti lutti addotti agli Achei, che a centinaia aveva ucciso e divorato, nei suoi quattrocentosettantasei anni di vita. Più che il loro gusto, a cui prediligeva quello dei montoni e delle capre, apprezzava la loro compagnia. Essi lo sollazzavano con la musica delle loro cetre, lo intrattenevano con i racconti delle gesta dei loro guerrieri, lo inebriavano con quella strana bevanda color rubino che né il fiume né le capre gli avevano mai offerto.
Ripensò a una sera d’estate, doveva essere stato quasi duecento anni prima, in cui aveva visto un pastorello intrattenersi con una fanciulla in riva al torrente che scorreva in quella striscia di terra che andava dai piedi della montagna fino al mare, poche centinaia di metri più in là. Il giovane l’aveva stretta in una strana morsa, che la ragazza non sembrava disdegnare. C’era una netta differenza fra quella stretta e quella con cui lui  stritolava i marinai che facevano naufragio sull’isola, prima di cibarsene. Le loro bocche si sfioravano, i loro corpi si contorcevano, ma pareva che lo facessero in una sorta di curiosa armonia. Non capì mai cosa stessero facendo.
Era solo. Non sapeva chi lo avesse generato. Non aveva mai visto un suo simile. Non sapeva cosa volesse dire l’amicizia, né tantomeno l’amore. Mangiava, dormiva, inondava il versante della montagna con le sue pluviali minzioni, e dove depositava le sue gigantesche deiezioni nascevano querce come gerani. Altro non faceva. Altro non conosceva.
Cominciò a guaire, prima sommessamente, poi sempre più forte, fino a quando il suo lamento straziante non saturò l’aria addolcita dalla primavera, fino a quando ogni creatura, dalla più minuta formica ai maestosi mufloni dalle lunghe corna, non si fu del tutto ammorbata l’anima. Poi si avvide che i montoni erano cotti, e cominciò a mangiare. Un morso, un guaito… un morso, un guaito… E così consumò il suo pasto.
Finito che ebbe di mangiare, si distese sul suo giaciglio di lana e paglia, e si assopì. Sognò di banchettare con gli uomini che venivano dal mare, di bere anfore e anfore della loro bevanda prodigiosa che induceva un’ottusa ilarità, e di danzare come loro al suono della cetra. Poi, in questo suo sogno, accadde una cosa molto strana: gli apparve una donna, come quella che aveva visto insieme al pastorello due secoli prima, ma di statura e corporatura proporzionate alle sue. Come lui, aveva un solo occhio, che lo guardava con infinita dolcezza. Cominciarono ad afferrarsi e strusciarsi come avevano fatto i due esseri umani tanto tempo prima, pensando di non essere visti.
Quando l’acuto verso di un nibbio in volo lo svegliò bruscamente, si guardò intorno per cercare quella bizzarra creatura, ma non vide nessuno. I resti dei montoni erano sparsi intorno a lui; altri segni di vita non era dato scorgere, fin dove arrivava la vista. Guaì a lungo, e a ragion veduta. Si percosse il petto, ed emise un ululato lancinante. Aveva capito. Quel sogno gli aveva rivelato la natura della sua condizione. Aveva capito che il destino del ciclope è la solitudine.
E fu con questa consapevolezza che il ciclope Claudio Pellegrini III scrutò l'orizzonte, con quello sguardo azzoppato dal destino, nella speranza di scorgere una vela in lontananza. Ma il mare gli rese solo il riflesso di un sole che splendeva a prescindere da ogni cosa, nel cielo terso del Peloponneso, solo come il suo occhio nella spaziosa fronte, solo come lui...
 

sabato 14 settembre 2013

L'ATAC, il MIUR e il povero Fantozzi



Cari amici del Bradipo, buon fine settimana. Come forse sapete, io da grande vorrei fare il professore di inglese. Dopo una lunga, estenuante ricerca e una interminabile moratoria psico-sociale, è questa la conclusione alla quale sono giunto. Dice, e qual è il problema? Non sei tu forse versato nell'idioma della perfida Albione? Non sai forse recitare a memoria svariati passaggi dal Circo Volante dei Monty Python, non sei tu forse in grado di declamare i versi del Bardo come e meglio di Kenneth Branagh e Lawarence Olivier? Miei cari adepti, se questo fosse un paese che desse il minimo peso, nella distribuzione delle sue forze produttive, a quella vocazione con la quale Max Weber ci ha sfrantecato i coglioni nella sua seminale opera sull'etica protestante e lo spirito del capitalismo, io la cattedra ce l'avrei da un pezzo. Ma siamo in Italia, nella terra della mediocrità elevata a golden rule, in cui la gente profonde sforzi sovrumani nella sua crociata contro il lavoro; sforzi che, se venissero invece profusi nel lavoro stesso, metterebbero lo scuorno in faccia a Germania e Francia. Qui vige il decalogo del litruso di marziana memoria; non ci si sforza di migliorare la propria vita, ma di danneggiare gli altri.

E veniamo finalmente al video che ho scelto per aprire il post. Che c'entra con la scuola e il mio anelito ad entrarci? Fate conto che io sia il rag. Fantozzi. Superando mille difficoltà per prendere l'autobus, fra cui il ritardo dovuto alle ragioni esposte nel primo capoverso, mi calo finalmente dal terrazzino del TFA per diventare insegnante. Odo la signora Pina dell'invidia sociale ammonirmi: "non l'hai mai fatto...non hai il fisico adatto". Ed io, come il rag. Ugo, rispondo che non l'ho mai fatto, ma ho sempre sognato farlo. Vabbè, non è del tutto vero, a sei anni volevo fare il calciatore, ma fatemela passare. Dunque, avvisto il mezzo, che non si ferma certo per farmi salire. Ma io lo rincorro disperato. Quando mi avvicino per saltarci su, ecco che chi su quell'autobus c'è già comincia a scalciare. Adesso proviamo a ragionare sulla natura del problema.

Perché il pullman, come si dice a Napoli, che deve prendere Fantozzi è così pieno? Evidentemente, perchè l'ATAC di merda non mette a disposizione un numero sufficiente di mezzi. Anziché prendersela con il povero e sfortunato ragioniere, i passeggeri dovrebbero capire che il problema è a monte. Come diceva il Folagra? E' a monte che dobbiamo distruggere. Il problema è l'ATAC, non Fantozzi. che cerca di salire a bordo come ci sono saliti gli altri. Il MIUR investa nella scuola e non racconti fregnacce. Nessuno negherebbe l'affermazione che il futuro di un paese dipende dalla qualità del suo sistema di istruzione, ma poi si lavora per ridimensionarlo, quel sistema, non per potenziarlo. Ci vogliono più insegnanti, e meglio preparati. 

Il problema oggi è salire su quel cazzo di pullman. Questo crea una competizione esasperata, in cui sono proprio i più mediocri a scalciare di più. Io non dico che i mediocri debbano scendere; dico che bisognerebbe lasciar salire anche i meritevoli. E comunque un posto di lavoro non è un premio. Questo lo può pensare solo il piccolo borghese gretto e meschino, con le sue vedute limitate e il suo egoismo spudorato. L'obiettivo comune dovrebbe essere una scuola migliore. Più autobus. E un sistema di selezione che somigli meno a un assalto alla diligenza, e più a un percorso autenticamente formativo. Ma forse a questo sciagurato paese piace somigliare al grottesco, amaro e disperatamente immobile mondo del ragionier Fantozzi Ugo, matricola 7820/8 bis.  

giovedì 12 settembre 2013

Il sacerdote tontolone, il puzzle e i narcisi furbacchioni


All'inizio di un episodio dello straordinario Father Ted, una serie che vi consiglio di guardare se vi piace ridere, si vede un Dougal (il tizio raffigurato nella foto) intento alla soluzione di un puzzle. Non riuscendo a incastrare uno dei pezzi nello spazio che aveva individuato, ne taglia una parte con un paio di forbici. Un modo di agire impeccabile, in base alla sua  logica. Se lo scopo del gioco è riempire gli spazi vuoti, che male c'è ad alterare la forma dei pezzi? Certo, alla fine l'immagine che ne verrà fuori non sarà quella che si cercava; sarà un'accozzaglia di contorni e colori senza senso. Ma questo, evidentemente, sfugge al giovane sacerdote tontolone. 

Non dissimile mi pare l'atteggiamento di molti sedicenti marxisti. Costoro, di fronte alla complessità di un puzzle in cui i pezzi si fanno sempre più piccoli, e sistemarli correttamente in relazione l'uno all'altro diventa veramente improbo, ricorrono sempre più spesso e volentieri all'uso delle forbici della dottrina pura, libresca, inadulterata dal contatto con la realtà. Se Marx ha scritto qualcosa sulla Germania del 1860 deve necessariamente valere anche per l'Italia del 2013; e quel giudizio espresso una volta da Gramsci sull'Italia degli anni '20 sarà senz'altro applicabile, tanto per dire, allo scacchiere mediorientale odierno. Il loro armamentario ideologico non viene utilizzato per riconoscere meglio e più agevolmente i pezzi del puzzle, ma per riempire frettolosamente e alla carlona tutti i vuoti. Laddove poi si presenta un fenomeno nuovo, e questo lo dico senza la minima intenzione di offendere, credetemi, sono penosamente incapaci di formulare giudizi nuovi sulla base di una impostazione epistemologica che evidentemente non hanno fatto propria. Zak zak, daje de forbici, e via. 

E quindi, per dirne una, se il M5S è un movimento di massa ai cui comizi non si vedono bandiere rosse, deve necessariamente essere fascista. Dopo tutto, il fascismo è l'unico movimento di una certa entità nel passato del nostro paese che non sia stato rosso. E quindi si prendono le forbici e si tagliano tutti quesi fastidiosi angoli che impediscono di collocare i "grillini" - con tutti i loro pregi e difetti - nello slot denominato "fascismo". Forse, e dico forse nella mia ignoranza abissale, della quale faccio periodicamente ammenda, potrebbe essere utile andarsi a interrogare su cose come la distribuzione sociale delle forze produttive di questo paese, e sui modelli culturali che sono stati offerti negli ultimi decenni a queste forze produttive (compresi quelli che venivano da "sinistra"). Si potrebbe altresì riflettere sulla proliferazione delle fonti di informazione nell'era di Internet, e sulla problematizzazione della comunicazione politica che comportano, con tutte le nuove opportunità e le nuove difficoltà che creano. E su queste cose la dottrina non ti è d'aiuto, se non la sai utilizzare

Non serve a niente ricomporre il quadro di una realtà menomata e travisata. Serve, forse, a qualcuno. Serve a coloro che si autoproclamano leader di avanguardie che dietro hanno poco e niente, e che non riusciranno mai a pesare veramente sul piano politico se non si aprono e si contaminano, ma saranno più che sufficienti a soddisfare il narcisismo dei suddetti leader. I sacerdoti tontoloni armati di forbici e tanta fede non cambieranno di una virgola la realtà politica ed economica di questo paese, statene certi; ma forse a loro basta l'approvazione del gruppo dei pari e il plauso del professorone di turno, che con una paterna pacca sulla spalla dice loro "bravo compagno!". E poi va a casa e, completamente dimentico delle cause di cui vorrebbe farsi megafono, si spoglia nudo davanti allo specchio e si mette a maniarsi voluttuosamente la borghesissima epa.

 

martedì 10 settembre 2013

Follow the yellow brick road


C'è una grande opportunità nascosta fra le pieghe della mediocrità, accessibile solo a coloro che si armano di umiltà: la possibilità di riconoscere il genio dei grandi, e di attingervi a piene mani. Dopo un TFA zeppo di nozioni inutili o vaghe, finalmente ho trovato il tempo per cominciare a leggere John Dewey, uno dei giganti della pedagogia del '900, e ci ho trovato questa frase:

The conception that growth and progress are just approximations to a final unchanging goal is the last infirmity of the mind in its transition from a static to a dynamic understanding of life.

Traduco, come al solito, per i non-anglanti:

Il concetto della crescita e del progresso come un avvicinarsi a un obiettivo finale immutabile è l'ultima infermità della mente nella transizione da una visione statica della vita a una dinamica.

Mo', se siete più intelligenti e preparati di me c'è il rischio che non abbiate capito l'immenso valore dell'umiltà, e che quindi questa possa sembrarvi una frase banale. A me, personalmente, pare straordinaria. Ci mette in guardia contro una visione teleologica, messianica dell'esistenza e del mondo, ci fa capire che il traguardo di questa corsa che è la vicenda della specie umana su questo pianeta si sposta continuamente. Per dirla con le parole di uno sfortunato poeta spagnolo, il cammino non esiste, si fa nel momento stesso in cui lo si percorre. 

Contrapposta alla visione di Dewey e Machado ce n'è un'altra, perfettamente esemplificata dalla Yellow Brick Road che i Munchkin esortano Dorothy a seguire nel Mago di Oz. Che c'è, non posso mischiare i Munchkin con la poesia e la pedagogia? Se Luca Telese ha diritto di cittadinanza nella prima serata di un canale televisivo nazionale, volete negare ai simpatici abitanti di Oz una breve incursione in questo blog balordo? Il postmoderno è questo: Telese in tivvù, e i Munchkin che declamano i Cantares a una classe di studenti della Columbia University. 

Se avete visto il film, ricorderete che alla fine del sentiero di mattoncini gialli, e dopo aver passato una congerie di guai e reclutato tre nuovi amici, Dorothy riesce a entrare nel palazzo del grande mago, per poi scoprire che era solo un illusionista. L'uomo di latta, lo spaventapasseri e il leone trovano il cervello, il cuore e il coraggio che cercavano durante il cammino. Il mago distribuisce loro dei diplomi, ovvero degli attestati dei progressi raggiunti. Il fine dell'istruzione, per dirla con Dewey, è nell'istruzione stessa. Per quanto riguarda Dorothy, dopo aver perso il passaggio sulla mongolfiera del mago per colpa di quell'impareggiabile cacacazzo di Toto, scopre che avrebbe potuto tornare nel Kansas in qualsiasi momento, grazie alle sue scarpe. Anche qui emerge un messaggio pedagogico importante: l'educazione ti aiuta a scoprire e conoscere il tuo potenziale, non è certo una serie di nozioni sterili da ficcare a forza nella testa dei discenti. Il sentiero giallo, in fin dei conti, è stato il percorso della formazione di Dorothy. Non l'ha portata dal mago; l'ha portata da Dorothy. 

Quella della Yellow Brick Road è una bella favola, ma ogni favola ha la sua morale. Questa, in particolare, ci dice che alla fine di una strada già tracciata non si troverà mai la soluzione dei nostri problemi. Nessun mago sconfiggerà la perfida strega. dell'Ovest; la dobbiamo sconfiggere noi. Dobbiamo sviluppare il nostro cuore, il nostro cervello, il nostro coraggio, e renderci conto del potere che possiamo esercitare, se solo siamo disposti a perdere le certezze. Il Mago di Oz è una grande allegoria del diventare adulti. Bisogna staccarsi dalle sottane di mammà, e prendere la propria strada. Una strada che ci dobbiamo aprire noi, con le nostre scarpette rosse. Solo così possiamo andare verso una Umanità maggiorenne e una democrazia che sia reale, e non l'illusione in technicolor per bambini di un mago attempato e tracagnotto.

lunedì 9 settembre 2013

Tu, inerte ceto medio intellettuale...

 Il ceto medio intellettaule, visto da Gustavo Doré

Allora, stasera un post disgustosamente autoreferenziale e autoindulgente. Tanto ho capito che non mi leggete più, a parte qualche irriducibile, e quindi perchè no? Vi parlerò di me, e del mio punto di osservazione sul mondo. Salvatevi, finchè potete. Andate sul blog di Civati, o restate qui a vostro rischio e pericolo.

Dunque, in una canzone da me scritta per la Banda degli Onesti, il mio progetto tristemente solista che dopo una breve parentesi nel mondo reale è tornato tale, dico la seguente frase:

Tu, inerte ceto medio intellettuale, vivi alle spalle della società.

Che vuol dire? Si tratta del mio modo, certamente inadeguato e rozzo (del resto che vi aspettate da un vetero-punk?) di esprimere quello che ritengo il concetto di gran lunga più importante per capire l'Italia degli ultimi 20 anni, i movimenti politici di protesta che ha generato, e il declino della sinistra. Esiste una parte consistente della popolazione di questo paese che non apporta alcun contributo al benessere materiale e spirituale del paese stesso. Io, ahimé, ne faccio parte, seppure non per mia scelta. Vorrei lavorare, ma il fatto è che Letta il Giovane ha deciso che ai musei gratis va bene, ma lavorare no, per favore, guagliù, come vi viene in mente? Il ministro Carrozza mi ha lasciato a piedi. Mi piace questa battuta, lo so che non è un granchè, ma se non si ride delle disgrazie poi non resta che piangere. But I digress, come dicono a Cancello Arnone. Esiste tutta una fetta della classe media che vive in modo parassitario. Senza infrangere la legge, intendiamoci. Mica come il parcheggiatore abusivo, ad esempio quello che mi guardava il mezzo quando frequentavo l'università, che passava dieci ore al giorno sotto al sole o alla pioggia, spostando motorini e facendo questioni con i vigili. Questi sono parassiti legalmente riconosciuti. Non è che li rubino i soldi, capiamoci; semplicemente, non danno niente in cambio che li valga. Io sono rozzo, lo ripeto, e vorrei fare come la Russia in quella vecchia canzone: chi non lavora non mangerà.

Esiste poi tutta un'altra parte del paese, rozza come e più di me, che non legge molto, perchè torna a casa stanca. Mi viene detto da chi se ne intende che bisogna fare una netta distinzione fra l'operaio e il padrone della fabbrichetta. Il fatto è che io li ho visti, quando buttavo il sangue al servizio civile intru lu capu te Leuca, visto che parenti o amici che mi potessero raccomandare non ne avevo, e su di me si abbattè l'ira del Distretto Militare. Dicevo, li ho visti questi operai che bevevano la birra al circoletto insieme al padrone, con gli stessi panni addosso, lo stesso dialetto in bocca, anche se poi ovviamente il padrone in tasca aveva più soldi. Gente rozza, dicevo, e quindi inconsapevole del fatto di appartenere a classi il cui antagonismo è irriducibile. Qualcuno li informi, o continueranno a parlare insieme di calcio, di televisione e di donne, in perfetta armonia. Continueranno a vedere il mondo con gli stessi occhi. E continueranno a dire peste e  corna di chi - e qui non si sbagliano -  ha sempre frapposto ostacoli fra loro e il benessere, ovvero il Partito Democratico, e la sinistra tutta che gli assimilano. Perchè, rozzi e buoni, hanno capito che mentre loro si rompono la schiena e combattono con un mercato in perenne crisi di liquidità e dunque di solvenza, c'è gente che regala i soldi alla presunta "cultura", ai preti e a quelli che parlano di alienazione del lavoro senza averlo mai visto da vicino un solo giorno della loro vita, il lavoro.

Ora, questi costituiscono la spina dorsale del nostro paese. Sono loro la parte più consistente della nostra classe lavoratrice. Ed equiparare il padrone della fabbrichetta che fattura due o trecentomila euro all'anno ai grandi gruppi industriali e finanziari transnazionali è semplicemente ridicolo. Non è lui il nemico. Qualsiasi cambiamento sociale, in questo paese, dovrà passare per le persone con cui io bevevo la birra e guardavo le partite del Lecce. Si dovrà guadagnare il loro consenso. Dovrà parlare la loro lingua, o non sarà capito.

Io nella vita qualche libro l'ho letto, e tanti altri ne leggerò. Ma penso che avrei sprecato il mio tempo, se tutto questo leggere non mi avesse fatto capire che il mondo è fatto di tanti punti di vista, e che capirsi è difficile. Il fatto che io abbia una laurea non rende il mio punto di vista più valido o autorevole di quello dell'operaio di cui sopra, sebbene io sia certo più informato su una quantità di cose. Se voglio che il mio punto di vista prevalga, o perlomeno che sia fatto proprio in parte da chi mi sta davanti, devo proporglielo in modo comprensibile e che abbia un minimo di attrattiva per lui. Altrimenti mi chiudo nel centro sociale e mi dedico alle mie polemiche sterili con questa o quella sigla della sinistra antagonista, ignorando la realtà lampante che nè l'una nè l'altra otterranno mai il minimo risultato concreto da sole. La mia interpretazione dei fenomeni economici e sociali deve esserre tanto convincente da entrare nel senso comune. Finchè il socialismo resterà il diletto esoterico di sette para-sataniche i cui adepti non hanno mai bevuto la birra con gli operai che votano per Berlusconi, rimarrà una chimera vagheggiata da pochi e temuta da molti.

Già vi vedo pararvi innanzi alla mia esile figura (se mai doveste aver letto queste righe), decisi a farmi pagare queste inaudite eresie. Che dirvi? Lasciatemi usare le parole di Nicola Di Pinto ne Il camorrista:

domenica 8 settembre 2013

La telenovela continua...


 Lettori del Bradipo, buona domenica. Quanti sono i santi da bestemmiare? Mi rendo conto che questa domanda, fatta così, a bruciapelo, può mettervi in crisi, vieppiù se non siete assidui frequentatori della parrocchia più vicina. Ma trattasi di domanda retorica, quindi rimettetevi seduti e riponete il calendario gentilmente donatovi dalla salumeria "F.lli Carraturo s.a.s.". Il senso della domanda era il seguente: a un certo punto ci si stanca di inveire a vuoto, e si cerca  un pubblico per le proprie giaculatorie. I vecchi hanno il pullman e l'ufficio postale, io ho questo blog.

Parliamo della nobile arte della telenovela. Inventata da un turista tedesco smarritosi sui picchi andini e pertanto in grave debito d'ossigeno nel 1926 e perfezionata negli anni, diventa uno dei maggiori prodotti di esportazione dell'America Latina. Ci sono rigorosi criteri da seguire, se si vuole girare una telenovela: le donne devono piangere periodicamente, gli uomini devono dividersi fra fetentoni e santi (generalmente si distinguono dall'espressione e dalla forma del baffo) e soprattutto - questa è la cosa più importante - il contesto deve essere appena abbozzato. Altrimenti che differenza ci sarebbe fra Cento anni di solitudine e Cuore selvaggio? La telenovela è la storia di - per dire - Facundo e Florinda. L'ambientazione nel Messico della rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata è poco più di uno scenario. Alla fine la stessa vicenda si sarebbe potuta ambientare in Polonia durante l'occupazione nazista, o a Secondigliano durante la faida del 2003. Insomma, in qualsiasi luogo che presentasse disagio sociale e una qualche turbolenza, a prescindere dalla sua natura.

Forse qualcuno di voi ricorda un post precedente in cui vi parlai di una telenovela tutta italiana; bene, questa è la seconda puntata. Nella prima abbiamo visto come PD e PDL si sono compattati per far fronte alla minaccia M5S. Nella seconda puntata, che si sta rivelando una puntata-fiume, stiamo assistendo alle vicissitudini giudiziarie e politiche di don Silvio Berluscones, perfido terrateniente, flagello dei peones, dei gauchos, dei campesinos, ma soprattutto del ceto medio colto e semicolto e dei redditi da lavoro dipendente (lavoro di concetto, più che altro) che costituisce la base elettorale del PD. Seguendo la logica della telenovela, ovvero quella di inquadrare sempre in primo piano gli attori, e non soffermarsi mai sul contesto, gli spettatori di centro-sinistra vivono con trepidazione l'attesa che li separa dalla loro ossessione: la morte politica e civile di don Silvio. Forse vi scioccherò se vi dico che a me non importa ormai niente delle sorti di questo viejo verde (una tipologia umana che la telenovela ha colpevolmente ignorato), ma è proprio così. Io non voglio Berlusconi in galera, io voglio una politica diversa. Non attori diversi, ma una politica diversa.

Voglio una politica che si rimetta a parlare di lavoro, di occupazione, di distribuzione del reddito, e che lo faccia in modo serio. Non voglio stare a guardare il baffetto di quello, il costume di quella, il magnifico portamento dell'attore che interpreta il leggendario gaucho Martín Fierro, e che resta in scena per ben cinque secondi prima di galoppare verso il tramonto.Voglio un'Italia in cui dei lavoratori si vergognerebbero di pubblicare un documento come questo contro altri lavoratori, o aspiranti tali. Voglio un'Italia meno politicamente corretta e più sveglia, che parli di politica dando pane al pane e vino al vino, e che contrapponga all'egoismo, alla furberia, alla ristrettezza di vedute e alla xenofobia della destra una visione del mondo alternativa, non un lessico diverso. E se, per assurdo, Berlusconi mi desse l'equo canone, io lo difenderei a spada tratta. Se Berlusconi domani mattina tirasse fuori un programma socialdemocratico, io lo voterei. Tocca il culo alle donne? E chi se ne frega. Ha rubato? In Italia chi non ruba sono solo i poveri cristi. Resta il fatto che in questo momento siamo in balia di una cricca di ultraliberisti colti, impeccabili nei modi e nel vestire, e che proprio per questo sono ancora più pericolosi. Perchè, in questa telenovela, l'azione si sviluppa tutta fuori campo. E gli spettatori non si rendono conto che i peones alla mercè dell'arbitrio del perfido latifondista con il baffetto appena accennato e il capello impomatato sono loro.
 

mercoledì 4 settembre 2013

La cena del cretino





Per quanto dura e avara di soddisfazioni sia la vita, una incontrovertibile verità mantiene sempre accesa la spia della speranza: c'è sempre qualcuno più cretino di te. Quando quel cretino è un servo, e le circostanze lo obbligano a difendere un padrone palesemente indifendibile, la cretineria viene fuori prorompente, a zampilli. E tu, pur senza salario, senza una compagna, senza una scheda sonora decente per registrare le tue residue, patetiche velleità musicali, ti senti un po' meno peggio del solito.

Quando un giornale come il Daily Mail, e non qualche oscuro sito Web, pubblica un articolo come questo, vuol dire che il giocattolino sta cominciando a rompersi. La special relationship fra Stati Uniti e Gran Bretagna rischia di non essere poi così speciale nei prossimi anni, di fronte all'emergere di una differenza piuttosto profonda nei paradigmi culturali. Non me ne vogliano gli amici statunitensi, ma qui in Europa siamo un po' meno fessi e ingenui della maggior parte di loro, e il presidente nero può nascondere fino a un certo punto la sagoma di un imperialismo dai contorni quasi ottocenteschi. Non basta buttare lì un Adolf Hitler o un Saddam Hussein a convincerci della necessità di un intervento militare, specialmente quando poi viene fuori che tu, con questo esecrabile tiranno, ci sei andato a cena. Era buono, allora? Mi spiego: Hitler non ha ucciso sei milioni di ebrei on the spur of the moment, come dicono a Casavatore. Lo ha scritto, lo ha teorizzato, che gli ebrei erano il nemico. E non è che avesse tanta simpatia nemmeno per Slavi, nomadi e qualsiasi altra etnia che non fosse quella "ariana". Insomma, uno poteva anche aspettarsela qualche intemperanza dall'imbiachino austriaco. Assad invece no: interlocutore degno di considerazione nel 2009, dittatore sanguinario nel 2013. Come è successo? Una pioggia di radiazioni, come quella che ha investito Bruce Banner? Un trauma infantile rivissuto mangiando una madeleine? Una bolletta persa per colpa di un rigore inesistente dato alla Juve? Niente di tutto questo. Bashar Al Assad ha commesso un fondamentale errore. No, non c'entra niente la brillantina Linetti. L'errore del presidente siriano, a detta del Segretario di Stato statunitense, è stato quello di usare armi chimiche contro il suo stesso popolo.

Benissimo, adesso proviamo a passare al setaccio della ragione gli argomenti di Kerry. Noi non siamo americani, e sappiamo che c'è un'età per giocare a sceriffi e indiani, e si chiama infanzia. Poi, come dice Paolo di Tarso, uno diventa adulto e mette via i giocattoli. La guerra per noi non è un gioco, e per farcela accettare devi fornirci delle buone ragioni. La ragione offertaci da Kerry è la combinazione di due elementi che obiettivamente possono suscitare istintive e fondate reazioni di condanna, se presentate in un contesto di scarsa informazione o, peggio, falsa informazione. Il primo è l'uso di armi chimiche. Chi non prova un moto di sdegno, di sincera repulsione, all'idea che interi quartieri di una città vengano attaccati con gas che provocano estrema irritazione dei tessuti, intossicazione, e infine soffocamento? E deve essere proprio questo il motivo per cui l'uso di napalm da parte degli Stati Uniti in Vietnam causò a suo tempo tanto orrore nell'opinione pubblica. L'altro elemento in questione è la guerra civile. Pur provenendo da un paese che ne vanta una abbastanza lunga e sanguinosa, Kerry non deve aver ben chiaro il concetto di guerra civile. Quello che è in corso in Siria è evidentemente altro. Un paese in cui diverse confessioni religiose convivono più o meno pacificamente da svariati secoli non piomba nel caos da un momento all'altro, senza motivo. E poi, io mi chiedo quanti mercenari stranieri ci fossero sui campi di battaglia di Antietam e Gettysburg. Del resto, a differenza dell'incattivimento repentino di Assad, l'ostilità statunitense verso di lui e il suo popolo poteva già essere percepita nelle parole di Bush Jr., che l'aveva inserita nella sua "nota della spesa" di stati canaglia. Tutto questo, senza parlare del fatto che non una sola prova o indizio della colpevolezza del "regime" siriano sono stati offerti alla considerazione dei popoli statunitense, britannico e francese.

E così, visto che da questa parte dello stagno, lo voglio ripetere, abbiamo smesso di giocare a indiani e sceriffi quando ci siamo visti spuntare i primi peli sul pube, il parlamento britannico ha votato contro l'intervento militare, e secondo l'articolo del Daily Mail  quello francese attende di vedere queste famose prove inoppugnabili dell'attacco del 21 agosto per dare il via libera all'operazione militare. Gli statunitensi, invece, agiranno comunque. Statene pur certi. Allo sceriffo del terrore prudono le dita, e solo un grilletto gli toglierà da dosso quella smania infantile di affermare il proprio capriccio al di sopra di ogni ragione. Noi dovremo farci bastare le nostre residue, patetiche velleità musicali e la magra consolazione di non essere così cretini da berci le frottole e le pantomime di democrazia rappresentativa dell'amministrazione Obama.


martedì 3 settembre 2013

Il guerriero riluttante


Cari amici del Bradipo, avete fatto buone vacanze? Io no. Il mio livello di insoffrerenza rispetto al mondo che mi circonda è arrivato ai livelli dei vecchi che sui pullman napoletani elogiano i bei tempi di "Musellino". Se mi avventuro a uscire di casa, è sempre per qualche valido motivo. Ma l'idiozia, in questa società telematica, non si ferma certo di fronte a una porta chiusa...

Ebbene, l'idiozia in questo caso si chiama Vittorio Zucconi. Uno dice idiozia perchè in fondo spera sempre nella buona fede, e quindi nella possibilità di redenzione, del genere umano. Ma veniamo al punto. Il punto è un'amica mi ha segnalato questo articolo e io, delfino curioso che non sono altro, me lo sono andato pure a leggere. E siccome non sono antiamericano, ma partigiano del buonsenso e dell'onestà intellettuale sì, voglio spenderci due parole.

Partirò subito dall'ammettere che non so e non capisco una ceppa di Vicino Oriente. Questo mi accomunerebbe alla stragrande maggioranza dei giornalisti e opinionisti italiani, se solo loro avessero la sincerità di ammetterlo, anzichè sparare boiate a raffica. Ma qui non si discute l'accuratezza delle informazioni; si parla, come accennavo, di semplice buonenso, e di buona fede.

Il decano del giornalismo italiano comincia parlado di "un'azione militare che nessuno a Washington davvero vuole, ma che tutti sanno essere ormai inevitabile". Ora, se nessuno vuole l'intervento militare, ci deve essere qualche ragione di forza maggiore che lo renda "inevitabile", non vi pare? Uno potrebbe pensare che il buon Zucconi, nella sua magnanima onniscienza, voglia degnarsi di svelarcelo. E invece no. E che, deve fare tutto lui? L'autore del pezzo preferisce ragionare per paradossi. Il primo è "il paradosso storico di una nazione costruita per restare alla larga dai grovigli politici del mondo, per evitare ogni legame con altre nazioni oltre gli oceani, come scrisse nel proprio testamento spirituale il padre della patria George Washington", e che "si ripresenta con implacabile puntualità in Siria". Quello che è successo fra il 1776 e il 2013 non interessa al buon Vittorio, che va a scomodare le ossa ormai ingiallite dello sborone del Potomac per darci il senso di quanto si rompano le scatole gli Americani di intervenire negli altrui conflitti.

Gli Americani, sì. Zucconi si ostina, in tutto l'articolo, a riferirsi agli Stati Uniti e ai loro abitanti come "l'America" e "gli Americani". Che avranno fatto di male le tante nazioni più o meno pacifiche delle Americhe, per essere gettate nello stesso calderone con un paese che da Adam Smith a Milton Friedman non ha praticamente mai deposto le armi? 

È uno spettacolo insieme spaventoso e affascinante, come assistere a un'eruzione vulcanica o alla discesa di una valanga, vedere muoversi oggi con Barack Obama gli stessi meccanismi che negli ultimi 150 anni, da quando gli Stati Uniti sigillarono nel sangue fraterno la loro unità, hanno portato presidenti dopo presidenti, repubblicani come democratici, isolazionisti o interventisti a essere risucchiati nel gorgo delle crisi internazionali.

Qui si raggiunge l'acme dell'idiozia. O della paraculaggine, fate voi. L'unità degli Stati Uniti non è stata affatto sigillata "nel sangue fraterno". Lo sanno anche i semi-colti come me, che è stata raggiunta (o meglio riconquistata) attraverso una guerra civile che, se le parole vogliono dire ancora qualcosa, è l'esatto contrario della fratellanza. E non vedo cosa possa esserci di affascinante nell'assistere a un'aggressione militare, se non sei un degenerato con probabili problemi di disfunzione erettile. Secondo Zucconi, "l'America non può più sfuggire al destino di essere America". Questo concetto non è dell'autore del pezzo. Si tratta di un chiaro riferimento alla dottrina del "destino manifesto", che già a metà dell'Ottocento era largamente diffusa negli ambienti intellettuali e politici americani. Se l'erano già scordato allora, Washington. 

La spiegazione di comodo, quella che la faciloneria dell'ideologismo antiamericano sta risfoderando anche in questi giorni, è che l'interventismo Usa sia soltanto il braccio armato degli interessi commerciali, industriali e oggi finanziari degli americani, mentre una piccola, ma tenace setta di allucinati arriva ad accusarli addirittura di creare gli incidenti che giustificano l'azione armata, dalla distruzione delle Torri Gemelle fino alla fornitura di gas ai ribelli siriani per "autogasarsi" e così provocare la spedizione punitiva contro Assad.

Dunque, prendete atto, se non credete che la bomba di P.zza Fontana sia opera di un eccentrico ballerino anarchico, di essere parte di una "setta di allucinati". Smettetela di fissare quelle scie chimiche, e allineatevi alle idee dei maitres a penser. Inoltre, anche se non vi è stata mostrata mezza prova dell'uso di armi chimiche da parte dell'Esercito Siriano, vi bastino le assicurazioni di Obama, Hollande e Zucconi. 

Ma se è vero che nella storia del mondo, come in quella americana, non mancano episodi di false provocazioni, come l'esplosione del Maine nel porto dell'Avana o l'incidente immaginario nel Golfo del Tonchino, spiegare con formule paleo marxiane o neo complottiste perché gli Usa si lascino risucchiare in azioni armate dalle quali non traggono né conquiste territoriali né bottini di guerra non spiega niente. 

Quindi, Zucconi ci degna dell'ammissione che i false flag non sono un'invenzione delle "sette di allucinati", ma una realtà. Ci dice però anche che non spiegano perchè gli statunitensi si facciano risucchiare in guerre, diciamo così, a perdere. Ci fa poi gli esempi del Vietnam, dell'Afghanistan e dell'Iraq. Forse a Zucconi non risulta che le potenze imperialiste si impegnino in conflitti per garantire la stabilità di una certa area del mondo, o al contrario per destabilizzarla. Al resto dell'Umanità che sa leggere e scrivere invece risulta, e tanto basta a rispondergli. Del resto, basterebbe chiedergli cosa ha guadagnato l'allora Unione Sovietica dalla lunga guerra in quell'Afghanista che lui stesso cita. 

Eppure, di fronte a tragedie inqualificabili come quella in atto fra Assad e i suoi nemici, si alza immediatamente la richiesta di intervento americano, perché anche i meno teneri verso gli Usa sanno che se non si muovono i Marines, le superportaerei, i Seals, i missili Cruise, i droni del Pentagono, non si muoverà nessuno. 

Che cosa si alza? Forse il pisellino di qualche attempato giornalista, nel nominare tutti questi potentissimi armamenti... Ragazzi, siete voi che avete chiesto l'intervento? E dai, forza, qualcuno questa guerra l'ha chiesta a gran voce. Zucconi però non ci fa la grazia di dirci chi, per cui resteremo con questo dubbio.Allude però alle "cattive intenzioni" di Russia e Cina, senza però illustrare neanche quelle. "La prepotenza americana è l'indicatore inverso della impotenza altrui". Insomma, è come dire che se tuo figlio fa i capricci per strada e tu non gli ammolli un ceffone, è "inevitabile" che arrivi qualche energumeno pregiudicato  e faccia "le veci" del padre. Che volete, è il suo destino manifesto. Qualcuno i ceffoni li deve tirare. In questo caso il compito ricade sul "guerriero riluttante" Barack Obama. E adesso studiatevi bene la chiusa del pezzo di Zucconi, e se tornate a leggere lui e il giornale di merda che lo pubblica, cazzi vostri. 

Non subisce certamente la seduzione del teorico di quel "Nuovo Secolo Americano" che imbambolò Bush il Giovane, ma non ha scampo. Non c'è un'altra America, ma soltanto questa, la somma di tutti i successi e i disastri della storia contemporanea, sempre più sola, sempre meno amata, sempre più indispensabile. 

Di cosa subisca il fascino Obama io non lo so, e non credo possa saperlo neanche Zucconi, a meno che non sia un regolare compagno di bevute del presidente statunitense. Credo che negare l'esistenza di una "America" contraria alla politica estera della sua leadership sia irrispettoso verso quei milioni di americani che non vogliono l'ennesima operazione di bullismo internazionale. D'altra parte, la cautela del Congresso potrebbe far pensare proprio che quella "America" fa sentire sempre di più il proprio peso. Ma per Zucconi l'America "indispensabile" è questa. Un guerriero riluttante. Un padre che si toglie la cinta e picchia i figli degli altri. Che dire? Nascondiamo i bambini, e speriamo che questa follia passi presto.