giovedì 27 marzo 2014

Popolo, sei 'na monnezza...

 
Cari amici del Bradipo, avrete letto o sentito che Freedom House ci ha messi al 73esimo posto per la libertà di stampa. Basta dare uno sguardo alle classifiche stilate dalla ONG con sede negli Stati Uniti per capire che tendono a premiare gli stati amici del paese nordamericano (o meglio del suo governo) e penalizzare gli antagonisti. Per cui, quando danno del "parzialmente libero" al nostro sistema d'informazione, dobbiamo presumere che ci stiano trattando, e che più di così davvero non potevano fare. Un po' come quando un arbitro fischia rigore contro la Juve: l'attaccante avversario è a terra dolorante, con il segno dei tacchetti di Chiellini sullo stinco.Gli ha già fatto un favore a non ammonirlo.

Mi direte che questa è una notizia vecchia. Infatti, lo è. Ma introdurre così il post può forse aiutarci a inquadrare certi atteggiamenti della nostra stampa, che da cane da guardia della democrazia si è trasformata in cane da presa dei suoi padroni e dei loro finanziatori di varia collocazione e natura. Sono certo che molti di voi penseranno che sono fissato, invasato, monotematico. Ma siccome sono convinto che siamo in guerra, ed è una guerra di informazioni, di rappresentazioni, di concetti, mi metto l'elmetto e scendo nella mia umilissima e personalissima trincea.

Vorrei porvi una domanda: se aveste una collaboratrice domestica e le aveste chiesto di spazzare e lavare in tutte le stanze della casa; e se, al ritorno dal lavoro, vi accorgeste che la malnata non solo non ha fatto quello che le avevate chiesto, ma vi ha anche messo le mani nel cassetto dove tenete i soldi, che fareste? Io la caccerei a calci in culo. Perchè la colf deve fare il suo lavoro, cioè le pulizie, e deve rispettare certe ovvie regole del rapporto datore di lavoro - dipendente. 

Ma sei proprio un piccolo borghese, Bradipo! Ragioni come un padrone! Ecco, se state pensando questo, evidentemente fate parte di quella schiera di persone che in questo momento sono, rispetto a me, dall'altra parte della barricata cognitiva. Se invece mi state seguendo, è per voi che continuo a scrivere. 

Bene, la colf deve fare il suo lavoro, dicevamo. E quel lavoro consiste nel fare pulizia. Tenendo tutto questo in mente, provate a immaginare il nostro paese come una casa tanto, ma tanto sporca, e leggete questo articolo pubblicato su L'Espresso online.

C'è un filo rosso che attraversa tutta la propaganda contraria al M5S: il caparbio tentativo di farlo apparire poco coerente, insincero, falso. Perchè, e questo è abbastanza evidente, le istanze che porta avanti sono largamente condivisibili, e nel momento in cui un elettore deluso supera il cinismo, il disfattismo, quella istintiva e secolare sfiducia dell'italiano nei confronti della politica, è proprio il M5S il principale, se non l'unico candidato a ricevere il suo voto. E l'astensionismo in Italia è sempre più diffuso. Bisogna dunque far credere che si tratti di un bluff, e soprattutto indurre i propri lettori a pensare che sia come tutti gli altri: antidemocratico, lontano dai cittadini e per niente interessato a rappresentarli.

Sospendiamo il giudizio su questo aspetto. Parliamo piuttosto della nostra stampa. Questi signori che criticano tanto le scelte di Grillo e Casaleggio, cosa fanno per informare il pubblico su ciò che accade nella base del M5S? O la democrazia è qualcosa che riguarda solo la libertà e i diritti dei rappresentanti, e mai quelli dei rappresentati? Non è forse possibile che sia successo, stia succedendo qualcosa all'interno dei meetup che abbia spinto il fondatore e ovvio leader del movimento in questione a questa sterzata? 

Mi pare che siamo alle solite. Popolo, che ti sei messo in testa? Vuoi comandare tu? Che fai, ti organizzi, discuti, vuoi mettere bocca nella gestione del potere? A popolo, sei 'na monnezza! E noi non ci occuperemo di te. Ci occuperemo dei papi, dei cardinali, dei baroni, e di te non faremo la minima menzione. Vincolo di mandato e possibilità di revoca dello stesso? Certamente si tratta di un modo per consentire ai miliardari Grillo e Casaleggio di manovrare i loro parlamentari-burattini (come se quelli dei partiti tradizionali fossero tutti liberi, consapevoli, e non avessero dietro interessi e pressioni...). Popolo, tu non sai distinguere il pro e il contro. Lascia che te lo spieghiamo noi. E, visto che non sei nè papa, nè cardinale, nè barone, vattene a casa e lascia che chi è andato a scuola ti dica quello che devi fare quando ti alzi la mattina.

mercoledì 26 marzo 2014

Il ragioniere Casoria, lo zucchero e il carbone



Si scrive Raymond Luxury Yacht, ma si pronuncia "throat wobbler mangrove", diceva Graham Chapman in un divertentissimo sketch dei mai abbastanza celebrati Monty Python. A volte le cose non sono quello che sembrano, o quanto meno celano dietro di sé realtà complesse e insospettate. Allo stesso modo questo fesso vi dice che si scrive Movimento Cinque Stelle, si legge "onestà, lavoro, rispetto". 

Ormai ho capito che alcuni di voi sono totalmente refrattari a qualsiasi discorso sul MoVimento che non sia denigratorio, e non è a loro che mi rivolgo. Parlo con quelli che si affacciano su questo umile, dimesso, miserabile blog onusti di umile curiosità, consapevoli che ci sono più cose in cielo e in terra di quante non ne sogni la filosofia di un certo Orazio.

All'inizio del post ho linkato una celebre scena di uno straordinario film, La banda degli onesti. Se non lo avete visto, vi consiglio caldamente di farlo. Appartiene a un periodo storico in cui il cinema si sforzava ancora di raccontare la realtà; è pertanto utilissimo a chi voglia provare a capire che diavolo significhi essere italiani guardare quei film. E se vi sentite cosmopoliti e internazionalisti, e pensate che essere italiani non voglia dire niente, andate a vivere una settimana da emigranti in un qualsiasi paese straniero. Anche quello vi farà bene.

Dunque, parlavamo del film, e in particolare di questa straordinaria scena in cui Totò spiega a Peppino il capitalismo italiano. Dietro le conclusioni del portiere Buonocore c'è il tentativo del ragioniere Casoria di corromperlo (si dice dodici quintali ma poi, all'atto pratico, si fa con quattro...) in cambio di una buona parola messa presso la proprietà dello stabile, che non è contenta del non più giovane e claudicante portinaio. Totò non si piega al ricatto, e ne paga le conseguenze: viene sostituito da un romanaccio interpretato da Memmo Carotenuto, che gli piomba in casa all'improvviso e si lamenta pure della puzza di cavoletti. Con lo spettro della disoccupazione e dello sfratto dietro l'angolo e una famiglia da mantenere, Buonocore deve inventarsi qualcosa. Il rag. Casoria ruba lo zucchero e il carbone? Ebbene, lui si autoproclamerà "dépendance" del Poligrafico di Stato, e si metterà a stampare biglietti da diecimila lire.

Sappiamo che alla fine nè lui nè i suoi soci riusciranno a spacciare una sola banconota falsa: sono troppo onesti. Il finale di quello straordinario film è un auspicio in chiave simbolica: Buonocore, Lo Turco e Cardone fanno un bel falò con i soldi contraffatti. Riaffermano il valore dell'onestà, della rispettabilità, di quell'essere galantuomini che detto così, oggi come oggi, fa sorridere. Ed è proprio quello il problema.

Il discorso classico, novecentesco della sinistra, che ha egemonizzato l'opposizione in Italia fino a pochi anni fa, non tiene conto della centralità del ragioniere Casoria nel nostro sistema produttivo. Si limita a chiedere più zucchero, più carbone per le classi subalterne. Quello che il ragioniere Casoria ha fatto, finora, è stato aumentare leggermente la quantità di carbone nel bilancio condominiale allorquando un numero sufficiente di persone ha protestato con forza sufficiente che nel palazzo faceva freddo. Ma, dal momento che il suo primato non è mai stato messo in discussione, è rimasto saldamente in sella, mentre i Buonocore, i Lo Turco e i Cardone annaspavano. Ora la proprietà dello stabile è cambiata, è passata ai connazionali della moglie di Buonocore, ha passato la linea gotica, e ci pensano loro a razionarci il carbone. Non serve più, dunque, protestare. I dodici quintali si sono ridotti. Se il ragioniere Casoria vuole continuare a vivere come ha sempre vissuto, nel palazzo deve fare freddo.

Di fronte a questa realtà ci sono due modi di reagire. Il primo è adattarsi, se ne si è capaci. Passare dalla parte del ragioniere Casoria. Il secondo è organizzarsi come galantuomini, come lavoratori e membri di una comunità, tanto a livello locale quanto nazionale, e privare il ragioniere Casoria dell'accesso al carbone e allo zucchero. Non esiste altro modo per continuare a riscaldarci e a zuccherare il nostro caffè.

Io non so se il M5S riuscirà in questa impresa, perchè di impresa di tratta. So però che è chiamato a questo compito, e che è l'unica forza politica ad aver risposto a quel richiamo. Non è necessario iscrivercisi o votarlo, ed è comprensibile avere delle remore. E' imperativo, però, capire che oggi dobbiamo assolutamente scegliere se stare dalla parte del ragioniere Casoria o degli onesti. E, nel secondo caso, capire che l'unica strada non è adeguarsi, ma organizzarsi.

martedì 25 marzo 2014

Farsi raccontare la fessa

Cari amici, vi prego di non stupirvi nè scandalizzarvi per l'apparente sboccataggine del titolo di questo post. Prima che mi diate del becero sessista e femminicida, indossando magari per l'occasione una maschera di Laura Boldrini e brandendo un simbolico cartellino rosso per esiliarmi dal consesso civile, vorrei farvi presente che la fessa è molto più di una semplice parte dell'anatomia femminile; la fessa è un'idea, un concetto, una fantastica metonimia. E, come tutti i concetti, è oggetto di narrazioni e rappresentazioni.

In altre parole esiste la fessa in sé, la fessa come categoria concettuale, e in ultimo la parola "fessa". Referente, significato e significante. Ora, è ben comprensibile a chiunque che, man mano che ci si allontana dal referente fessa in quanto categoria dell'esperienza per assestarsi sul piano concettuale, una parte sempre maggiore della natura del referente in questione si perde. Chi, nel momento in cui può scegliere fra la fessa e la sua rappresentazione, preferisce la seconda? Non dico niente di nuovo o di particolarmente controverso se affermo, parafrasando Jane Austen, che è un fatto universalmente noto che uno scapolo eterosessuale preferisce avere conoscenza diretta della fessa, piuttosto che visionarne resoconti più o meno grafici. Detto in soldoni, la fessa si deve provare, perchè raccontata non è la stessa cosa.

Curioso che questo principio, la cui ovvietà spero vi abbia fatto sorridere, diventi sfuggente quando si passa dalla fessa o dai soldi (che contendono alla fessa il primato della popolarità a livello globale, e con essa si trovano in un rapporto di notevole prossimità e interrelazione) a categorie concettuali la cui realtà esperibile è più aleatoria ma non meno importante. Ad esempio, la politica.

Ecco, già se io vi chiedessi cos'è la politica, sono certo che avrei da voi risposte molto discordanti. Maggiore uniformità nei vostri responsi troverei se vi interrogassi sulla fessa. Questo perchè la fessa è una categoria che si concreta nella privacy delle rispettive stanze da letto, è conoscibile in maniera diretta, senza mediazioni, e soprattutto a livello individuale. Per questo c'è questa enorme discrepanza tra la fessa in sé e il discorso sulla fessa, diciamo la metafessa. La politica no. La politica, se non la si vive nei suoi momenti di condivisione, nella sua dimensione assembleare, resta un discorso prodotto altrovi, da altri. E per condividere non intendo mettere qualche "mi piace" su Facebook e postare un link che ti è piaciuto; condividere significa stare insieme nello stesso spazio, ascoltare l'uno la voce dell'altro, guardarsi negli occhi, interagire. 

Oggi pomeriggio sono andato a sentire alcuni esponenti del M5S nella tappa napoletana del Noncifermate Tour, organizzato per dare modo ai deputati sospesi e naturalmente al MoVimento tutto di fare informazione su ciò che sta accadendo all'interno del nostro Parlamento. Non ricordo da quanto tempo non assistevo a un comizio di una forza politica. Credo fosse dagli anni '90, da quando Rifondazione Comunista era parecchio attiva a Napoli e in particolare nel mio quartiere, il Vomero. Da una quindicina buona d'anni, ormai, la politica era qualcosa che riguardava le narrazioni - peraltro, come ripeto spesso, fatte apposta per non far capire niente - dei mass media. O, in alternativa, le tristerrime assemblee da centro sociale, sempre più simili a quelle del Fronte Popolare di Giudea di pythoniana memoria. Stasera ho guardato in faccia gente che parlava di politica in modo tale da renderla reale, tangibile, concretamente esperibile.

Una signora si è rivolta a Di Battista, rimproverandogli lo scarso uso del mezzo televisivo fatto dai 5 stelle. Io credo che quella signora si sbagliasse. Che la televisione deformi tutto lo diceva già Pasolini 40 anni fa. Lo disse anche a Enzo Biagi, paradossalmente proprio in una trasmissione televisiva. Credo avesse ragione. Chi vuole capire la politica, quella vera, quella che sta provando a fare secondo me il M5S, deve capire che si tratta di una cosa sommamente concreta, che va vissuta, e solo dopo raccontata. La politica è lo sforzo sovrumano di ricondurre all'armonia la molteplicità, di trovare il minimo comun denominatore di infiniti percorsi e infinite istanze. Quella signora, tutto sommato, è già sulla buona strada, visto che era lì, e non davanti alla tivvù. Anche io ero lì, per questo ve lo racconto. Ma voi questa meravigliosa alchimia che prende forma, una forma non meno reale e tangibile della tanto sospirata fessa, preferite conoscerla o farvela raccontare? Date un altro sguardo all'immagine all'inizio del post, pensate alla vostra esperienza personale, e rifletteteci bene.

lunedì 24 marzo 2014

Dopo le polacchine, il diluvio


Che cos'è un intellettuale? No, scusate, così è troppo difficile. Riformulo la domanda: a che serve un intellettuale? Cerco di spiegarmi meglio. Se devo far riparare una maniglia difettosa chiamo il fabbro, se c'è un rubinetto che perde chiamo l'idraulico, e se devo tirare giù una parete divisoria per avere un salotto più spazioso chiamo i muratori. L'intellettuale, a che mi serve? A che ci serve?

Una domanda non facile, alla quale l'autore di quaderni ben più autorevoli di questi si è sforzato di dare una risposta. Ha cominciato dal ripercorrere la storia degli intellettuali in Italia, mettendo in relazione il ruolo che svolgevano con la posizione che occupavano nella società in cui si muovevano.E' partito, marxianamente, dall'assunto che le idee sono il prodotto dei rapporti socio-economici. In parole povere, Vincenzo Monti doveva mettere il piatto a tavola esattamente come il più umile dei carrettieri. E se a garantire la sopa boba, come dicono a Frattaminore, di Vincenzo Monti era Napoleone o il Papa, poco importava. Non è che adesso per sostenere un'idea piuttosto che un'altra restiamo digiuni. Se no, mo' ci vuole, a Monti gli conveniva fare il carrettiere.

Era ovvio che gli intellettuali italiani fossero untuosi e servili, era inevitabile. Senza un'identità nazionale e la conseguente unità politica, alla mercé dell'invasore, l'Italia non poteva produrre che illustri antesignani di Bruno Vespa. Se Napoleone è alle porte, ed è ben noto che Napoleone nei giorni migliori non lo fermava nessuno, tantomeno le modeste milizie degli stati pre-unitari, io che voglio campare scrivendo e partecipando al dibattito pubblico devo per forza acclamarlo. A meno che io non mi senta moralmente obbligato a difendere la verità, a costo di riceverne svantaggi personali più o meno pesanti. Ed è qui che casca il proverbiale asino.

La nobiltà d'animo è un sentimento che si sviluppa molto più facilmente e rapidamente nella comunanza di intenti. Laddove regnano l'egoismo, il familismo amorale, la cosiddetta "arte di arrangiarsi", tende a scarseggiare. Chi ha qualcosa tende a farne un uso che massimizzi i propri vantaggi, anche se a spese del prossimo. Chi dispone di un capitale difficilmente lo socializza, che si tratti di risorse materiali o di conoscenze e competenze. Ma non vorrei che adesso, leggendo fra le righe, il lettore rimanesse vittima di un equivoco: non è, a mio modestissimo parere, il Partito Comunista quello che è venuto a mancare. Sostenere questo vorrebbe dire mettere il carro davanti ai buoi. Quello che va ricostruito, ancor prima di poter ritrovare la comunanza di intenti a cui accennavo, è il senso di comunità. Facile sentirlo quando ci si ritrova ogni mattina sotto lo stesso capannone a fare lo stesso lavoraccio per arricchire lo stesso padrone; un po' meno facile quando le strutture economiche e sociali ti isolano, ti lasciano solo davanti a un telefono che squilla e al quale risponderai 100, 200, 1.000 volte "benvenuto in Vodafone". Allora bisogna sforzarsi di imparare a vedere con gli occhi degli altri, a trattare il prossimo tuo come vorresti essere trattato da lui, a praticare insomma quei valori della reciprocità e del mutuo appoggio che richiamano alla mente, in uno strano mix, tanto Gesù Cristo quanto alcuni illustri esponenti della sinistra libertaria.

E gli intellettuali, in che modo possono partecipare? Credo che la risposta sia semplice: attestandosi su posizioni rivoluzionarie. E attestarsi su posizioni rivoluzionarie vuol dire schierarsi con Matteo, che ripete mille volte al giorno "benvenuto in Vodafone" ma potrebbe dare ben altro contributo alla società di cui fa parte, e con soddisfazione personale ben maggiore. Schierarsi con questi uomini e queste donne oppressi "al dettaglio", sviluppando, ciascuno a partire dalla sua storia personale e dalla sua cultura filosofico-politica, un discorso compatibile con i valori di corresponsabilità e cooperazione di cui abbiamo così urgente bisogno. Diventando, in una parola, utili come il fabbro, come l'idraulico, come il muratore, anziché restare servi del potere di turno.

domenica 23 marzo 2014

Piazza Coscienza

Cari amici del Bradipo, buona domenica. Il tempo è oltremodo uggioso, fa relativamente freddo e c'è un'umidità di tutto rispetto; quale modo migliore per passare la mattinata che scrivere due castronerie su questo ricettacolo di castronerie? Quando ero piccolo la parola "castroneria" mi affascinava, quasi mi ipnotizzava. Mi faceva pensare ai castori, instancabili operai dell'ingegneria idraulica. Lode ai castori, dunque, e ai produttori di castronerie.

Ciò di cui vorrei parlarvi oggi è l'ambiguità del presente. Sapete, io sono cresciuto in un mondo che di ambiguo aveva ben poco. O, per meglio dire, le ambiguità in quel mondo erano ancora in nuce. In apparenza, tutto era chiaro. Quando nel 1990 arrivò a Napoli la "Pantera", il movimento studentesco nato in reazione alla riforma Ruberti, capostipite di una lunga serie di attentati dinamitardi sotto forma di legge contro la pubblica istruzione, sembrava chiaro che in paradiso qualcuno odiava gli studenti. Protestare sembrava la cosa più naturale del mondo. E quando alla protesta seguirono le reazioni del corpo docente, del preside, dei genitori, degli studenti contrari all'occupazione, diventò ancora più chiaro che quella particolare riforma rappresentava poco più che un episodio, un pretesto, per scagliarsi contro una sopcietà in cui chi arriva in cima si tira la scala e prende a calci sul cranio chiunque provi a salire la china.

Eravamo continuamente in piazza, in quei mesi. La stampa e la televisione (Internet non c'era ancora) ci seguivano, ci raccontavano. Questo vostro umile servo apparve fugacemente nelle riprese di un telegiornale Mediaset, mi pare fosse Retequattro. Ripeto, allora non c'era Internet, questo accesso di massa alla dimensione pubblica te lo potevano dare solo i media tradizionali. E dunque scendere in strada in migliaia, in decine di migliaia, voleva dire irrompere nella dimensione pubblica.

Oggi siamo tutti connessi. Molti di noi hanno uno smartphone o un tablet, e si inviano in tempo reale qualsiasi tipo di immagine. Mangiamo pane e immagini. Lo spazio riservato alla parola è stato invaso da format studiati apposta per neutralizzare qualsiasi dialogo o dibattito, e trasformarlo in ammuina. Abbiamo tutte le informazioni che ci occorrono per capire il mondo che ci circonda, ma allo stesso tempo siamo soggetti, o perlomeno esposti, a pratiche e discorsi tesi a impedirci di approfondire. Invadere le piazze le strade non basta più: dobbiamo invadere le coscienze.

Ricordate le primavere arabe? Con quale unanimità sono state applaudite dai media occidentali e dalla quasi totalità dell'opinione pubblica! Sembrava l'alba di un nuovo giorno per il Nord Africa. Non si può fare a meno di osservare che i risultati sono stati piuttosto deludenti. Il fatto che un tentativo di rovesciamento dall'alto di un governo formalmente legittimo, che vi piaccia o no, come quello di Assad in Siria sia stato presentato come l'ennesimo episodio di quel presunto risveglio dovrebbe darci un indizio rispetto al ruolo che sta assumendo l'informazione nel manipolare la nostra percezione degli eventi. E se non bastasse la Siria, basta guardare a Ucraina e Venezuela. Del paese est-europeo ci hanno raccontato la valorosa resistenza al neo-zarismo putiniano, l'indomito spirito di indipendenza, la pacifica rivoluzione arancione. Poi, di botto, ci troviamo le piazze invase di neo-nazisti con il braccio teso che inneggiano, fra gli altri, a un imbianchino austriaco di trista memoria e linciano comunisti: qualcosa non quadra. Così come non quadra la narrazione delle guarimbas venezuelane fatta dai nostri quotidiani, in primis dall'ormai scandalosa Repubblica, l'unica giustificazione della quale sarebbe che il suo inviato Omero Cia - pardon, Ciai - fosse atterrato nel paese sbagliato.

Le piazze non sono sempre buone, come pensavo da adolescente, quando chi manifestava ci portava un messaggio chiaro e soprattutto generato dal basso. Questo flusso costante di notizie, di informazioni, di immagini a cui siamo sottoposti 24h rischia di renderci sudditi dell'errore, intrappolarci in una rete di equivoci. Oggi tutti facciamo informazione, tutti partecipiamo a quel flusso: bene, dobbiamo farlo responsabilmente. Dobbiamo resistere alle trappole del narcisismo, al richiamo dell'omologazione, alle sirene della popolarità. Dobbiamo scrivere e diffondere quello che pensiamo, e pensare quel che è giusto. Proprio come si sforza di fare il vostro Bradipo, titolare di un blog che non fa mai più di 50 accessi al giorno. Buona domenica e forza Napoli.

giovedì 13 marzo 2014

La paghetta



Quando ero un pargolo, papà e mamma mi davano la paghetta. Io ci compravo le figurine dei calciatori, la coca cola e chi si ricorda più cos'altro. Poi, con la pubertà, smisi di fare l'album e passai dalla coca cola alla birra, ma la mentalità era sempre la stessa: ero un salariato. Io studiavo e cercavo di essere un buon figlio, e i miei genitori mi davano in cambio qualche lira. Da dove venivano quei soldi? Ne avevo un'idea piuttosto vaga. Non avendo mai lavorato in vita mia, non poteva che essere così. Tutto ciò che mi preoccupava era di continuare a percepire quella paghetta prima del sabato sera, e poter così consumare il mio panino e la mia birra da Alexander, a via Cilea, angolo via S.Maria dalla Libera, Napoli.


Passarono gli anni, mi diplomai, mi iscrissi all'università. Venni a contatto con una realtà diversa. Ora dovevo organizzarmi da solo lo studio e gli esami. Non fu facile. La libertà, al contrario del libertinaggio, comporta responsabilità. Fu l'università a farmi capire il mondo degli adulti, quel mondo fatto di scelte e conseguenze. Quel mondo in cui di tanto in tanto, e a volte senza il minimo preavviso, ti trovi davanti a un bivio senza indicazioni e devi scegliere se andare a destra o a sinistra.

La mia personale convinzione è che molte persone non arrivino mai a realizzarle, queste cose. Restano ragazzi, non imparano a scegliere, a decidere, e a prendersi la responsabilità delle conseguenze. Vanno avanti con i paraocchi. Di conseguenza, non possono avere idee informate e degne di essere prese in considerazione sulla società e sulla politica. Sono ciucci di fatica, per cui tutto ciò che capiscono è la logica del bastone e della carota. Non sono in grado di comprendere il concetto di democrazia, per quanto possano riempirsene la bocca a sproposito. Il loro unico criterio, nel valutare un candidato, un partito, una proposta politica, è la speranza di ricevere la carota anzichè il bastone.

E veniamo al presente. La carretta si è impantanata, non va più. Il ciuccio ha preso bastonate su bastonate, ma non è riuscito a tirarla di un solo centimetro. Non solo; è da tanto che non vede più la carota, e neanche il fieno abbonda. Da ciuccio qual è, non si chiede perchè non riesce più a tirare la carretta, se per caso ci sia da fare una riparazione, cambiare una ruota, alleggerire il carico... Si è fermato e aspetta che il padrone gli somministri la tanto sospirata carota, sperando di non prendere più legnate. Io, che a mia volta spero di aver superato lo stadio ciuccesco, credo che con questo spirito la carretta sia destinata a restare ferma. E, poichè io mi pongo il problema della provenienza delle carote e dei soldi, mi rendo conto che non possiamo aspettarci atro che ulteriori bastonate.

Godeteveli, quegli 80 euro in più nella busta paga. Sempre che abbiate una busta paga, naturalmente. E sempre che alla fine vi vengano effettivamente dati, s'intende. Sono la vostra paghetta. Ma non contate di farci troppi weekend da Alexander. Sono una tantum. La carota si consuma molto, molto più velocemente del bastone. E chi ha sabotato la carretta che stiamo tirando lo sa molto bene. Quelli, a differenza dei ciucci, non portano i paraocchi. E sono bravissimi a prendere decisioni: sono secoli, millenni, che decidono per i ciucci.

giovedì 6 marzo 2014

La bellezza e la solitudine

In quanti pezzi mi hanno ridotto i testicoli con La grande bellezza? Sono giorni che cerco di capirlo. Ogni volta che il grottesco chiacchiericcio generato dalla pellicola sembra essersi placato, mi arriva alle retine o ai timpani un nuovo episodio dell'infinita saga. Come spesso accade in questo paese, il film di Sorrentino ha spaccato la società italiana: c'è chi lo ama e chi lo odia. Io ho l'impressione di aver capito perchè.

Questo è un momento estremamente difficile e delicato per il nostro paese. Un momento che va avanti da anni ormai. Si potrebbe assumerne come inizio quello della crisi economico-finanziaria, o il colpo di stato soft che ha sostituito al governo Berlusconi (su cui tutto si può dire, meno che non fosse espressione della volontà popolare) quello di un tecnocrate non eletto. In ogni caso, la sensazione di attraversare una fase di trasformazione è netta. La scelta di sostituire Renzi a Letta è indicativa, da quel punto di vista.

Come sempre accade in tali fasi storiche, le società si spaccano. E, sebbene i sintomi di queste fratture siano nei discorsi e nelle prese di posizione, anche su argomenti apparentemente "innocenti" come un film o un libro, è nelle vecchie, stantie se volete, basi materiali dell'esistenza che va ricercata la loro essenza. A chi è piaciuto La grande bellezza? E perchè?

Il film è stato accostato, a mio giudizio impropriamente, a La dolce vita di Fellini. A una prima, superficiale occhiata, si capisce bene perchè. In realtà, se c'è qualcosa nel repertorio felliniano che somiglia a questo lavoro è Otto e mezzo. Entrambi raccontano una crisi. Ma mentre nel capolavoro del maestro riminese la crisi è personale, nel film premiato a Hollywood riguarda un intero popolo. E in quella decadenza generale, molto più profonda di quella raccontata ne La dolce vita, il dandy Gambardella si trova perfettamente a suo agio. Come ogni buon conservatore, è ben disposto a sacrificare la speranza in nome dello status quo. Status quo che per lui si identifica con l'adorazione del passato, tanto storico quanto personale. Non scrive più, non crede più in niente, e sembra quasi provare una perversa soddisfazione nel constatare che tutto muore, intorno a lui. Come dicevo, è un conservatore.

Un solo personaggio lo turba: la vecchia bizzoca. Pardon, come mi viene in mente di usare un lessico tanto irrispettoso di fronte alla santità? La suora ultracentenaria. La scena con cui si chiude il film è estremamente tetra, e io rabbrividisco al pensiero che amici, per di più di sinistra, l'abbiano trovata bellissima. La visione del mondo che ne viene fuori è aristocratica quanto triste. Io, ve lo ricordo sempre, sono semi-colto e rozzo, ma
una scena come quella avrò la proterva iattanza di contestarla fino alla morte. Il paese vecchio, morente, rinchiuso nel suo passato, e che solo in quello riesce a trovare consolazione, non è l'unica Italia che esista. Ce n'è un'altra che prova a guardare avanti, e che quelle maledette scale le salirebbe in quattro e quattr'otto, senza troppo sforzo, se la vecchia bizzoca si togliesse dai coglioni. E la saliremmo insieme, non da soli. Se i Jep Gambardella la smettessero di coltivare la decadenza e tornassero a scrivere, tornassero al lavoro, forse questo paese non sarebbe diretto da mafiosi vestiti dai migliori sarti di Roma. E capirebbe che la grande bellezza è quella ancora non vista, e che, se lavoriamo per costruirla, un giorno vedremo. Vedremo, al plurale.