venerdì 29 novembre 2013

Pane, rose e paraculi

Cari lettore del Bradipo, vi ricordate di quando Ken Loach rifiutò il premio del Torino Film Festival per esprimere solidarietà ai precari sottopagati (e alcuni di loro licenziati senza giusta causa) dalla Rear, che rendevano possibile quella kermesse con il loro lavoro? Bene, c'è un seguito. Al Festival di quest'anno ha vinto Carlo Mazzacurati, il quale non solo si è preso il premio, ma si è anche permesso di criticare Ken Loach per la sua scelta. In questo articolo si spiega in modo abbastanza chiaro la polemica, tornata a infuriare quando il regista inglese è stato informato dall'USB, che segue la vertenza e lo tiene aggiornato sulla vicenda, delle nuove dichiarazioni sul suo conto. Dice Mazzacurati: "Prendo anche quello di Ken Loach. Ha fatto male a non venire, se avesse saputo che umanissimo festival è questo non avrebbe fatto questo sgarbo. È stato male informato."
Bene. Siccome io non volevo commettere lo stesso errore del buon Ken, dopo aver letto le dichiarazioni del cineasta recentemente premiato a Torino, sono andato a guardarmi su Youtube il documentario Dear Mr Ken Loach, che racconta di come un regista famoso e acclamato in tutto il mondo si sia interessato della sorte di alcuni oscuri lavoratori e della lotta portata da un piccolo sindacato contro l'umanissimo festival di cui sopra. E mi sono persuaso che i male informati, semmai, sono quelli che nel loro cinema raccontano e denunciano realtà che poi, con il loro agire, contribuiscono a perpetuare. 

Di Virzì ricordo un film dal titolo Tutta la vita davanti, che al di là di alcuni limiti estetici dei quali non è il caso di mettersi a discutere adesso, sembrava essere, se non proprio dalla parte dei lavoratori precari, almeno fortemente solidale con la loro condizione. Ne emergeva una certa sensibilità, una amara constatazione della ferocia e della insostenibilità, tanto nella sfera lavorativa quanto in quella dei rapporti umani, della società in cui viviamo. Trovo quindi desolante e imbarazzante che questo signore, in quanto direttore dell'edizione di quest'anno del TFF, abbia preso le parti del suo amichetto (perchè a questo livello siamo, questi non sono persone serie e non meritano di essere trattati da tali) dopo la ovvia replica di Loach. Virzì esprime stima per il collega (si fa per dire) inglese, e ipotizza che sia stato "strumentalizzato", forse dall'USB, o forse anche dal M5S, che attraverso una sua deputata invita Mazzacurati a restituire il premio. Intervistato da Repubblica per l'edizione online, Virzì non trova di meglio che attaccare "i cialtroni del Movimento Cinque Stelle" e dare a Ken Loach del disinformato. A mio modesto avviso, pensare che il filmmaker di Bath parli di qualcosa di così serio senza prima informarsi vuol dire non aver visto neanche uno dei suoi lavori, o essere un cretino a tutto sesto. 

Ma la cosa più bella, la vera e propria ciliegina sulla torta, è che questo omuncolo, che se avesse il minimo senso della decenza se ne uscirebbe con un più dignitoso "no comment", ammette candidamente che non è il suo lavoro, non gli spetta informarsi su cosa faccia e abbia fatto la Rear (e di che stiamo parlando allora, Virzì?), per poi scagliarsi contro chi vorrebbe tagliare i fondi alla "cultura". Laddove cultura vuol dire pane e rose per me e i miei amichetti, che ci allisciamo il pelo a vicenda, ci consegnamo premi l'uno con l'altro, e andiamo avanti a ranghi serrati senza buttare l'occhio al paese reale, se non quando si tratta di raccontarlo nei nostri lavori cinematografici. Sarà una forzatura, ma a me Virzì ha fatto pensare al poeta de Il maestro e Margherita di Bulgakov, che si suicidava perchè capiva di aver sempre scritto poesia in cui non credeva veramente. Non che io speri tanto da Paolo Virzì. I paraculi come lui sanno che le pietre piovono sempre e solo sui poveracci. Basta tenere al suo posto la riff raff, la gentaglia che si permette di non coprire con i propri cenci le pozzanghere quando i signori scendono dalla carrozza. Certo, come si fa a pretendere che l'artista scenda dal piedistallo che gli spetta e si mischi con la classe lavoratrice

mercoledì 27 novembre 2013

Hacer patria


Cari lettori, se ieri ho elucubrato dopo pranzo, oggi elucubro dopo cena. La notizia del giorno è la decadenza di Berlusconi, ma io me ne infischio, e vi parlo dei miei scalcagnati percorsi mentali. Purtroppo io non riesco a sentirmi parte della vita pubblica di questo paese, non riesco a gioire della fine politica di uno dei più abili e astuti criminali della storia d'Italia, perché mi pare che la fila per rimpiazzarlo sia lunga. Magari non sarà una singola figura, ma una pletora di felloni. Il fellone organico. 

Dunque, via all'elucubrazione. Ho appena terminato la lettura del Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane, di cui abbiamo già parlato in un precedente post. Ricordate l'illustrazione del sussidiario che lo raffigurava? Quell'immagine era il prodotto di un Risorgimento ben diverso da quello auspicato dal martire di Sapri, e della susseguente deriva verso il fascismo. Pisacane sapeva bene che i vincitori si scrivono la storia a loro uso e consumo, ma forse mai avrebbe potuto immaginare di esssere trasformato in uno dei simboli di un processo unitario costruito sulle macerie del suo Sud. Si fa presto a dire "patriota". La patria che sognava Pisacane era repubblicana, socialista e sovrana, libera da qualsiasi ingerenza straniera. Alla repubblica ci siamo arrivati, con grandissima fatica, ma tanto il socialismo quanto l'effettiva sovranità ci sfuggono ancora.

Per dirla tutta, Pisacane era a favore di un socialismo libertario e federalista, in cui mai si sarebbe potuta creare una questione meridionale (concetto su cui torneremo). Bene, a questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: perchè un partigiano della libertà e dell'uguaglianza è stato disposto a sacrificare la vita all'idea di nazione? E perchè questa idea ha poi assunto una connotazione negativa nel discorso marxista e, più in genere, di sinistra, europeo?

La risposta mi sembra piuttosto semplice: la casa non è, come concetto in sè, nè bella nè brutta. Dipende da come la costruisci. Pisacane capisce che per essere liberi nel mondo in cui vive bisogna stare in una casa grande, e che se non si erige quell'edificio si resterà schiavi dello straniero. Non è che a lui facesse specie la schiavitù solo nel caso in cui il padrone fosse straniero, infatti parla di abolizione dei titoli nobiliari e della proprietà privata. L'idea centrale del libro è, in buona sostanza, che senza patria non c'è libertà e non c'è uguaglianza. 

Questa stessa idea la si ritrova tradizionalmente non solo nei processi di liberazione delle colonie, come è piuttosto ovvio, ma anche poi nelle rivoluzioni di ispirazione marxista. La patria può essere più piccola (Cuba, ad esempio) o più grande, come quella sognata da Bolivar e dal Che, ma comunque non è mai assente dal discorso rivoluzionario comunista e socialista, particolarmente in Sud America. Non lo è neanche oggi che l'indipendenza politica è ovunque un processo compiuto. Ma il fatto di avere una bandiera e un governo formalmente indipendente non vuol dire certo avere la casa comune cui accennavo prima. Lo sapeva bene il Comandante Chavez, che tanto insistè sul concetto di "hacer patria", costruire la patria. Perchè quella ereditata dal passato, architettata dalla borghesia a suo uso e consumo, non era abitabile.





Di come si costruiscano le patrie borghesi abbiamo un tragico esempio proprio qui in Italia, del quale Gramsci fa un resoconto puntuale e una critica penetrante nella Questione meridionale. La spaccatura in due del paese, prodotto di un'unificazione in chiave imperialista ed espansionista, è identificata come uno dei motivi della debolezza e dell'inefficacia del partito nell'organizzazione delle masse popolari. Il Sud, ridotto alla miseria, al degrado materiale e morale e alla virtuale assenza di una vita civile, rappresenta il vero tallone d'Achille del movimento operaio. Il fascismo, con il suo patriottismo retorico e di facciata, non risove il problema, e l'antifascismo soccombe anche per quello. Il risultato della mancanza di una patria lo abbiamo sotto gli occhi: una "casa comune" più simile a un appartamento di studenti fuorisede, in cui tutti sporcano senza pulire, rompono senza preoccuparsi di riparare, e quando metti qualcosa in frigo devi stare attento che non se la mangi qualcun altro. Della vita pubblica siamo, tuttalpiù, spettatori. Milioni di italiani oggi hanno seguito le votazioni per la decadenza di Berlusconi da senatore. Molti esultano, e me ne sfugge il motivo. Sono gli stessi che alla prossima scempiaggine commessa dal PD dichiareranno sui social network di vergognarsi di essere italiani. Io non mi vergogno di quello, semmai del fatto che l'Italia non è la mia patria. Allo stesso modo mi rendo conto di quanto sia necessario che lo diventi. Perchè chi non ha una patria è, e sempre sarà, uno schiavo.


martedì 26 novembre 2013

Deus ex machina

E che machina! 2893 cm³di cilindrata, 20 cavalli di potenza, circa 12 km al litro. Ridete pure di questo rudimentale mezzo di locomozione, ma il Modello T rappresenta un punto di svolta epocale nella storia del capitalismo industriale. Per la prima volta un'automobile veniva fabbricata in serie, applicando le innovazioni del taylorismo, allo scopo di avere un prodotto accessibile a un vasto pubblico. Questa è la mirabile rivoluzione della borghesia imprenditrice, che ha detto all'operaio: "Sì, lo so, il tuo è un lavoro duro, penoso, sgradevole, logorante; ma adesso anche tu potrai goderne i frutti! Il progresso è qui! Se riesci a non berti quel che resta dello stipendio dopo aver pagato l'affitto, e metti da parte qualcosa ogni mese, un giorno anche tu potresti andare in automobile come i signori".


In questo modo, il lavoratore assumeva una nuova identità, anch'essa determinata dal capitale: quella di consumatore. Il padrone, che già si era impadronito del tempo del lavoro, adesso irrompeva in quello che un tempo era stato dedicato alla socialità e alla famiglia, in quello che è chiamato il tempo libero (libero una fava, come vedremo), e lo consacrava all'acquisizione. Lo consacrava. Io, cari amici, sono fesso e culturalmente limitato, ma non uso le parole a caso.

Adesso dobbiamo parlare di dio. No, scusatemi, non vi ho detto che questa è un'elucubrazione post-prandiale. Dunque, se volete, elucubrate appresso a me, e seguitemi (apparentemente) di palo in frasca. Dunque, dio. Il costante oggetto della domanda sbagliata. Esiste dio? Ma certo che esiste. Il punto è capire che cosa è dio. L'osservazione di mille popoli diacronicamente e diatopicamente lontani ci indica senza dubbio che dio è inseparabile dall'esperienza umana. Come dice l'arabo pazzo, l'uomo non può esistere senza dio. Ovvero, dio e l'uomo sono in rapporto dialettico. Dio è ciò che non conosciamo, che non capiamo, che non riusciamo a fare; di conseguenza, è delega, è rinuncia, ed è, quindi e soprattutto, autorità. L'uomo, per contro, è la libertà. La ragione di dio è astorica, eterna e immutabile. Quella dell'uomo è progressiva. Progredire vuol dire trasformarsi, evolversi. In questo consiste la libertà dell'uomo. Dogmi e dottrine appartengono a dio. Dell'uomo è l'eresia. Eppure, senza dio l'uomo non esiste, come abbiamo detto. Qualsiasi sua conquista, per avere ulteriore progresso, per non lasciar morire il processo dialettico, dovrà essere consacrata a qualcosa. Il fordismo e il taylorismo sono eresie, immediatamente consacrate alla logica del capitale. Il Modello T è un idolo, eretto dall'ingegno umano al dio che oggi viene adorato dalle masse del primo e secondo mondo, della cosiddetta civiltà dei consumi.  

Un altro arabo pazzo sosteneva che l'unica autorità da rispettare è quella dell'uomo che ha appreso un mestiere. Se qualcuno ha bisogno di una traduzione dall'inglese all'italiano si rivolge a me, e io gliela faccio. Ma questo vuol dire inevitabilmente delegarmela. Io potrei fare degli errori, e quella persona non potrebbe accorgersene. Ora però ipotizziamo che quella persona sia un avvocato, e che io un giorno possa avere bisogno della sua consulenza perchè  i gendarmi,  incuriositi dai rumori provenienti dalla mia tipografia, mi hanno sorpreso a stampare propaganda sovversiva con la mia Pedalina da cento copie al minuto: a quel punto sarò io a dover delegare la mia difesa a lui. E ci conviene, a entrambi, che a fare da mediatore in tutto ciò sia la vile pecunia, e non un senso di appartenenza comune che ci affratella? Insomma, visto che la civiltà e la natura umana ci impongono di delegare, non è meglio che a garantirci gli uni dagli altri sia un principio di mutuo appoggio, libero prodotto del nostro arbitrio, e non rapporti di produzione camuffati da libertà?


Un arabo pazzo e le sciagurate conseguenze del self-publishing

Bene, ora che ho citato tutti e tre gli arabi pazzi del mio repertorio, cedo la parola a Gramsci, confermando un eclettismo che temo mi possa condurre al biasimo delle genti, ma che non abbandono e, anzi, rivendico con la fierezza di cui solo gli stolti sono capaci. Non vi dico da chi mi è arrivata la segnalazione del brano a cui sto per fare riferimento, altrimenti i gendarmi arrivano sul serio a prelevarmi. Nel Quaderno 14 Gramsci critica il concetto di "rivoluzione permanente", in quanto viziata di meccanicismo. Ci dice che “le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.” Si risolve in una sorta di "attesa mistica" della rivoluzione, che dovrebbe scoppiare da sé. La conferma che Gramsci aveva ragione e Trotzky torto ce la fornisce il fatto che non solo nessuna delle rivoluzioni socialiste successive alla stesura dei Quaderni è scoppiata in modo spontaneo, ma anche il fatto che più regredivano le organizzazioni politiche di sinistra, nei vari paesi, più si indebolivano la coscienza e la lotta di classe. L'organizzazione dei lavoratori indietreggiava, e il Modello T avanzava. Il socialismo indietreggiava, la barbarie avanzava. L'uomo indietreggiava, dio avanzava. Perdonatemi adesso la commistione fra il pensiero dell'arabo pazzo e quello di Gramsci, ma questa è l'eresia di oggi pomeriggio: la rivoluzione non la fa dio, la fa l'uomo. Il deus ex machina, come tutti gli dei, è costrutto umano. Il motore a scoppio scoppia perchè lo fa scoppiare l'uomo. Dio non fa scoppiare niente. Per favore, non deleghiamogli più un compito che non ha.

domenica 24 novembre 2013

Primero hay que trabajar


Amici del Bradipo, una volta ogni tanto anche il vostro pigro mammifero arboricolo scende dall'albero e si prende una boccata d'aria e di vita. Ieri sera si è recato, pede lento come gli si confaceva, a Galleri Art, il nuovo spazio occupato nella galleria Principe di Napoli. In cartellone l'esibizione di Rafael Viloria, giovane e valido cantautore venezuelano, preceduto dal navigato ma non certo senescente Massimo Ferrante e seguito da un altro giovane di prospettiva, nella fattispecie nostrano, che risponde al nome di Andrea Tartaglia. Diciamo subito che ne è valsa la pena. E tenete presente che mi è necessario tanto, ma proprio tanto sforzo per mettermi le scarpe e scendere, specie quando il tempo è così uggioso. Ho fatto bene a farlo.

Dopo aver passato un'oretta buona ad armeggiare tra cavi e mixer per eliminare un fastidioso rumore di sottofondo, cosa che mi ha ricordato i lustri vissuti da musico fallito, mi faccio mescere una birra e mi siedo. Nemmeno il tempo di mettermi comodo, che la chitarra del maestro Ferrante mi mette l'arteteca addosso. Bevo e percuoto la terra con il piede senza remore, come mi ingiungono di fare i nostri antenati comuni, per la breve durata dell'esibizione. Solo pochi brani e il maestro stacca la chitarra e va via, per un impegno lavorativo. E già il musicista che lavora per me guadagna automaticamente punti. Non mi metto a spiegarvi perché, sarebbe un discorso lungo, e magari lo capite lo stesso leggendo il resto del post.

Sale sul palco Rafael. Un po' nervoso per la gripe, l'influenza che gli ha abbassato la voce, e per la barriera linguistica. Si fa aiutare da un compagno ispanofono, che traduce qualche verso dei vari pezzi prima dell'esecuzione. A un certo punto, omaggio a Victor Jara. Una canzone che si chiama Ni chicha ni limoná. Nel testo, le seguenti parole:

Si usted quiere más que toca/primero hay que trabajar

Se vuoi più dello stretto necessario, prima bisogna lavorare. Quelli fra voi così masochisti da leggermi con assiduità capiranno quanto questa frase possa piacere al vostro Bradipo. Conoscevo la canzone, ma ieri sera per la prima volta l'ho capita veramente. L'ho capita alla luce di quello che sta succedendo in questo paese. Quando poi, in una conversazione successiva al concerto, Rafael mi dice: "La gente non ama più il lavoro, e questo è un problema", o qualcosa del genere, io strabuzzo gli occhi, e mi dico che questo giovanotto deve essere il mio alter ego venezuelano e con i capelli. 

Questo, cari amici del Bradipo, perché noi viviamo in un paese di dottrinari dalle voluminose epe, il cui scopo nella vita non è modificare di una virgola la realtà che li circonda, bensì farsi dare ragione. Poco cale, a costoro, che la ragione è notoriamente dei fessi. "Pragmatismo" è, per questi alti funzionari della Motorizzazione del ben pensare, una parolaccia. Se non ti rilasciano prima la patente di rivoluzionario, non puoi circolare. Il lavoro? E che ne sanno questi del lavoro? Ne possono parlare in termini astratti, ma la verità è che non lo capiscono. La canzone di Victor Jara è una critica intelligente e ironicamente severa della classe media, e della sua assurda pretesa di consumare senza lavorare. Questa è la sfida: ripensare noi stessi, da consumatori (passivi, assoggettati alle scelte e alle decisioni altrui, umanamente immaturi) in lavoratori, e quindi artefici del mondo di cui vogliamo godere. Non basta ripartire più equamente il prodotto di un lavoro del quale non siamo protagonisti; dobbiamo riprenderci il lavoro, altrimenti continueremo a oscillare fra l'uomo di ieri e quello di domani, fra una concezione e un'altra dell'esperienza umana. Non saremo ni chicha ni limoná.

lunedì 18 novembre 2013

Furbacchioni in vetrina


Vi imploro, datemi tregua. Sono fesso, non lo nego, e anzi lo rivendico. Anch'io cado vittima dell'errore e della stoltaggine, ma almeno, perdinci e perbacco, provo a farlo con moderazione. Su Facebook, invece, assisto a un festival perenne della'idiozia e dell'inanità. Le vette più sublimi si raggiungono con Pippo Civati, e tutti coloro che hanno passato più di cinque minuti della loro vita a prenderlo sul serio. Su costoro, e sulla loro progenie, ricade la colpa indelebile di aver trasformato in una sorta di guru un furbacchione che politicamente è meno di zero.

Ho fatto un'affermazione forte, e adesso la devo sostanziare. Se non lo facessi, sarei poco serio. Dunque, perché Civati è politicamente meno di zero? Per rispondere a questa domanda, credo sia utile accennare a come si è trasformato nel sentire comune il concetto di politica in Italia, negli ultimi 20-25 anni. 

Una volta, me lo ricordo perché non sono più un giovincello, la politica parlava delle cose. Non era metadiscorso. La politica parlava di fare, e spesso arrivava perfino a fare. Questo perché aveva un ruolo, che il momento storico le aveva assegnato: quello di mediare fra diverse visioni del mondo e soprattutto opposti interessi. la politica in Italia ha prodotto lo Statuto dei Lavoratori, la scala mobile, l'equo canone, e d'altra parte ha sorretto e incoraggiato lo sviluppo di un capitalismo nazionale, e gli ha consentito di sopravvivere alla concorrenza di sistemi produttivi molto più solidi e competitivi, in particolare quello tedesco.
Poi, all'inizio degli anni '90, il mondo ha preso a trasformarsi alla velocità della luce. Il blocco dei socialismi reali ha ceduto di schianto. Maastricht ha segnato l'inizio di un cammino che avrebbe portato, sotto l'egida della barbarie neoliberista, all'unione economica e monetaria che sta facendo a pezzi i popoli di mezza Europa. In questo scenario, la politica non aveva più, non poteva più avere il ruolo di prima, ma ne doveva assumere uno nuovo: catalizzare il consenso elettorale intorno a proposte e programmi che non invadessero il campo dell'economia e della finanza, ma al contempo consentissero ai cittadini  - ormai di fatto sudditi - di identificarsi con la forza politica di riferimento, e continuare ad avere l'illusione di vivere in democrazia.

Non è un caso che gli anni '90 abbiano visto una netta affermazione della "sinistra" in molti paesi europei. Per la prima volta gli ex comunisti arrivarono al governo in Italia, sebbene alleati con i cattolici, e in gran Bretagna  Blair ottenne una storica landslide victory, una vittoria a valanga. Le politiche di quest'ultimo, così come quelle di Prodi, erano chiaramente improntate al lasseiz faire, eppure questi signori passavano, in qualche modo, per esponenti della "sinistra". Come è possibile?

Perché, come accennavo prima, la politica è diventata metadiscorso. Il suo oggetto non è la trasformazione della realtà (la storia è finita, dunque cosa c'è da cambiare?), bensì uno sterile filosofeggiare che altro non è, in ultima analisi, che una contrapposizione di identità ideologiche pre-confezionate. Non le identità ideologiche del mondo novecentesco, costruite a partire dal prendere atto della propria appartenenza a una classe, con tutto ciò che questo comportava, ma identità il cui valore è esclusivamente estetico (mi correggano i filosofi se uso il termine impropriamente), ovvero relativo al modo in cui all'individuo piace percepirsi. Dunque, questa politica non è altro che nutrimento per il narcisismo di individui ormai completamente alienati dai concetti di democrazia e cittadinanza così come sono stati declinati dall'Illuminismo fino alla fine degli anni '80. E' un prodotto di consumo, un bene voluttuario.

Pippo Civati tutto questo lo sa bene, essendo molto più colto e intelligente di me. Quello di cui difetta è l'onestà intellettuale che gli sarebbe necessaria per ammettere che, se vuole realizzare solo la metà di quello che propone, dovrebbe cominciare col lasciare il partito in cui milita, vera fucina in Italia della concezione della politica alla quale alludevo prima. Se si vuole che la politica riacquisti dignità la si deve rendere utile, le si deve ridare il suo spazio. La si deve far uscire dalla vetrina dietro cui l'hanno messa quelli che volevano governare il mondo con mano libera, mentre noi litigavamo su parole senza la minima conseguenza sulla realtà. Ci si deve liberare dell'assurda convizione che sia questione di competenza (da quale mente di tecnocrata fascista è stato partorito un simile concetto???) e che un'idea debba piacerci, non già essere valida, per essere condivisa. Altrimenti continueremo a discutere di quale negozio ha la vetrina più bella, mentre Equitalia ci pignora i mobili.

lunedì 11 novembre 2013

Meat and two veg


Meat and two veg è un'espressione che indica l'idea britannica di una dieta equilibrata: carne più due tipi di verdura. La prima garantisce le proteine, mentre il contorno offre un importante apporto in termini di vitamine. Purtroppo, in questa epoca sempre più cinica e povera di valori, meat and two veg si usa sempre più spesso per riferirsi all'apparato genitale maschile; ma non è questo il senso che ci interessa, nella fattispecie.

Dunque, la carne per la sostanza, le verdure per, diciamo così, l'equilibrio. Criteri simili si potrebbero applicare alla costruzione della rosa di una squadra di calcio: c'è bisogno di chi corre e di chi sa vedere il campo, di chi sa giocare il pallone e di chi sa recuperarlo, di chi attacca gli spazi e di chi li copre. Le squadre vincenti non sono necessariamente quelle in cui militano i migliori talenti, ma quelle che assortiscono meglio l'organico.

Lo stesso Diego Armando Maradona, il più grande calciatore quanto meno del XX secolo, che sfidava le leggi della fisica e dell'ottica con la semplicità e la noncuranza del vero genio, non riuscì a vincere uno scudetto da solo. Nella stagione '84-'85 il Napoli si piazzò a un deludente ottavo posto. Fu con l'arrivo dei Bagni, dei Giordano, dei Garella e di tanti onesti e più o meno oscuri gregari, che finalmente riuscimmo a cucirci il Tricolore sul petto.

Al Napoli attuale, a mio modestissimo avviso, non manca la sostanza. Il nostro attacco è uno dei più forti, se non il più forte in assoluto, della Serie A. Quello che ci difetta è l'equilibrio dato dalla verdura. Male assortito, in particolare, il centrocampo, con un Hamsik che di fronte alle grandi sfide rientra di colpo nella pre-adolescenza e un Inler che, mo' ci vuole, ha urgente e disperato bisogno di mangiarsi la fetta di carne. Intendiamoci, stiamo parlando nel primo caso di un campione, nel secondo di un buon giocatore. Semplicemente, non si può pretendere che il lavoro sporco lo faccia tutto il pur straordinario Behrami. In difesa beneficeremmo forse di un centrale più rapido e reattivo (e magari più scafato) di Fernandez, e non guasterebbe un terzino che aggiungesse un po' di dinamismo e sagacia difensiva.

A gennaio il mercato si riapre. Se il cazzaro di Castelvolturno ha veramente intenzione di vincere, interverrà in maniera significativa. La ricetta per la vittoria prevede tanti ingredienti, non la prima cosa che ti capita di trovare nel frigo. La carne che abbiamo messo a cuocere merita un degno contorno. Altrimenti non avremo mai un top team, bensì, come si può chiaramente intuire da un esame cursorio dell'immagine che correda questo post, un saciccio.

sabato 9 novembre 2013

I soldi che ci sono sempre e quelli che non ci sono mai

 
Cari amici, rassegnatevi. Sono un qualunquista, un populista, un "grillino", carente di quel sano realismo politico italiano che ha portato milioni di persone a votare per decenni la Democrazia Cristiana, il partito che ci ha donato i manganelli Mario Scelba e le infinite macchinazioni di Giulio Andreotti, tanto per fare un paio di nomi a caso; quel sano realismo politico che ci porta a dire, come quel nobilotto di manzoniana memoria, "adelante, con juicio", non sia mai un progresso troppo rapido dovesse farci sentire qualche scossone; quel sano realismo politico, infine, che ci ha indotti ad assistere impassibili, mentre quattro guappetielli in uniforme ci toglievano ogni libertà e diritto, pensando che la cosa più conveniente fosse tenere la testa bassa e sperare di non prenderle, o almeno di non prenderne troppe. Quel sano realismo politico che è, in buona sostanza, l'accettazione della tirannide.

Saprete forse che quei populisti, qualunquisti e marrani felloni del M5S hanno presentato una proposta di legge per istituire un reddito di cittadinanza. Questi fascistoidi, essendo evidentemente sprovvisti di cultura politica, prova ne sia che credono nell'esistenza delle sirene, si sono fatti inspiegabilmente abbindolare dall'idea che il lavoro sia un diritto. Un'idea, correggetemi se sbaglio, storicamente cara alla Sinistra. A questo punto Stefano Fassina, il John Maynard Keynes del Partito Democratico, che naturalmente è un partito di Sinistra, ha detto che questa è una pia illusione. Non c'è la copertura. Comincia a venirmi il sospetto che i qualunquisti potrebbe non avere tutti i torti quando parlano di crisi delle ideologie: i populisti fascistoidi propongono qualcosa che sembrerebbe di sinistra, e la Sinistra dice che non si può fare.

Non c'è la copertura. Questo vi dice la gente seria, la gente che ha letto i libri, che non perde tempo a guardare i video sulle scie chimiche. Orsù, un po' di realismo! Se fosse stato possibile, non vi pare che lo avremmo già fatto? Eh, già! Adesso arrivate voi, che pochi mesi fa non sapevate nemmeno dov'era il Senato, e restituite la dignità ai disoccupati! Non si può fare.

Ebbene, io che sono qualunquista, populista e carente di realismo, vorrei a questo punto fare un'osservazione. Perché l'argomento della copertura che non esiste salta fuori sempre e soltanto quando si tratta di fare spesa sociale? Quanto denaro sarà stato buttato nella TAV? Era proprio essenziale l'alta velocità ferroviaria? E sono necessarie le consulenze con compensi spesso incongrui che enti pubblici, come ad esempio la RAI, affidano continuamente all'esterno? A giudicare dalla programmazione della televisione di stato, si direbbe che i suoi dipendenti difficilmente potrebbero fare peggio. Eppure in quei casi i soldi non mancano mai.

Non so voi, ma io di assistere a tutto questo sperando che prima o poi qualche briciola tocchi anche a me non ne ho voglia. Affibbiatemi tutti gli appellativi che vi pare, io tifo per il populismo, il qualunquismo, l'avventurismo politico di questi ingenuotti. Perché il "juicio" è la modalità della conservazione, non del progresso. Perché io non dico che bisogni versare sangue in nome della Rivoluzione (democratica e pacifica, non vi allarmate), ma non potete pretendere di cambiare un paese senza versare qualche goccia di vino sulla tovaglia buona. Se non ritenete questo cambiamento necessario, prendete atto di essere dei conservatori, e facciamola finita con le pantomime. Se invece lo auspicate, forse quelli poco realisti siete voi: quelli per cui i soldi ci sono sempre sono, sono sempre stati, e sempre saranno, il nemico del progresso.

domenica 3 novembre 2013

The dark side of the moon

Bene, ormai vi sarete resi conto che questo è una sorta di diario di bordo. Così come Antonio Gramsci intendeva trasformare la sua detenzione in un tempo di studio, così io ho da tempo deciso di fare della mia permanenza forzata nella condizione di sfasulato e reietto un tempo di elucubrazione, essendomi preclusa l'azione in quasi tutte le sue forme. 

Sogghigno al pensiero dell'oltraggio che ho certamente arrecato al vostro senso del sacro, accostandomi al più grande intellettuale italiano di tutti i tempi, ma che ci volete fare? Io sono un cretino ormai palesemente irredimibile, e poi vogliamo negare questi sollazzi da primate arboricolo a un condannato alla deboscia perpetua? Ridete di me, dunque, o compatitemi. Fate voi. E continuate a seguirmi, se così vi piace,  nell'intricata selva di argomentazioni in cui ho in mente di condurvi.

Poc'anzi, un commento su Facebook relativo all'ennesimo editoriale ad mentulam canis di Eugenio Scalfari mi ha colpito. Lo definiva un "signore feudale". Sapete, se mi leggete assiduamente, quanto spesso io ricorra al concetto di feudalesimo per spiegare la realtà di questo paese. Con la locuzione "signore feudale" questo internauta aveva, a mio modestissimo parere, colto un aspetto importantissimo del discorso politico italiano in questo momento.

Chi è il signore feudale? Uno che vive delle fatiche altrui. Siccome lui ha le armi e sa usarle, i marrani (vili per definizione) gli si sottomettono, e spesso anche di buon grado. Trovano sicurezza nella gerarchia, nell'ordine e nella protezione dai pericoli che offre loro. Dal feudalesimo si esce, attraverso un lavorio secolare, per merito di una classe mercantile che dice "io sotto questo ombrello non ci voglio stare". Al potere militare dei feudatari e dei loro vassalli oppone il potere economico raggiunto attraverso il lavoro. Sorgono i comuni, che si costruiscono le loro cinta murarie e formano le loro milizie. Questi comuni rappresentano uno dei punti più alti raggiunti dalla civiltà medievale. E quando, già infiacchiti dall'ascesa di parassiti "di produzione propria" e trasformati in signorie, saranno definitivamente piegati all'arroganza imperiale, nel primo Cinquecento, comincerà il declino della penisola italiana.

Le società si sono sempre divise, almeno per quanto riguarda la storia europea conosciuta, fra coloro che lavoravano e coloro che vivevano a spese dei primi. La verità immensamente rivoluzionaria che gente come Scalfari vorrebbe nascondere è che oggi questo non è più necessario. Il concetto di democrazia, se compreso a fondo e messo in pratica tanto nella sfera politica quanto in quella socio-economica, ci affrancherebbe da parassiti di qualsivoglia genere. Però bisogna guardare il lato oscuro della Luna, non quello che il sistema mediatico feudale continua a illuminare con i suoi riflettori. Bisogna capire che, con tutti i nostri CD, iPad, iPod, PC e Smartphones noi, il popolo, siamo gli eredi dei marrani, degli artigiani, dei mercanti che si ribellarono all'Impero e dissero "il nostro ordine sociale ce lo costruiamo da noi". E, proprio perché abbiamo un patrimonio di conoscenze e tecnologie che quelli non avevano, dobbiamo andare oltre: dobbiamo costruire un ordine così giusto, così ben disegnato, così conforme alla nostra natura e alla sua capacità di evoluzione, da sbaragliare per sempre feudatari e vassalli, e stabilire una volta per tutte che il lavoro può e deve essere l'unica fonte legittima di sostentamento. Maneggiare una spada non è per tutti, pensare può e deve esserlo. I signori feudali non ci servono più.