lunedì 29 dicembre 2014

Carne 'e maciello


 
Cari amici, come è andato il Natale? Avete mangiato come tanti patrizi romani? Avete giocato a tombola, mettendo la dovuta enfasi su tutti i numeri più scostumati, fra i quali non possiamo mancare di citare 6, "chella ca guarda 'nterra", 29, "o pate d'e ccriature" e 71, "omme 'e mmerda"? Avete seriamente danneggiato il tavolo buono con un martello da fabbro nel vano tentativo di alterare l'irriducibile integrità del torrone? Bene, adesso io vi ammorbo l'anima. Mettetevi comodi.

Il mio Natale è stato del tutto ordinario, sotto quasi tutti gli aspetti. Anche io ho partecipato a tavolate con parenti, ho fatto e ricevuto regali, ho oziato mentre le lucine dell'albero lampeggiavano gaie e placide, e il capitone viveva una seconda vita nel mio apparato digerente. Un Natale ordinario, dicevo, sotto quasi tutti gli aspetti, meno uno: io sarei dovuto ripartire da Napoli per Genova, la città in cui mi sono trasferito per lavorare. La città in cui, diciamola com'è, sono emigrato.

Non che io voglia paragonare la mia condizione a quella del personaggio della canzone da cui prende spunto e titolo questo post, ci mancherebbe; la mia è un'emigrazione deluxe. Non vivo in un paese straniero, non faccio un lavoro duro né usurante, non sono costretto a mandare buona parte del mio stipendio a casa. Eppure non posso fare a meno di pensare, tanto più in questo momento dell'anno, che se avessi avuto la possibilità di costruirmi un futuro nella città in cui sono nato e cresciuto, sarebbe stato meglio.

Il migrante, qualunque sia il suo status, non si sposta per viaggiare, per conoscere, come ripeteva invano Massimo Troisi in Ricomincio da tre. Il migrante va dove lo vuole il mercato del lavoro, esattamente come qualsiasi merce va laddove sia richiesta. Non c'è assolutamente niente di bello in questo. Un certo tipo di retorica da manifesto della Benetton, quella esaltazione di un melting pot che serve a forgiare solo sfruttamento, e che purtroppo la nostra "sinistra" parlamentare sparge a piene mani su uno dei fenomeni più tragici e preoccupanti del mondo contemporaneo, non è solo fuorviante, ma anche ferocemente ipocrita. 

Chiamatemi reazionario, se vi fa piacere. Io affermo senza mezzi termini di vagheggiare un mondo becero e leghista in cui ciascuno se ne resta a casa propria, a meno che non abbia motivi precisi per volersi spostare. Voglio che il senegalese abbia da lavorare in Senegal, anziché affrontare un viaggio che ne mette a repentaglio la vita per far nascere un sorriso sulle labbra di qualche radical chic, e gonfiare il conto in banca di qualche canaglia nostrana. Voglio che il napoletano viaggi veramente per conoscere posti nuovi, tornando alla fine nella città prospera e civile che meriterebbe. Voglio che i padroni smettano di ricattarci con una povertà e una disperazione d'importazione. Perché, al netto delle favolette edificanti per "sinistrati", questo è il migrante: carne 'e maciello. E chi sventola i fazzoletti e batte le mani davanti ai bastimenti che ce lo portano, al macello, è per definizione un cannibale.

 



 

martedì 9 dicembre 2014

Lotta di classe


Cari amici del Bradipo, ben ritrovati. Sempre che ci siate ancora, s'intende. Non mi stupirei se, dopo una lunga e colpevole latitanza da Facebook, vi foste dimenticati di me. Il fatto è che sono stato travolto dalle ripercussioni emotive e pratiche di un lavoro molto più impegnativo di quanto non mi aspettassi. Chi vuole fare bene l'insegnante, in una scuola come quella che è capitata a me, deve impegnarsi tanto, soprattutto se inesperto. Perdonatemi, dunque, se potete; mi sono assentato, ma sono tornato onusto, e dico ONUSTO, di curiose farneticazioni.

Vado rimuginando questo post da un po', e ho sempre avuto paura di scriverlo perché temevo di non riuscire a redere giustizia all'esperienza fatta in questi due mesi di lavoro. Due mesi che, vi assicuro, sembrano molti di più. Come sapete, amo la sintesi, e voglio dunque riassumere quell'esperienza in una breve e semplice locuzione: per la prima volta nella vita ho toccato con mano cosa voglia dire "lotta di classe". L'ho fatto lontano da cortei, manifestazioni, presidi, occupazioni, assemblee. L'ho fatto nelle aule dell'IPSSA Bergese. E ora, se vi interessa, vi racconto come.

All'inizio di questa avventura entravo nelle classi proponendomi di dare un taglio libertario al mio approccio. Sono stato seguito da una minoranza di studenti, che poi mi hanno dato anche riscontri abbastanza positivi in sede di verifica. Ma molti - ahimé - mi eludevano. Ho creduto - ma ora so che sbagliavo - che non fossero interessati ad apprendere, o perlomeno ad apprendere la mia materia. Man mano che procedevo nel mio cammino notavo una tendenza sempre più spiccata da parte di alcuni fra gli elementi più rumorosi e fastidiosi ad attrarre la mia attenzione, con qualsiasi mezzo. E allora ho cominciato a studiare anch'io. No, non a leggere i mille miliardi di testi esistenti sui problemi dell'apprendimento, della motivazione e via dicendo; ho cominciato a studiare, come una sorta di intrepido antropologo, i comportamenti e i rituali di quei giovani selvaggi. Li ho osservati armeggiare con gli immancabili smartphone, che non si fanno mancare neanche quelli che non comprano i libri di testo perchè non avrebbero i soldi. Li ho ascoltati chiacchierare fra di loro di rapper italiani poi ascoltati e classificati senz'altro come subumani. Ho assistito al loro spintonarsi, prendersi a scappellotti, fare la lotta greco-romana. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe stato colpevole da parte mia non intervenire. Dovevo dare uno sbocco al disagio che di tanto in tanto palesavano, dovevo dare la possibilità di scegliere a chi non l'aveva mai avuta.

Io non vado a scuola per istruire. Aborro il concetto di istruzione, ma se pure così non fosse, non mi sarebbe possibile inculcare messaggi diversi da quelli che inculca il mondo extrascolastico. E' certamente sofisticato il modo in cui la cultura dominante assoggetta le classi subalterne, ma è perfettamente visibile a chi sappia fare due più due. Il suddito non deve imparare a fare, a pensare, a valutare. Il suddito deve limitarsi a processare, possibilmente con la parte più ancestrale e rozza del cervello, stimoli provenienti dall'esterno. Un insegnante che dissenta da questa visione delle cose è automaticamente in trincea. Sta facendo, nel più pieno dei sensi, lotta di classe.

Ho fatto cose delle quali io stesso mi sono sorpreso. Ho messo delle note. Ho gridato come il fottuto sergente Hartman. Sono intervenuto in quei consigli disciplinari che all'inizio mi davano solo un grande malessere. Lotto con le mie classi. Cerco di insegnare loro l'immenso potenziale di liberazione del lavoro. Lotto per quelle classi. Lotto per la classe lavoratrice, per un mondo di uomini e donne liberi e uguali. In questa trincea si sta come d'autunno sugli alberi le foglie, ma è qui che si trovano i miei fratelli. Dopo questo accesso di buffo titanismo e questo bieco plagio delle parole di Ungaretti, vi ringrazio dell'attenzione e vi so appuntamento alla prossima tregua.

giovedì 16 ottobre 2014

Azione e reazione, potere e impotenza


Stamattina il risveglio, cari amici, è stato duro. Ho dormito male, mi sono svegliato durante la notte, insomma non ho riposato bene. Arrivato a scuola, ho trovato la polizia. Qualcuno aveva rubato i tablet di cui il corpo docente si avvale per tenere il registro elettronico. Fra gli alunni è stato subito il panico. "Prof, è arrivata la cinofila?" Ho risposto che i cani non c'erano ma, se fossi stato in loro, non avrei tentato la sorte. Esodo verso i bagni. Poco dopo gli agenti delle forze del (dis)ordine, in una mossa che immagino si debba essere almeno a destra di La Russa per comprendere, hanno sigillato tutti i distributori di bevande e merendine. Io, che nonostante i ripetuti inviti di Facebook non ho mai "mipiaciato" Giorgio Almirante, quella mossa non l'ho proprio capita. Doppio panico. In qualche modo sono riuscito a fare lezione. Alle 14.30 avevo di nuovo consigli di classe, per cui mi sono intrattenuto a mangiare un mesto panino in un ristobar della tristissima Via Sestri, alla quale dedicherò prima o poi un post, e sono tornato in caserma. 

Ora sono a casa e ho voglia di interloquire con persone che stiano a sinistra non solo di La Russa, ma anche possibilmente di quella feccia bipartisan che ha ridotto la nostra scuola, come del resto il nostro paese, in queste condizioni. E ho voglia di dire a qualcuno ciò che per me è ovvio: che se tratti delle persone, peraltro dei ragazzi nell'età più critica del loro processo evolutivo, da criminali, probabilmente alcuni di loro diventeranno effettivamente dei criminali. Che se rinunci a dialogare, a spiegarti, a farti capire, ma fai lo sbirro, prima o poi dovrai chiamare gli sbirri veri, quelli con la divisa e la pistola, perchè tu non sarai più in grado di gestire determinate situazioni. 

Detto questo, e se non siete d'accordo vi invito caldamente a non commentare e non leggermi mai più, vorrei approfondire un attimo la riflessione. Scendo un attimo a prendere la mia birretta pomeridiana per riconciliarmi con la vita e sono subito da voi.

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Bene, rieccoci qua. Dicevo che mi sarebbe piaciuto approfondire un aspetto, ed ora vi preciso quale: quello del concetto di potere come si delinea nel docente italiano medio. Costui o costei è una sorta di Otello Celletti senza divisa, paletta e motocicletta, e quindi più frustrato. Il suo scopo primario non è di natura pedagogica, ma disciplinare. Riuscite a credere che la prima volta che sono entrato in una classe, in quella casa di correzione che mi è toccata in sorte, i ragazzi si sono alzati in piedi? Ho cercato con lo sguardo Franti e Garrone, ma ho trovato solo l'occhio vitreo del fanciullo profondamente ammorbato e con i filtri affettivi a manetta. "¡No pasarán!" sembravano gridare le loro sinapsi, di fronte ai miei timidi e patetici tentativi pedagogici, e la colpa era chiaramente di quei carabinieri che si sono ritrovati per iinsegnanti. Scusate l'astio, ma quando vedo ragazzi di 16 anni invocare l'intervento dell'autorità perchè "il mio compagno mi insulta" io provo un irrefrenabile quanto inattuabile desiderio di scassare il crocifisso della processione, quello di ferro pesante (cit.) in faccia ai "colleghi" che ai consigli di classe sanno parlare solo di note, sospensioni e presidi. Li avete voluti a vostra immagine e somiglianza. Se vengono fuori ladri, sono comunque usciti meglio di voi.

Siete impotenti, vigili di questa minchia. Siete  impotenti perchè il vero potere consiste nella capacità di creare, di coltivare, di migliorare, tutte cose di cui voi non avete la più pallida idea. Siete rami secchi, e se io fossi uno di quei ragazzi vi sfanculerei esattamente come fanno loro. Orbene, mi sono sfogato. Ora vado a bere un'altra birra per togliermi l'immagine di La Russa dalla mente. Non vorrei un'altra nottata insonne. Alla prossima, amici miei.

lunedì 13 ottobre 2014

Il curriculum occulto e l'idiozia palese


Cari amici del Bradipo, non fatevi sviare dal titolo del post: non intendo farvi una lezioncina accademica, perchè capra come sono rischierei che un McLuhan o chi per lui saltasse fuori da dietro un tabellone pubblicitario e mi dicesse che non ho capito niente del suo lavoro e che è sorprendente come io abbia ottenuto una supplenza annuale all'IPSSAR Bergese. Nessuna lecture, dunque, ma solo qualche riflessione da fesso reoconfesso. 

Guardando i miei studenti inebetirsi ognora davanti ai loro smartphone, capisco quanto sia maledettamente vero che esistono mezzi di comunicazione caldi e freddi, e mi rendo penosamente conto di non essere che un ingombrante, fastidioso iceberg nel mondo cognitivo dei miei alunni. I quali apprendono le loro lezioni, a mio modesto avviso tragicamente fuorvianti, in un universo che riesce a farsi prestare attenzione perchè parla il mellifluo idioma della delega e delle deresponsabilizzazione, che una mente poco avvezza a problematizzare la realtà può facilmente scambiare per libertà. Questa è una difficoltà oggettiva, con la quale deve misurarsi qualunque insegnante. E il rischio di uscire sconfitti dalla guerra contro il torrido mondo simbolico del consumo indotto è piuttosto alto.

A questo punto potreste chiedervi quali strumenti, quali strategie predispone una scuola "di frontiera" per far fronte a una simile sfida. Ve lo dico subito: nesssuno strumento, nessuna strategia. L'unica preoccupazione che ho ravvisato nel preside, nel vicepreside e in buona parte del corpo insegnanti in questo scorcio iniziale di anno scolastico è stata quella di arrivare alla fine della giornata senza danni. Le uniche dinamiche viste in atto, quelle della colpevolizzazione e della punizione.

Io, che ho il vezzo di infischiarmene della fila per due e dell'avanti marche, ho deciso di provare a non seguire quella strada. Devo essere creativo, devo "vendermi" a questi ragazzi, devo riuscire a trovare un qualche codice da condividere con loro. E' idiozia palese pretendere che mi seguano fra i ghiacci polari. E nessuno dà retta a un idiota, se capisce che di idiota si tratta. Proverò dunque a camuffarmi, nella speranza che non si accorgano di quanto sono fesso, e che ogni tanto distolgano lo sguardo dai loro cellullari per chiedersi di cosa vado blaterando. Fatemi gli auguri.

venerdì 10 ottobre 2014

La disciplina dell'acqua

Ieri a Genova l'acqua ha travolto una persona, uccidendola. Nel 2011 c'erano state altre vittime. Da allora, secondo le chiacchiere che si sentono in città, niente è stato fatto per riassestare l'equilibrio idrogeologico della città ed evitare ulteriori tragedie. Si parla talvolta, di fronte a fenomeni metereologici di violenza inusuale, di imprevedibilità ed eccezionalità. Se ci si ragiona da un punto di vista meno infantilmente antropocentrico, si capisce invece con molta facilità che non c'è assolutamente niente di imprevedibile in un'esondazione: l'acqua non fa altro che seguire la sua natura, la sua logica.

La prima reazione allo straripamento di un corso d'acqua è in genere quella di invocare la costruzione di nuovi argini, più alti e solidi dei precedenti. Questo vuol dire applicare all'acqua la logica delle società umane, una logica di repressione e sopraffazione. Come se l'acqua si potesse intruppare, incarcerare, privare del diritto a scorrere. In alternativa l'uomo si arrende e dichiara stato di allerta, una sorta di bandiera bianca alzata davanti a un presunto nemico che in realtà nutre la più completa indifferenza nei nostri confronti.

Non sono un metereologo, ma non credo sia necessario essere posseduti e ispirati dallo spirito del Colonnello Bernacca per dire che imparassimo a cooperare, a dialogare, a negoziare con l'acqua,  nessuno morirebbe più di una morte così assurda. Se offrissimo all'acqua la possibilità di seguire percorsi a lei riservati, togliendo di mezzo un po' di cemento, di laterizi, di pietra, in buona sostanza di ostacoli che stizziscono, indispettiscono l'acqua e ne fomentano la violenza, questa fluirebbe placida, collaborativa e generosa.

La difficoltà è pedagogica. Crea le condizioni per l'apprendimento di strategie nuove, modi diversi di porsi di fronte all'esperienza e risolvere i problemi. Le autorità cittadine sembrano non aver appreso niente dai morti del 2011. Oso azzardare l'ipotesi che non apprenderanno niente neanche dal morto di ieri. Non possono capire l'acqua, troppi argini costringono il loro pensiero. La soluzione non è nella logica del potere, del dominio, dell'annullamento; è nella logica dell'acqua, di quell'elemento irriducibile che tanto ha da insegnarci.


lunedì 29 settembre 2014

La vecchiaia e la morte

Cari amici, se avete il masochismo di seguirmi con regolarità saprete che non parlo quasi mai dei fatti miei, per un semplice motivo: io non ce li ho, i fatti miei. Io non ho una vita degna di tale nome. O, per meglio dire, non ce l'avevo fino a una settimana fa. In pochi giorni di vita a Genova ho avuto tre chiamate per supplenze da scuole pubbliche e un colloquio con la preside di una paritaria. Preside la quale mi ha contattato mezz'ora, non vi dico fesserie, mezz'ora dopo aver ricevuto la mia email. Due sono, dunque, le constatazioni da fare: la prima è che pare comincino a esserci le basi materiali affinché io possa avere una vita; la seconda, che farà arrabbiare qualcuno di voi solo in quanto profondamente, amaramente vera, è che Napoli è un cadavere.

Genova, capoluogo della Liguria, regione più vecchia d'Italia, sarà pure una sonnolenta ottuagenaria; nei pochi giorni trascorsi qui, questa è l'impressione che mi ha dato. Ma la differenza fra un'ottuagenaria e un cadavere è ben chiara a tutti, voglio sperare. Sarebbe alquanto increscioso se quel practical joke che è lo stato italiano, per risparmiare sulla spesa pensionistica, cominciasse a interrare anziani. Gente che non è morta, ma che lo sarà presto, mi direte; e un giorno questa grottesca logica potrebbe non essere tanto lontana dalla realtà. Intanto, però, il vegliardo deambula, lento pede come gli si addice, e si gode la vita in una città rilassata e rispettosa degli spazi personali. Lo sapevate che la croce di San Giorgio, vessillo della perfida Albione, è stata a questa concessa in uso dai Genovesi? Sembra che il vostro Bradipo non sia finito per caso in questa città. Qui i vicoli sono più stretti che a Napoli, ma la gente non ti sale addosso. Il mio spazio è il mio spazio. Se pensate che questa sia freddezza vi consiglio di provare a stare una settimana senza essere praticamente aggrediti ogni volta che uscite di casa. Ma stiamo divagando. Torniamo a parlare di morte.

Ci sono tre cose che si possono fare con i morti: la prima è mangiarli, ma non ve la consiglio se eravate legati al defunto, la seconda è sotterrarli, e la terza è mummificarli. Quest'ultima è la sorte toccata alla mia città. Imbalsamata, messa in una teca e preservata in saecula saeculorum dal contatto col mondo dei vivi. Napoli è un bellissimo cadavere, ed è lodevole cercare di strapparla all'orrore della putrefazione e alla tristissima sorte dell'oblio; ancora più lodevole sarebbe provare a resuscitarla. Le possibilità sono pochissime, praticamente nulle. Me ne rendo conto. E certo non saranno gli abitanti di questa specie di santa reliquia, abitudinari come il sangue di San Gennaro, a dare la spinta necessaria per strapparla alla morte.

Beh, che vi devo dire? Io corteggerò la mia vecchietta cortese e arzilla, passeggerò con lei sul lungomare allagato dal sole, seguirò una frugale dieta di focacce e trenette al pesto (i vecchi, si sa, mangiano poco), e invecchierò con lei guardando placidamente un tramonto dopo l'altro, quando il sole si va a coccare a mare e muore sereno nel suo letto dorato, dopo aver vissuto.  

giovedì 11 settembre 2014

Il diritto di Don Abbondio

"Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi".

Siamo nell'anno 1628, e don Abbondio sta facendo ritorno a casa per la solita strada. Non è una persona di grande ingegno o cultura, nè di particolare prestigio, se non quel poco di cui può godere un semplice curato di campagna. Non è neanche coraggioso, Don Abbondio, non è certo fatto della stoffa dei martiri; e non ha amicizie in alto loco che lo possano proteggere. Don Abbondio è un debole, alla mercè delle angherie e delle prepotenze di chi può permettersi dei bravi, ovvero una milizia privata. Non meglio attrezzati di lui a difendersi dal sopruso sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, gente umile che non porta la spada. Vivono in una società che è ancora, per molti versi feudale; specialmente per quello che riguarda le condizioni di vita dei poveracci come loro, e i loro rapporti con il potere costituito. Vivono in un mondo in cui le armi e la legge sono essenzialmente la stessa cosa.

Dal 1628, anno in cui la vicenda immaginata dal Manzoni appare assolutamente verosimile, ad oggi, qualcosa è cambiato. I despoti, incalzati dalle folle urlanti, hanno magnanimamente acconsentito a illuminarsi, onde evitare che ad illuminare il cielo nottuno fossero le fiamme che si levavano dai loro palazzi. Hanno concesso costituzioni, hanno istituito assemblee elettive, hanno limitato i privilegi e l'arbitrio delle aristocrazie. Mentre livree e parrucche incipriate retrocedevano, i ceti produttivi avanzavano, e strappavano una conquista dopo l'altra. E quando l'esercito dei salariati creato dalla Rivoluzione Industriale ha preso coscienza della centralità del proprio ruolo nella produzione e distribuzione della ricchezza, non h tardato a mobilitarsi per far sentire la propria voce. Anche loro hanno ottenuto conquiste importanti.

Tutto questo è stato reso possibile da un fenomeno ben preciso: la formazione del concetto di Stato moderno. Senza l'idea che, per ottenere e mantenere un ordine fondato sulla giustizia, è necessario disarmare i bravi, non saremmo mai usciti dal bivio presso il quale gli sgherri di Don Rodrigo fermano Don Abbondio e gli fanno la camorra che dà il LA ai Promessi Sposi. Qualsiasi possa essere la nostra idea di giustizia, io credo che sia importante ricordarci sempre di questo fittizio ma purtroppo verosimile sopruso, prima di contestare l'idea del monopolio statuale della forza.

Da alcuni decenni a questa parte si è fatta strada nel mondo un'idea antisociale e pericolosa: quella che lo Stato debba retrocedere rispetto alla sfera individuale. Questa idea potrebbe anche essere valida, se avessimo imparato a fare una chiara distinzione fra il diritto dell'inidviduo e il sopruso del forte che il diritto sancisce. In una società profondamente asimmetrica nei suoi rapporti socioeconomici, questa ritirata dello Stato vuol dire tornare dritti dritti fra le braccia di Don Rodrigo e dei suoi bravi. In questa società colui che, a differenza del mite Don Abbondio, ha la cattiveria che serve a minacciare, a picchiare, a uccidere, ne fa un patrimonio. Sia che porti una divisa, sa che vada in giro in borghese, il violento è al servizio dell'arbitrio. Può esercitarlo in proprio o per conto terzi, fa poca differenza. Nel momento in cui viene meno il concetto di vita collettiva retta da regole comuni, contestabili solo sul piano politico, e dunque ricercando il consenso necessario a cambiarle, viene meno ogni argine al "si salvi chi può".

So di andare controcorrente, e nei post precedenti appare evidente, credo, il perchè. Ma io, che i bravi non li ho mai potuti sopportare, reclamo il diritto del mite a essere salvaguardato. Reclamo il diritto dell'anziano a non essere investito da qualcuno che poi scappa via senza soccorrerlo perchè è sprovvisto di patente e assicurazione; reclamo allo stesso tempo il diritto a essere fermato dalle forze dell'ordine senza subire minacce o violenze verbali e fisiche. Reclamo il diritto, mentre me ne torno tranquillamente a casa, a non dover alzare gli occhi dal breviario - o dal Kindle - per assicurarmi che lì dove la strada si biforca non ci siano ad aspettarmi uomini armati dalla barbarie.

mercoledì 10 settembre 2014

Partire dalla fine


Cari amici di questo blog sprovveduto e cazzaro, buon pomeriggio. Basta parlare di sceriffi e indiani, leggi e norme, grilletti sensibili e sicure staccate. Oggi voglio librarmi leggiero nell'aere dell'astrazione. Io sono un osservatore dell'essere umano. Preferisco, nella maggior parte dei casi, osservarlo da lontano. Esito, titubo, non reputo sicuro avvicinarmici troppo. So quanto sia feroce, dotato di un'arma poderosa e difficilmente gestibile che a nessun altro animale la Natura ha donato: la fede. E allora mi affaccio a un balcone, e come in una vecchia canzone di uno stimabilissimo tabagista erotomane, guardo passare gli stronzi. Non se ne abbiano a male coloro che dovessero sentirsi chiamati in causa: l'epiteto è un'esigenza ipertestuale, e non c'è da parte mia rancore alcuno. Tanto più che lo stronzo potrei essere io. Ognuno prenda le precauzioni del caso, se lo ritiene opportuno e desiderabile.

Oggi parliamo di fede e ragione. Un argomento leggero leggero, non vi pare? Ma ve l'ho detto che questo blog è sprovveduto e cazzaro. Nello scrivere i miei post io seguo un solo criterio: quello di riempire vuoti percepiti. Se i miei two cents, come dicono a Mariglianella, vi fanno comodo, metteteveli in tasca; altrimenti lasciateli dove sono, io non mi offendo. 

Dunque, partire dalla fine. In una narrazione, è perfettamente legittimo. L'autore, essendo demiurgo e padrone incontrastato del testo, nei limiti formali che lui stesso si è posto, può fare lo que le da la gana, come dicono a San Giorgio a Cremano. L'autore, al momento dello scrivere, è creatore, è normatore, è dio. Molto più frustrante la realtà, in cui mille nessi di causa ed effetto, attuali o potenziali, ti tengono in scacco. Ad esempio, nella mia men che mediocre opera di fiction, io ho ucciso un perfido e cinico professore universitario; nella vita reale non mi è mancata occasione di incontrarne più di uno, ma non ho mai osato neanche alzare la voce contro di loro, sapendo che sarei stato brutalmente represso se l'avessi fatto. Crocifisso in aula magna, roba così... Ma stiamo tergiversando. Il punto è che, nella realtà, il più vincolante degli elementi è il tempo. Questo, a meno che certe teorie di cui non ho mai sentito discutere prima della quarta birra, ma che comunque non sarei in grado di comprendere, siano esatte, procede in una sola direzione. Per questo, nella realtà, se vogliamo scoprire la verità su un evento o un fenomeno oggetto di indagine, dobbiamo procedere dall'inizio verso la fine. Acquisire elementi, confrontarli, sottoporre le nostre ipotesi al vaglio della ragione, e solo dopo aver compiuto questo percorso pronunciarci ed esclamare: "Il colonnello Mustard in cucina con il candelabro!"

"E che palle!" mi dirà qualcuno. Costui ha la fede. Di qualunque cosa stiamo parlando, la risposta è già lì, nella sua rappresentazione. Qualunque cosa non può che essere una delle tante manifestazioni di Dio, un capitolo, un paragrafo, una riga del suo sontuoso libro in cui il Diavolo ci è già stato mostrato con le spire nel sacco. Dunque, la linearità della narrazione si rompe, il dottrinario rifiuta di partecipare alla scrittura collettiva di quel libro pessimo, noioso, raffazzonato che è la storia di tutti noi, e aggiunge una postilla al suo tomo polveroso ricolmo di verità.

Che succede quando il dottrinario si confronta con il resto di noi poveri mortali, che brancoliamo umilmente nel buio, sospettando ora del maggiordomo e ora della giovane e irrequieta ereditiera, cercando indizi con la lente di ingrandimento e provando a ragionare con il nostro Watson, il nostro Biscuter, o addirittura magari dovendoci arrangiare con un Catarella qualsiasi? Che lui arriva e dice una cosa tipo "SO' STATI I ZINGARI!!!!!" (cusate il caps lock, ma credo che qui ci stesse tutto). E fa di tutto per venderci il suo finale, peraltro ormai trito e ritrito. Hai voglia di ripetere che questo elemento non combacia, che quella ricostruzione non convince, che i dati mostrano altro. Lui insisterà, se non riesce a prevalere dialetticamente vi sminuirà, vi attaccherà, vi ignorerà. Ma cosa pretendete? Gli avete toccato lla parola del Signore. Pensate cosa vorrebbe dire scoprire che non esistono Dio e il Diavolo, i santi e i demoni, ma solo il buon ordine e il delitto, e che sta solo a noi indagare e riformare. Gli assassini peggiori sareste voi. Il vostro deicidio ci lascerebbe tutti orfani di un finale veramente definitivo, con l'insopportabile angoscia di essere solo una riga, una parola, un fetente di segno di interpunzione nella storia, fluviale quanto mal scritta,  di una umanità piccola, fragile, incerta.

martedì 9 settembre 2014

Via, via, la polizia!


Cari lettori, vi tocca un altro post sulla tragedia di via Cintia. Mi ha così colpito la reazione dell'opinione pubblica a quell'evento, che non riesco a smettere di pensarci, e quindi di scriverne. Forse ricorderete il post sull'ispettore Callaghan, e le accuse di fascismo che gli venivano mosse dalla mia augusta genitrice. In numerose occasioni il babbo ed io, a cui invece piaceva lo sporco Harry, ci siamo beccati epiteti poco lusinghieri. "Criptofascisti" non andava ancora di moda, ma il senso era quello. Il motivo credo, o almeno spero, di averlo spiegato a sufficienza: la società italiana non riesce a concepire il concetto di delitto e castigo. Eppure a me, da studente di Scienze Politiche, bastò aprire il Barile (non quello di birra, che pur ci è congeniale, ma il manuale di diritto pubblico) a pagina uno per incontrare il concetto dello stato contemporaneo come fondato su una cosa denominata monopolio della forza. Occhio a questo concetto, che è centrale nel mio (tentativo di) ragionamento. Callaghan si batte contro una società corrotta, in cui il denaro ha distrutto ogni più elementare norma di buona convivenza. Insomma, è un amico dell'ordine. Se qualcuno non riesce a distinguere l'ordine dal fascismo, non è colpa mia.

In questi giorni ho letto analisi che paragonano l'episodio del Rione Traiano a quello di Ferguson. Mi sembra un paragone un po' forzato. Al di là del fatto che negli Stati Uniti esiste una minoranza etnica creata dallo schiavismo che ancora oggi, per quanto ci faccia schifo e/o meraviglia, è vittima di pregiudizi razzisti, lì l'opinione pubblica radicale non mette in dubbio che Ferguson, Missouri, sia parte degli Stati Uniti d'America, e che debba essere soggetta alle sue leggi. Le quali poi si potranno contestare sul piano politico, contro le quali si potranno anche organizzare iniziative di disobbedienza; ma perchè si vogliono, si reclamano, si pretendono regole diverse, NON la totale assenza di regole. Mi fa sorridere che molti non si accorgano di come deplorare l'orrore neoliberista da un lato, e giustificare certi atteggiamenti di spavalda, antisociale strafottenza dall'altro, sia una contraddizione grande come una casa. Se stabiliamo che dobbiamo essere corresponsabili, solidali, cooperativi, e che le nostre società devono essere organizzate intorno a quei principi, dobbiamo stigmatizzare tutti quei comportamenti e quelle logiche antitetici ai nostri valori, che oscurano i nostri orizzonti. 

Naturalmente la risposta emotiva alla guapparia implicita in un discorso di Marchionne non può essere la stessa che avremo di fronte alla guappparia esplicita e primitiva di chi, per colpe non sue, non è in grado di immaginare una vita diversa. Ma far passare quest'ultima, rinunciare a contrastarla come va contrastata l'idea che il lavoro sia un privilegio e non un diritto, è un grosso errore. Significa consegnare ragazzi come Davide Bifolco a personaggi come quelli che hanno approfittato della sua morte per dire che loro la polizia, nel loro quartiere, non ce la vogliono.

Io penso che la polizia debba essere soggetta come tutti a regole e leggi, e come vi ho già detto chiaramente non voglio sceriffi nella mia città e nel mio paese; ma non voglio neanche che abbandoni le nostre strade, perchè vorrebbe dire lasciarle all'arbitrio, alla violenza sconsiderata e incosciente di chi, lungi dal desiderare di porre fine alla propria oppressione, desidera solo restituire qualche colpo. Io voglio che la polizia ci resti, in quelle strade, ma non più da sola, a esercitare una funzione di repressione che da sola è unicamente, torniamo sempre lì, arbitrio e violenza. Io voglio che lo Stato si prenda le sue responsabilità, perchè il Rione Traiano è Italia, non una cazzo di riserva indiana. Napoli è Italia, ed è in credito con la Storia. Il Sud è Italia, e la sua popolazione tanto italiana quanto quella di Treviso o Alessandria.

Chi pensa che Davide Bifolco sia stato ucciso dallo Stato secondo me si sbaglia di grosso. La sua morte si è prodotta in un vuoto lasciato proprio dallo Stato, che un tempo non si limitava a reprimere. Non so chi può salvare il Rione Traiano, ma sono certo che non lo farà chi dice "la camorra ci difende, lo Stato no!". Se questa istituzione obsolescente e corrotta, ma per il momento insostituibile, completa il suo ritiro dal "teatro di guerra", abdicando a una delle poche funzioni che ancora svolge, il Rione Traiano è perduto, i ragazzi sono perduti, noi tutti siamo perduti. E adesso che mi avete fatto sentire un vecchio acido e bofonchiante mi reco ai giardinetti ad agitare il mio bastone e gridare che si stava meglio quando si stava peggio.

domenica 7 settembre 2014

La civiltà del clan


Cari amici, l'estate sta finendo, e un anno se ne va. Devo tornare a scuola, angoscia a volontà. In spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più. Mio blog prediletto, mi resti solo tu... Una amena filastrocca, ma ridendo e scherzando si dicono le più grandi verità. Se pesiamo questa vita al netto dell'immondizia che ci propina dalla mattina alla sera in varie forme, soprattutto per colpa nostra che ci ostiniamo a voler vedere Padre Pio nelle bustine del tè, come direbbe il compianto Dermot Morgan, rimane veramente poco. L'idiozia e la violenza (che poi sono parenti stretti) hanno invaso ogni centimetro quadrato del nostro habitat, costringendoci a cibarcene o a retrocedere nelle ombre, chiuderci negli armadi di un buonsenso a cui ormai manca l'ossigeno. Moriremo magari savii, ma moriremo presto. Prima, però, ci dibatteremo come il pesce nel secchio del pescatore.

Ce l'avete presente il kilt, il gonnellino scozzese? Forse saprete che i complessi motivi riprodotti su questo capo di abbigliamento erano un tempo precisi segni distintivi: indicavano l'appartenenza a un clan. Qui, se siete curiosi, ne trovate una breve lista. La società scozzese nel Medio Evo, in particolare nelle Highlands, era caratterizzata da un'organizzazione basata appunto su questo tipo di raggruppamento sociale. Non stupisce che agli inglesi, molto più avanti nel processo di formazione nazionale, i figli di William Wallace e Robert Bruce apparissero come dei selvaggi. E non era solo nelle forme di organizzazione politica e sociale che gli inglesi avevano un vantaggio: alla battaglia di Culloden, nel 1746, i gacobiti scozzesi affrontarono i moschetti  delle Giubbe Rosse armati di spade. Tanto di cappello al coraggio, ma io una bolletta con i giacobiti vincenti non me la sarei mai giocata. E voi?

Per organizzare il lavoro, i commerci e tutto quant'altro consente a una società di mettere le basi del proprio progresso materiale e spirituale è necessario andare oltre la logica del clan. Quest'ultima è però ottima a trasmettere valori e norme culturali. I quali, naturalmente, saranno sempre sconfitti da quelli che producono società più avanzate. Il clan è la forma associativa, detto senza il minimo senso spregiativo, del selvaggio.

Non a caso il termine è stato spesso usato nel linguaggio giornalistico per riferirsi a organizzazioni criminali (in quel caso, probabilmente, una punta di disprezzo e senso di superiorità morale poteva esserci). Dopo tutto, mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti avevano rituali di affiliazione, una visione del mondo molto conservatrice, e una logica in cui da una parte c'era il loro gruppo, e dall'altra il resto del mondo. Ma non bisogna pensare, secondo questo umile fesso, che i criminali italiani si associno in quelle forme perchè selvaggi; lo fanno in quanto italiani.

Non ho le basi teoriche per sostanziare questa mia intuizione, essendo, come voi tutti sapete, un semi-analfabeta. Ma qualche giorno di delirio collettivo sul mio social network preferito mi ha convinto oltre ogni ragionevole dubbio di questa lampante verità. Mentre io, vittima di studi anglistici e smodate libagioni in compagnia di figli della perfida Albione e dellle sue tante colonie, riflettevo su questo umile blog intorno all'anomia preoccupante che ci sta distruggendo quello che in inglese si chiama the fabric of society, i miei amici internauti dibattevano se fosse necessario e/o opportuno fermarsi all'alt di un carabiniere, e se fosse accettabile sparare a chi contravvenisse a quell'ordine. Nel mio mondo di esule virtuale dall'italica patria (un esilio che onestamente non mi pesa più di tanto) le risposte sono entrambe scontate: sì alla prima domanda e no alla seconda. Ma questo, fate attenzione al passaggio fondamentale del (tentativo di) ragionamento, questo perchè io non ho un clan di appartenenza.

Quando si nasce e si vive in un paese costruito e retto su menzogne, abusi, prepotenza e assenza di principi chiari e validi per tutti, diventa difficile farsi un concetto della convivenza civile, e della fondamentale idea di cittadinanza. Si preferisce spesso aderire a un clan, indossarne il tartan e costruire, almeno in quell'ambito ristretto, rapporti di solidarietà, riconoscimento reciproco, equità. E non si capisce, o perlomeno non si dà mostra di aver capito, che in quella scelta c'è il seme delle propria inevitabile sconfitta, le premesse della condanna a rimanere selvaggi, alla mercè di chi ha raggiunto una concezione più evoluta del vivere sociale. Ed ora, viisto che non sono in grado di trovare una chiusa all'altezza del mio alato pensiero, finisco il post con un'allegra canzoncina scozzese.

sabato 6 settembre 2014

Sceriffi e indiani

Non so se avete mai sentito quella dell'esame di scuola guida del camorrista. Alla domanda "quale auto ha la precedenza all'incrocio raffigurato in questa illustrazione?" lui rimane un attimo perplesso, poi guarda con fiero cipiglio l'esaminatore e chiede con voce risoluta: "e qual è 'a machina mia?" Dunque, in questo post vi vorrei parlare di anomia

A me non piace il modo in cui è organizzato il mondo, e quindi anche questo paese. Credo che il capitalismo sia un sistema intrinsecamente violento, e vorrei vederlo sostituito da un altro ordine. Un altro sistema di convivenza, basato su altre regole e altri principi. Possibilmente, se non è chiedere troppo, mi piacerebbe vedere la specie umana allontanarsi da una logica di coercizione per andare verso una logica di libera associazione e consenso. Ma, ahimé, sono intrappolato in un film di sceriffi e indiani. Mentre i proiettili e le frecce mi fischiano sopra la testa, proverò ad argomentare un'ipotesi terza rispetto ai sentieri selvaggi che percorre buona parte dell'opinione pubblica italiana.

Dunque, dicevamo delle regole e dei principi. Un conto è dire "questi non mi piacciono, ne voglio portare avanti altri", un altro è vivere senza regole e senza principi. Chi campa così, a mio modo di vedere, è già una vittima. Tuttavia, è semplificatorio parlare di pura e semplice repressione. I mali che colpiscono il Rione Traiano sono, almeno in parte, esattamente gli stessi che colpiscono il Vomero e i Colli Aminei, e stanno nella degenerazione mostruosa della nostra cultura e del nostro senso della convivenza. I modelli a cui sono esposti i ragazzi della Napoli "malamente" sono modelli di matrice neoliberista, la traduzione in napoletano della stessa immondizia che vediamo, tanto per fare un esempio, nei video di certi rapper afroamericani per i quali sembrerebbe che la vita si riduca a una passerella di culi, oggetti luccicanti e canne di arma da fuoco. Sono modelli a cui siamo esposti tutti, anche se magari in forme più sofisticate.

La naturale contropartita degli indiani sono gli sceriffi. Pretendere di avere forze dell'ordine professionali e rispettose delle procedure e delle regole in un paese in preda all'anomia come questo è ingenuo. Il carabiniere, secondo il modesto parere di questo fesso, non ha sparato in quanto agente dell'oppressione di classe; ha sparato perchè è uno sceriffo. Basta mettersi una stella, o in questo caso una divisa, addosso, e TU diventi la legge, il nomos. E trovi comprensione in alcuni settori dell'opinione pubblica, perché vai a colmare un vuoto.

Io non voglio vivere alla mercè degli sceriffi e dei loro grilletti facili. Ma non voglio vivere nemmeno fra gli indiani. Io voglio vivere fra persone che si pongono il problema di regolare la propria convivenza senza generare violenze inaudite come quelle che subiscono, nella "normalità" del quotidiano, gli abitanti di certi quartieri. Violenze che li rendono amorali, anaffettivi, incapaci di relazionarsi al prossimo se non attraverso il conflitto, nichilisti verso tutto e soprattutto verso se stessi. Vorrei che ci riscoprissimo cittadini, non occupanti di una terra di nessuno da contendersi usando ognuno le armi che ha a disposizione. Vorrei che i cantanti neomelodici non celebrassero più uno stile di vita che lascia i cadaveri per terra, e che Equitalia non mandasse più cartelle esattoriali a gente che non ha più un euro per pagarla. Vorrei che si tornasse a investire nella nostra scuola e nella nostra università, nella nostra sanità, nei nostri servizi pubblici.

Vorrei, ma so che la mentalità imperante in questo paese è anomica. La guerra di tutti contro tutti ne è l'inevitabile prodotto. E allora, cari amici del Bradipo, non mi stupirò se la nostra cronaca nera continuerà a riempirsi di sparatorie, assalti alle diligenze, scalpi strappati e johnwaynate varie. Ma continuerò a pensare che, davanti all'incrocio, è possibile e necessario stabilire un ordine di precedenza.

venerdì 5 settembre 2014

Il Congresso di Vienna

Cari amici e compgni di sventura, buondì. Oggi parliamo di guerra. Non c'è da meravigliarsi, visto che ce l'hanno dichiarata da secoli, sebbene qualcuno non lo abbia ancora capito. Se mi volete seguire, ci inerpicheremo fra gli aspri sentieri del sapere storico elusivo e dei miei limiti di scrittura. Orsù, cominciamo!
Se guardiamo al modo in cui si combattevano le battaglie nell'Evo Antico e a come poi queste tecniche si sono evolute, notiamo una cosa: i generali si allontanano sempre di più dal cuore dell'azione. Alessandro Magno ci è mostrato in un famoso mosaico mentre affronta il persiano Dario. Certo, intorno a lui, come intorno a tutti gli antichi condottieri, c'è il fior fiore dell'esercito; ma resta il fatto che Alessandro è lì, a portata di lancia, non a distanza di sicurezza. Ancora nell'XI secolo il re Harold, al comando delle forze inglesi nella battaglia di Hastings, è abbastanza vicino alle mazzate da beccarsi una freccia in un occhio. Probabilmente era ritenuto inevitabile, in una guerra di contatto, che il re o comunque il comandante delle forze in campo desse per primo il buon esempio. Poi però viene introdotto l'uso della polvere da sparo, e cambia tutto. Le pesanti armature indossate dagli unici che potevano permettersele, ovvero dai nobili, non riuscivano più a proteggerli del tutto (causa questa della loroo progressiva sparizione). Prendersi una freccia in un occhio è sfiga; lanciare il proprio destriero alla carica contro una postazione di artiglieria è idiozia.

Comincia dunque l'epoca delle staffette. La cosiddetta "catena di comando" ha origine nella necessità di trasmettere ordini da un punto abbastanza lontano dal campo di battaglia ai sottufficiali che li devono fare eseguire. In Amore e guerra Boris nota quanto sia diversa la guerra vista dalla collina, da dove la osserva tranquillamente il generale, rispetto a quello che vive il soldato. Alla battaglia di Balaklava, nel 1854, l'ambiguità degli ordini dell'anziano Lord Raglan portò al tipo di idiozia di cui facevo menzione sopra. Lord Tennyson si affrettò a celebrare il massacro insensato di centinaia di cavalleggeri in un celebre poema (l'umanità celebra l'idiozia, che vi credete?), ma resta il fatto che se questo signore non fosse stato un aristocratico che parlava con la proverbiale prugna in bocca, e molto probabilmente rincoglionito e/o ubriaco, i seicento valorosi non avrebbero dovuto cavalcare nella "valle della morte". Per capire il fenomeno delle classi alte inglesi, farfuglianti e perennemente inebriate, potete guardare questo video

Alla diffusione della polvere da sparo e ai cambiamenti profondi che portò nel modo di fare la guerra, ai quali Cervantes dedica un intero capitolo del Don Quixote, corrisponde un altro processo sul piano sociale: l'ascesa della classe mercantile e il passaggio graduale da un ordine sociale fondato sulla propria funzione (quello medievale con i suoi bellatores, oratores e laboratores) ad uno fondato molto più semplicemente e brutalmente sulla proprietà privata. Questa trasformazione ha reso il mondo molto più dinamico, ma ha dato luogo a equivoci profondi, dai quali a tutt'oggi non siamo ancora usciti. Non essendo in grado di dare una base giuridica e morale coerente a questa istituzione, su cui si reggono tanto la realtà socioeconomica quanto la nostra percezione del vero e del giusto, abbiamo imparato ad accettarla come un dato di fatto, come se fosse qualcosa di naturale e immutabile, non come il prodotto di processi storici. E la Storia, non poteva essere altrimenti, è sparita dai nostri radar.

Nel mio piccolo, infischiandomene del milieu, poichè non nutro il minimo rispetto per chi appoggia e diffonde una visione del mondo e dell'umo che non rispetta me, voglio provare per un attimo a rimettercela. E come? Come al solito, amici del Bradipo. Parlandovi di me. Qualsiasi discorso innovativo, rivoluzionario, parte sempre da un'intuizione individuale. Anche quando gli elementi del discorso sono tutti lì, in bella vista, c'è bisogno che qualcuno verbalizzi l'ovvio. E allora eccovi qualche impressione del mio modestissimo cervello, della quale farete, come è ovvio, quel che vi pare.

Avevo sedici anni, forse diciassette, e studiavo al Liceo Ginnasio G. B. Vico, sito in via S. Rosa, Napoli. Dopo la parentesi un po' meno noiosa della Rivoluzione Francese e delle Guerre Napoleoniche, con il programma di Storia eravamo arrivati al Congresso di Vienna. Quello che mi colpì di questo importantissimo evento non fu un aspetto politico, ma il fatto che, oltre naturalmente ai tavoli di discussione, fossero previsti numerosi intrattenimenti per gli ospiti della capitale asburgica. Mi spiego meglio. I rappresentanti delle potenze europee a Vienna non parlarono solo di questioni geopolitiche, commerciali, militari e via dicendo; parteciparono anche a balli, pranzi, cene, e tresche amorose. Questo dopo un lunghissimo periodo di ostilità che aveva causato milioni di morti. Provate a immaginare il Principe di Metternich che, dismessi per l'occasione i panni del severo e austero statista, si fa un'allegra bevuta insieme a Talleyrand. Probabilissimo che sia accaduto. Di certo, dopo che i loro sudditi si erano tirati schioppetate, cannonate e colpi di sciabola e baionetta per oltre dieci anni in lungo e in largo per l'Europa, questi signori si sono seduti a tavola insieme e si sono scambiati le dame a tempo di valzer.

La guerra è una grande allegoria della vita. C'è chi guarda dall'alto di una collina i propri sudditi scannarsi gli uni con gli altri per sopravvivere; noi, cari amici, evidentemente facciamo parte della seconda categoria. Prima vi ho citato Amore e guerra di Woody Allen e il Quixote di Cervantes. Neanche a farlo apposta, c'è un elemento che li unisce: quando Boris guarda la battaglia dalla prospettiva del generale, vede un branco di pecore. Si tratta del capovolgimento di uno dei mille travisamenti del vecchio pazzo della Mancha, che scambia un gregge di pecore, appunto, per un esercito. Adesso io vi pongo una semplice domanda: voi volete essere pecore o disertori? Nel primo caso, vi consiglio di prepararvi alla carica. Nella speranza che Lord Raglan non abbia bevuto troppo.

mercoledì 3 settembre 2014

I nuovi inquisitori

Cari amici, stasera vi voglio raccontare una storia di profonda turpitudine. State comodi, non c'è bisogno di andare a prendere il dizionario, ve lo spiego io che cos'è la turpitudine: è la condizione del fare schifo al cesso, detto volgarmente. Se avete lo stomaco di leggermi con assiduità, saprete che non mi piacciono le ipergeneralizzazioni e gli articoli di fede. Ma qualche eccezione, lo confesso, la faccio anche io. Ad esempio mi fanno tutti profondamente ribrezzo, senza attenuanti, i sicofanti. Un essere umano libero e dotato di coscienza dovrebbe sempre avere una sana diffidenza per il potere costituito, e non credere mai a ciò che i suoi esponenti e rappresentanti affermano, senza verificarlo. In particolare sarebbe opportuno chiedersi, davanti a qualsiasi evento o fenomeno che lasci dubbi o sospetti, chi potrebbe avere interesse a che non si faccia chiarezza, e per quali motivi. Perchè tutta questa antipatia per il potere? Perchè nasce con un peccato originale: loro ce l'hanno, e noi no; e questa è già di per sé una violenza. Se credete alla favola della rappresentanza, che li abbiamo messi noi dove sono, fatemi il favore di non leggermi mai più e sparire dala mia bacheca; una fesseria del genere ve la potevo passare nel 2007, ma oggi no. Oggi avete il dovere, abbiamo tutti il dovere di prendere atto della profonda arbitrarietà con cui è governato (o per meglio dire tenuto in uno stato di perpetua soggezione) questo pianeta. Quando un pesce con la botta come Matteo Renzi si mette a minacciare il leader di una potenza nucleare, non possiamo esimerci dal trarre le ovvie conclusioni: il principio della delega non è solo moralmente iniquo e politicamente fallace, è un modo assolutamente scriteriato di architettare l'edificio della convivenza. In parole povere: continuiamo a lasciarli fare, e ci ritroveremo con la merda fino al collo in tempi preoccupantemente brevi.

Tutta questa lunghissima premessa per dire come la penso sul potere e chi ancora non ha imparato a detestarlo. Figuriamoci, dunque, quale può essere il mio giudizio su coloro che dedicano la propria vita a fare da parafulmini a questi individui. Proprio nel momento in cui la diffusione di tecnologie che facilitano la condivisione e trasmissione di informazioni, unita alla disillusione nel modello capitalista prodotta da un'infinita crisi, rende possibile una rielaborazione profonda del modo di sviluppare il discorso pubblico, questi amici del giaguaro diventano più preziosi che mai. Una volta bastava torturare e, in casi estremi, condannare a morte, l'eretico di turno, per arginare la diffusione di saperi scomodi. In molti casi era sufficiente una velata minaccia. Del resto la consapevolezza della fragilità umana può spesso più del suo coraggio. Un atto così semplice come legare le braccia di una persona dietro la sua schiena e issarla con un argano può causare un dolore insopportabile. Era questo supplizio, chiamato semplicemente "la corda", la punizione di default fra gli inquisitori dell'età moderna.


Oggi non è certo pensabile attaccare a uso saciccio, ovvero come un insaccato, tutti quelli che condividono un documentario "complottista" sulla loro pagina Facebook; dunque, bisogna screditare quelle visioni alternative, e soprattutto chi le produce. 

Se vi fate un giro su Internet, troverete moltissime fonti "complottiste" (io penso che "critiche" e "libere" sarebbero aggettivi molto più appropriati) su una vasta gamma di argomenti. Non ha importanza se siano attendibili o meno, il fatto è che sono lì. In difesa dei punti di vista ufficiali, praticamente niente. E non perchè i difensori delle verità stabilite non lavorino. Perchè non si misurano con un altro punto di vista, se non attaccandolo, deridendolo, screditandone i fautori da una posizione di autoproclamata superiorità. Questo, cari lettori, è il modus operandi dell'autorità. In quei casi in cui il confronto avviene in forma pubblica, i debunkers (si chiamano così i nuovi inquisitori) provano sistematicamente a spostare il discorso su un piano esasperatamente tecnico (facendo sembrare la scienza qualcosa di imperscrutabile e stranamente vicino all'arcano), o passano semplicemente all'invettiva. L'autorità, dicevamo. Ipse dixit era il mantra dei dottrinari del tempo che fu; è tutto scritto nel rapporto della commissione quello dei dottrinari contemporanei. Laddove la commissione in questione è l'equivalente moderno di un conclave o concilio come quello che condannò a morte Giordano Bruno. Come dicevo, questi non possono condannare a morte, tanto per fare un esempio, il bravo e simpatico Massimo Mazzucco, ma se pensiamo alle vittime che ha fatto, direttamente e come "indotto", l'11 settembre, ci rendiamo conto che la sete di sangue di questi "signori" non è rimasta certamente frustrata. E se la giuria è ancora in camera di consiglio per quanto riguarda gli attentati, non c'è dubbio che a devastare l'Afghanistan e l'Iraq, causando centinaia di migliaia tra morti e feriti, con l'unico risultato di far crescere l'odio verso gli Stati Uniti e il fondamentalismo islamico, sono stati i governi degli USA.

Ogni volta che sento le registrazioni delle telefonate fatte dalle persone intrappolate nelle torri in fiamme del WTC, provo un profondo malessere. In parte si tratta di compassione e orrore per la sorte di quegli esseri umani; ma c'è anche una specie di incredulità dovuta al fatto che miliardi di persone possano attribuire quell'immenso rogo a un pugno di sprovveduti fanatici. Eppure ormai dovremmo sapere che i roghi li appiccano i servi del dio che vince, non di quello che perde.

mercoledì 27 agosto 2014

Proletariato morale

Cari, amici, dovete sapere che ormai l'unico scopo di questo blog è quello di una strenua resistenza al "comune buonsenso", una dittatura dell'diozia e del conformismo che ci porterà tutti sull'orlo del baratro, e in esso ci scaraventerà senza tanti complimenti. A meno che. A meno che non cominciamo a ribellarci. E non tanto rispetto a uno stato la cui funzione repressiva è spesso sopravvalutata, magari cercando uno sterile scontro con gli sbirri che sono tutti bastardi (ACAB!!!) quando gliene si fornisce una scusa; la liberazione comincia dalle nostre capuzzelle, infestate di pregiudizi che dell'ultimo orizzonte tanta parte al guardo escludono. Nelle parole di Bob Mould, cantante e mente creativa degli Husker Du (e scusate se è poco): la rivoluzione comincia a casa propria, preferibilmente davanti allo specchio del bagno.

Quache tempo fa scrissi un post intitolato Sfruttati al dettaglio, in cui narravo della mia afflizione nel dover seguire una trafila professionale insoddisfacente e, soprattutto, moralmente umiliante. Mo', siccome mi sono reso conto che il termine "morale" è non solo estraneo alle categorie cognitive dei più, ma anche oltremodo ostico, mi dovrò sforzare di farvelo capire. Di farvi capire, per essere più precisi, come lo intendo io.

Avete presenti quei film ambientati nel futuro in cui si mostra un'umanità post-atomica che lotta per la sopravvivenza in un mondo senza più regole? Ecco, è così che saremmo costretti a vivere se rimanessimo, per l'appunto, senza regole. Molti credono che sia la legge, con la minaccia della sanzione, a tenere in piedi l'ordine, in quanto rispetto di una serie di regole. Ma se ci riflettiamo vedremo chiaramente che il vivere civile si fonda soprattutto su regole e consuetidini non scritte. Gli esseri umani sono in grado con la stessa coerenza e costanza di infrangere regole che ritengono stupide o scritte male, e di darsene altre senza bisogno di minacciarsi a vicenda affinchè le si rispettino.Quale legge ci obbliga a metterci in fila alle casse di un supermercato? Me la fate leggere? Certo, poi c'è magari il furbo che cerca di infilarsi fra un cliente e l'altro. E il fatto che furbi di questa guisa abbiano preso il sopravvento in Italia e in Europa è, secondo il vostro fesso di riferimento, alquanto preoccupante.

La morale, spero di poter essere compreso dopo l'esempio del supermercato, è quindi nient'altro che la nostra capacità di convivere senza danneggiarci a vicenda e senza dover chiamare i gendarmi ogni tre e quattro. Toglieteci la possibilità di una vita morale , e ci avrete tolto ogni spiraglio di libertà e dignità. Questa è la forma di miseria oggi predominante nel nostro paese. Il proletario dell'Inghilterra vittoriana, per fare un esempio da anglista, era sfruttato e violentato nel corpo; il nuovo proletario è sfruttato e violentato nelle sue capacità di raziocinio; al primo avevano tolto il diritto di campare; a noi, nati nell'abbondanza comprata dal sudore del proletariato classico, stanno togliendo il diritto di vivere. Per quanto si possano contrarre i nostri consumi, non moriremo di fame. Ma non saremo liberi di essere ciò che desideriamo, nè individualmente nè collettivamente. 

Diceva Sant'Agostino che chi cercava Dio non doveva allontanarsi troppo, bastava guardare dentro di sé. E io dico che chi oggi cerca il proletariato, la miseria, lo sfruttamento, non ha bisogno di andare a cercarlo nei sweatshop cinesi o centroamericani; basta guardarsi allo specchio del bagno, come diceva Bob Mould. E dare inizio alla rivoluzione morale che ci richiede questo tempo infame.

sabato 23 agosto 2014

Filosofeggiare nonostante tutto

Carissimi lettori, che siete miei simili e miei fratelli (non vi sto facendo una chiavica aggratis, mi sto sparando la posa con Baudelaire/T.S. Eliot), io ho capito perchè non mi fanno stare quieto. Se vi interessa ve lo dico. Però dovete avere la pazienza di seguirmi in un excursus filosofico da due soldi. Io non so filosofeggiare, ma è assolutamente necessario farlo. Le circostanze, quella cosa che guardata da lontano si chiama "la storia" e vista da vicino si chiama "orrore quotidiano del vivere", mi urlano in testa come una fidanzata contrariata che non possiamo più delegare nè il pensiero, nè l'azione. Le conseguenze sono nefaste. Dunque, procediamo, e speriamo di non fare troppi danni.

Quando ero bambino, pensavo come un bambino. Una cosa del genere dice Saul di Tarso, in una delle sue epistole. Poi è cresciuto e ha messo da parte l'infanzia. Giusto. Per me l'infanzia, in senso intellettuale, è coincisa con il periodo della mia vita in cui, davanti a un qualsiasi fenomeno o evento, mi chiedevo "che cos'è?"  Una volta superato questo stadio, a causa della mia sistematica incapacità di rispondere a quella domanda, ho cominciato a chiedermi "come funziona?" Scattano due riflessioni. Innanzitutto, che va riconosciuto il valore del sapere ammettere l'errore e la sconfiitta; e poi, che la domanda "come funziona" è in un certo senso più evoluta, secondo questo vostro umile servo, della domanda "che cos'è". Perchè? Semplice: perchè chi si pone questo ultimo interrogativo tende a non riuscire a rispondere (è il caso dei saggi, dei filosofi da prendere sul serio); oppure a darsi risposte frettolose e infantili.

Come mai? E qui i teisti mi devono perdonare, ma almeno uno di loro potrebbe aver già capito dove voglio andare a parare. Perchè quello che è si rivela solo ed esclusivamente in quello che accade. Non è a prescindere, per usare un'espressione che mi consenta di non rischiare di chiudere il post senza aver citato neanche una volta uno dei maestri che mi hanno insegnato a ridere. Dunque, è dalla realtà esperibile, da quello che i filosofi con la barba chiamano il divenire, che devono essere evinte le coordinate, diciamo così, dell'essere. "Il sonno della ragione genera mostri!" odo uno scalmanato gridare dal loggione. Sissignore; ma anche far lavorare la ragione su rappresentazioni astruse, senza farla confrontare con un'esperienza quanto è più possibile immediata dei fatti, può generare cose abbastanza sgradevoli. Questo succede, e spesso, quando si cerca con un'interepretazione della realtà di confermare la propria "fede". 

"Come funziona", dicevamo. Maledetti anglosassoni. Maledetti voi e il vostro pragmatismo, il vostro common sense, la vostra naturale tendenza alla tolleranza. Mi avete contagiato e poi mi avete abbandonato in mezzo ai fanatici del "che cos'è". Sono come un vampiro mezzo cecato, vulnerabile alla luce del sole ma incapace di muoversi nelle ombre della notte. Bramo la mozzarella, la pizza, il caffè e di tanto in tanto la tarantella, vestito da Pulcinella balzo sulla scena esclamando un sonoro "uè", ma poi comincio a scorgere i neri vestimenti dei novelli Gesuiti e vorrei provare a ragionare, vorrei intavolare un discorso come se fossi salito su una di quelle pittoresche soapbox che garantiscono anche ai più eccentrici la totale immunità, non già su un palco allestito dalla Santa Inquisizione per un auto da fé di cui sono il main feature.

Potrei adesso buttare lì una frase ad effetto, come ad esempio "avete più paura voi nel pronunciare questa sentenza che io nel riceverla". Ma so benissimo, purtroppo, che i nuovi inquisitori sono atrocemente inconsapevoli della propria brutalità. E qui il post prende una piega seria, mio malgrado. Vi ricordate come vi ho chiamati prima? Non era casuale. L'unica cosa che possiamo sapere dell'essere è ciò che si manifesta nella nostra natura; la quale, con buona pace di alcuni dei miei eventuali lettori, non è un prodotto nè delle circostanze nè delle rappresentazioni che aspirano a cambiarle. Queste cose possono alterare i nostri comportamenti, ma non gli elementi essenziali della nostra natura. Che si rivela nel nostro vissuto, nelle nostre sensazioni, nella nostra felicità o infelicità, appagamento o irrequietudine, piacere o dolore. E allora quando è in gioco la convivenza fra me e mon semblable, mon frere, quel fesso del sottoscritto non si chiede "che cos'è", ma "come funziona". Nella speranza che la si smetta di arderci vivi a vicenda.

venerdì 22 agosto 2014

Le formiche, l'insetticida e gli zingari


Cari epigoni, epigrafi, poligrafici e peristaltici, buonasera. Oggi vi vorrei parlare di come spesso l'essere umano, nella sua infinita meschinità, è ben lieto di emulare il cane della saggezza popolare partenopea, ovvero di mordere sempre il pezzente. Sì, in effetti soo considerazioni abbastanza simili a quelle contenute nel post su Gomorra, la serie, ma qui proverò ad articolare in modo un po' diverso. Partiamo, come tante altre volte, dal mio vissuto personale. "Saranno cose già sentite, o scritte sopra un metro un po' stantio, ma intanto questo è mio", cantava il barbone modenese.

Dunque, c'è una categoria dello spirito che chi vive a Napoli non può assolutamente ignorare: il viecchio sul pullman. Costui ha un'idea estremamente precisa di come eliminare tutti i mali del mondo; idea che riesce brillantemente a far coincidere con l'eliminazione di tutto quanto arrechi fastidio a lui. O a lei, perchè poi c'è anche l'equivalente femminile, la vaiassa onnisciente da barricata. Non lasciatevi ingannare dal suo sermo vulgaris e dalla sua apparente sciatteria: costei ha letto tutto lo scibile umano, e si è in genere laureata alla Sorbona con una tesi sulla fenomenologia husserliana vista da una prospettiva post-femminista e post-coloniale. Dunque, questi luminari del pensiero su gomma allietano talora gli altri passeggeri con dotte disquisizioni su alcune delle cause di disagio sociale urbano. L'esito pressochè universale delle loro indagini è che ci sono troppi stranieri, in particolare neri e zingari. Guardatevi bene, se mai doveste imbattervi in menti di tale caratura, dall'osservare che a Napoli la gente di merda non è mai scarseggiata, e che il disagio sociale in questione i neri e gli zingari lo hanno trovato già bello e apparecchiato. Non sia mai doveste fare questo errore, rischiereste di dover arrivare al capolinea per chiarire la vostra posizione ed evitare conseguenze potenzialmente spiacevoli.

Taglio. Parliamo adesso di formiche. Oggi ne ho dovute eliminare alcune con l'insetticida. Mi è dispiaciuto, perchè mi sono molto simpatiche come animali. Vi assicuro che hanno una società meglio organizzata di qualsiasi società umana, e più morale. Non sto scherzando. Se una formica rifiuta la logica di solidarietà e mutuo soccorso che regge il formicaio, ne viene allontanata. Ecco perchè io ammiro le formiche, e mi dispiace doverle uccidere. Ma il fatto è che quelle mi avevano invaso la stanza, e la convivenza fra l'uomo e la formica presenta svariate controindicazioni. Non potendo persuadere gli operosi insetti a lasciarmi quello spazio, limitando le proprie scorribande al terrazzo, ho dovuto ingaggiare con loro una lotta impari. Perdonatemi, industriose amiche, per quello che vi ho fatto. Perdonatemi, dal paradiso delle mollichelle in cui non dubito che ora vi troviate.

Le formiche non parlano. Non ragionano. Gli esseri umani dovrebbero. Ma poi rischierebbero di scoprire che anche noi siamo formichine, rispetto a quella razza tignosa, quella razza che non muore mai, che nei secoli e nei millenni ha preso tanti nomi diversi e tante diverse collocazioni nelle dinamiche sociali, ma che in sostanza si contraddistingue per una semplice caratteristica: quella di vivere dell'altrui lavoro. Il re, il faraone, il feudatario, l'aristocratico, il proprietario, il padrone, il magnate... quante parole diverse per dire sempre essenzialmente la stessa cosa, e cioè che TU ti spacchi il culo per consentire a LUI di accumulare molto di più di quanto non gli sia necessario a vivere, molto di più di quanto non possa consumare. E agli esseri umani non piace constatare di essere piccoli, indifesi, insignificanti, come tante formichine.

E arriviamo finalmente al punto. Quando un evento disastroso ci colpisce, come ne sono state colpite oggi quelle povere, innocenti formiche, la colpa la diamo non a chi si strafoca i palatoni sani, mentre noi andiamo raccogliendo mollichine; non a chi è cresciuto a dismisura in ricchezza e potere, e all'occorrenza ci schiaccia facendosi meno scrupoli di queli che mi sono fatto io qualche ora fa nell'usare l''insetticida. Nossignore, so' stati i zingari. O i marocchini, o i polacchi, o chi per loro. Insomma, quelli che vengono da altri formicai. Che si tratti di una famiglia sterminata o di un attentato terroristico, la logica è esattamente la stessa. Noi da una parte, loro dall'altra. E il gigante con l'insetticida in mano, grosso com'è, puntualmente ignorato.


mercoledì 20 agosto 2014

La violenza che va contromano


L'11 settembre 2001 è uno di quei momenti in cui tutti ricordano dov'erano e cosa facevano. Io ero a casa a fare una prova di traduzione, per quella che si sarebbe rivelata la più interessante e meglio retribuita collaborazione professionale della mia vita. Si può dire dunque che l'11settembre a me portò fortuna. Ricordo che mia madre, seduta davanti alla TV, mi chiamò per dirmi che c'era stato un attentato a New York. Io guardai per qualche secondo le immagini, e a dirlo adesso sembra che vi stia raccontando una bugia, ma ebbi immediatamente una sensazione strana, come se quella fosse una scena da film, e mi venne subito il sospetto di trovarmi davanti alla Piazza Fontana statunitense. Con il passare del tempo si sono moltiplicate le tesi "complottistiche" su quell'odioso attentato (dire che Nerone appicca il fuoco a Roma non è complottista, chissà per quale motivo, visto che ai nostri governanti non verrebbe mai in mente di uccidere i loro stessi cittadini. Ma gli antichi Romani, si sa, erano depravati), e oggi si può tranquillamente dire che se non ti è mai venuto un dubbio sulla versione ufficiale o sei poco informato o soffri di qualche patologia psichica. Una delle più diffuse, e forse la peggiore di queste patologie, è quellla che porta la gente a pensare che, in un mondo plasmato da millenni di violenza organizzata, disciplinata e puntualmente giustificata e assolta da stuoli di sacerdoti, giuristi, economisti e "intellettuali" d'ogni sorta, è più probabile che la violenza venga da parte  di quattro balordi bigotti. Perchè quando uno è così miserabile e coglione da pensare che questa esecrabile macchina repressiva sia lì per difendere i quattro pidocchi che ha messo insieme industriandosi e ingegnandosi tutta una vita, e non il sistema che consente a quattro lestofanti (che belli questi vocaboli desueti e stucchevoli nel loro moralismo!) di vivere del suo industriarsi e ingegnarsi, è disposto a credere a qualsiasi cosa. E a fare qualsiasi cosa. Pure a sparare ai pezzenti (e aridaje con Eduardo!). Soprattutto a sparare ai pezzenti.

Ma ci vuole la minaccia. Quella è fondamentale. Se io mi convinco che posso convivere pacificamente con te, dopo diventa difficile che io possa accettare la violenza sistematica nei tuoi confronti. Da 2001 ad oggi i professionisti della violenza di buona parte del mondo occidentale si sono prodigati per inculcarci l'idea che i musulmani sono pericolosi per noi. Certo, che lo siano in particolare quelli che loro hanno armato e addestrato è fuor di dubbio. Ma forse anche questo è complottismo. Ed è comprensibile che molti lo giudichino tale. Se devo attraversare una strada e le auto sfrecciano, è naturale che io percepisca un pericolo. Ma - e qui casca il proverbiale asino, cari amici del Bradipo - come faccio a decidere da che parte guardare mentre attraverso? Semplice: io so che in questo paese i veicoli motorizzati tengono la destra, per cui guardo automaticamente a sinistra. E se qualcuno arriva contromano? In quel caso rischio di essere investito. Per questo io, prima di attraversare, guardo sempre da entrambi i lati.

La violenza è tale, cari i miei compagni di elucubrazione, perchè per l'appunto viola alcuni dei diritti fondamentali dell'essere umano (quello all'incolumità, alla libertà di pensiero e di espressione e vi dicendo), non perchè lo fa senza autorizzazioni e carte bollate. Dunque, un terrorista o presunto tale che decapiti un uomo (ammesso e non concesso che la decapitazione non sia l'ennesimo film di indiani e cowboy) commette un crimine atroce, ma non peggiore di chi, con tutti i crismi dell'ufficialità di chi ha un posto nell'Assemblea delle Nazioni Unite, bombarda un centro abitato o spara a sangue freddo a persone disarmate.

La strada che oggi stiamo attraversando tutti è veramente brutta. Le macchine corrono, non rallentano per nessuno e non si fermano neanche quando sentono la botta sul cofano. Si deve guardare da entrambi i lati, sempre. Perchè un pezzo di merda senza coscienza e senza rispetto per niente e nessuno non si fa scrupoli, credetemi, ad andare contromano.

venerdì 15 agosto 2014

Esternalizzare il male


Cari amici del Bradipo, buon Ferragosto. Voi magari siete in spiaggia, o a visitare qualche bella città. Io, dal canto mio, sono a casa, e nel deserto di senso che sono diventati la mia città, il mio paese, e buona parte del mondo, elucubro senza remore e senza scuorno. Tanto i rubinetti della morale e dell'intelletto si sono chiusi, per cui dubito che qualcuno possa offendersi se provo, nel mio piccolo, a strizzare qualche goccia dagli stracci a cui mi ha ridotto il nuovo che avanza da millenni, trasformandosi continuamente per non mostrare quanto è grottescamente decrepito. Questa è una premessa che non dovete dimenticare mai. Se domani tornassimo ad avere, come paese, come continente, come pianeta, una vita intellettuale e morale dignitosa, io mi ritirerei in buon ordine e mi limiterei a parlare di femmine e pallone. Ma fin quando saremo alla mercè dei sacerdoti di questo o quel culto, con i loro aspersori che tanto spesso si trasformano in oggetti contundenti, io continuerò ad arrogarmi il diritto di dare voce alla mia pochezza genuina e disinteressata.

 Dunque, parliamo del male. E quindi, cosa che ormai non dovrebbe sorprendere più nessuno, parliamo di Napoli. Un po' per ragioni legate alla cronaca nera (pensiamo ad esempio alla sanguinosissima faida del 2003), un po' per il problema rifiuti e la sua gestione criminale, e non poco infne per come il sistema mediatico sfrutta questi dati oggettivi, un'equazione si è consolidata nel pigro, pigrissimo cervello dell'italiano medio: Napoli = Camorra. Anzi, Napoli = Gomorra. E Roberto Saviano è Lot, l'unico uomo probo che valga la pena di salvare dall'ira del Signore, se non altro per consentirgli di raccontare la depravazione di quella città del Demonio. E come la racconta! Con quanta alacrità! L'ultimo prodotto della dedizione del Robertino nazionale è la serie televisiva intitolata, ovviamente, Gomorra. Io, anacoreta incallito e fiero del proprio stile di vita stilita, ero riuscito a ignorarla fino a pochi giorni fa. Poi ho ceduto alla pressione dei pari. Ed ora, poichè non mi va di subire in silenzio, affido a questo consunto blog la mia protesta.

Lasciando da parte il fatto che molti degli attori non sanno recitare e che lo sviluppo della trama non è sempre convincente, vorrei concentrarmi su un altro aspetto, che trovo più interessante. Perchè questa serie ha avuto tanto successo? Certo, perchè nasce da un'idea di Roberto Saviano, mi direte. Allora cambiamo la domanda. Perchè l'infinita "gomorreide" inaugurata dal libro nel 2006 non ha ancora esaurito il suo interesse per il pubblico? Risponderò, come al solito, basandomi sulle mie personalissime impressioni; le quali, per ricollegarmi alla premessa fatta all'inizio del post, valgono almeno quanto i vaneggiamenti ritualistici di qualunque fesso autoproclamatosi "persona intelligente". 

In Gomorra, qualche volta, si esagera. Troppa violenza, troppa cattiveria. Non che i criminali da queste parti non siano così violenti e cattivi. Lo sono. Ma lo sono nei momenti appropriati. Non sono sadici o psicopatici, sono persone lucidamente indurite e amorali. Il fatto è che presentare il male slegato da cause razionalizzabili e, soprattutto, sistemiche, consente di identificarlo come qualcosa che viene da fuori, una specie di invasione da respingere. Questa è, da sempre, la concezione liberale della criminalità. Eppure è un fatto che la malavita napoletana, prima dell'avvento della società dei consumi, era ben poca cosa se confrontata a quello che è oggi. Si è arricchita ed è cresciuta in pericolosità e potenza militare con un'altra invasione, quella dell'eroina. E continua a reggere il suo potere sullo spaccio, anche se le droghe che vanno per la maggiore oggi sono altre. Insomma, la "Camorra", termine obsoleto che ci ostiniamo a usare, guadagna stando sul mercato. Le guerre che le multinazionali si fanno a botte di avvocati, spionaggio industriale e via dicendo, i camorristi se le fanno con le armi. Per il resto, sono imprenditori come tutti gli altri, se non fosse che a loro è toccata una fetta del mercato "maledetta".

Abbiamo esternalizzato il male. Lo abbiamo delegato. Spesso si dice che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Ecco, e allora si potrebbe dire anche che i figli della Napoli popolare fanno i lavori che gli italiani di Serie A rifiutano. E, come gli immigrati non vengono certo ringraziati per averti messo i pomodori sulla tavola, le organizzazioni criminali campane, siciliane, calabresi, che con tutti i loro brutti ceffi e la loro grammatica discutibile immettono nell'economia italiana una considerevole liquidità (perchè questo sistema funziona con i capitali, non con i principi morali...), si devono beccare anche il biasimo del telespettatore. Del resto, siamo in pieno territorio liturgico. Io, da eretico ed eremita quale sono, me ne torno sulla mia colonna ad ignorare deliberatamente il mondo, fin quando non si degnerà di ragionare.


mercoledì 13 agosto 2014

Dei film, dei videogiochi e del disordine


Cari amici del Bradipo, pensate a un set cinematografico. La stessa scena può essere ripresa da tante angolazioni, e a seconda di quella che si sceglie l'azione e i dialoghi verranno percepiti in un modo piuttosto che un altro. Ora, nella maggior parte dei casi un film ha un solo regista, una sola intelligenza ordinatrice. Provate a immaginare invece un film con una miriade di registi, che danno disposizioni contraddittorie ai cameramen e agli attori. Da questa metafora vorrei partire per il mio delirio di oggi.

Vi faccio presente, se ce ne fosse ancora bisogno, se qualcuno non lo avesse ancora capito, che questo è un blog di sugggestioni e riflessioni, non di teorie e dottrine compiute e articolate. I film che gira il vostro umile servo sono intesi per niente altro che il suo personale diletto e quello di chi è messo così male da perdere tempo a leggerlo. Perchè io fesso lo sono, ma non abbastanza da non capire che la telecamera non la piazzo nè io nè voi, e il copione lo scrivono ben altre intelligenze, per andare incontro ai desideri di ben altri produttori.

Eppure siamo creature morali, che hanno bisogno di stablire cosa è giusto e cosa è sbagliato, pena la guerra costante e senza quartiere di tutti contro tutti. Abbiamo bisogno di norme per vivere senza scannarci, ma ci scanniamo per definire le norme. Che poi, in molti casi, non sono altro che il risultato diretto di inquadrature, angolazioni, punti di vista.

Un paio di giorni fa, rivedendo il processo "popolare" a Roberto Peci, ho pensato a questa contraddizione. E ho pensato anche, in un misto di incredulità, tristezza e insofferenza, a quanto fosse diverso il film che giravano i gruppi dediti alla lotta armata da quello a cui partecipavano la stragrande maggioranza dei lavoratori di questo paese. Il bisogno di mettere "ordine", di realizzare compiutamente una determinata visione (non ci interessa valutarla adesso) aveva chiaramente preso il sopravvento su qualsiasi ipotesi di trasformazione politica. Probabilmente perchè i registi di quel drammatico film erano già inconsciamente o comunque inconfessatamente arrivati alla conclusione che nessun cambiamento era ipotizzabile.

E saltiamo adesso di palo in frasca, seguendo queste personalissime, sgangherate evoluzioni mentali, questa telecamera senza più controllo che spazia su tutto il fronte. Parliamo dei videogiochi "violenti". Cioè di tutti quei "vargàmes" a cui il Pazzaglia rapinato in Così parlò Bellavista sembra dare la colpa della decadenza morale che ha reso Napoli così violenta. Questo è un atteggiamento tristemente comune; del resto, abituuati come siamo a delegare il potere, perchè non dovremmo delegare anche le colpe? Negli anni Ottanta Ozzy Osbourne dovette difendersi dall'accusa di aver spinto un adolescente al suicidio con la sua musica. Non sto scherzando, il sistema giudiziario americano ha davvero speso dei soldi per questa immane cazzata. Per me quei videogiochi hanno invece una funzione estremamente positiva. Consentono alle persone di giocare a fare dio in un ambiente controllato, senza conseguenze. Consentono di mettere ordine. Mettono il Bene da una parte e il Male dall'altra, crivellando quest'ultimo di colpi. Quando questa logica esce dai film e dai videogiochi, perde la sua efficacia. E la perde perchè il Bene e il Male non esistono, esistono il bene e il male, e sono concetti interamente relazionali. Nel momento in cui sono identificati con l'ordine e il disordine, si rischia di non riuscire più a distinguerli.

Si rischia di finire a spararsi addosso, come se un proiettile potesse essere foriero di giustizia. Si finisce a lanciare molotov, come se dal fuoco potesse venire fuori chissà quale palingenesi, e non solo cenere. Si pretende di ricondurre tutto alll'unità attraverso la forza disgregatrice. Vabbè, basta scrivere fesserie. Mi metto a giocare a un vargàmes. Entro in quel simpatico, accattivante mondo in cui io sono il Bene e il mio nemico è il Male, e gli posso scaricare un arsenale addosso nell'assoluta certezza di non fare violenza a nessuno.