lunedì 2 ottobre 2017

Lavorare, guadagnare e votare




DISCLAIMER: questo post contiene ironia.


Allora, gentaglia, fa d'uopo che io scriva qualcosa sulla situazione catalana. Come sempre, e come voi sapete bene, io vedo più lontano degli altri, appesantiti come sono da tutta una serie di inutili nozioni e pregiudizi. La verità sulla delicatissima impasse che si sta venendo a creare fra Barcellona e Madrid noi la possiamo capire solo se partiamo dalla canzoncina per bambini di cui ho linkato il video. Non c'è bisogno di parlare il catalano per capire che in questa regione si incita chiaramente, e senza vergogna, al lavoro minorile. Basta guardare i gesti inequivocabilmente agricoli dei pargoli per rendersene conto. Dovete sapere, miei cari catecumeni, che i catalani non sono come noi immaginiamo gli spagnoli; quelli sono gli andalusi. I Catalani sono uno specie di incrocio fra l'industriosità dei lombardi e l'attaccamento morboso al denaro dei genovesi. Sapete come è stato inventato il filo di rame? Da due catalani che si contendevano una peseta.

Ci sono altre mille barzellette sui Catalani, ma citarle tutte sarebbe beside the point, come dicono a Boscotrecase. Capite bene che in una regione in cui i bambini cantano in coro "Lavoriamo, così avremo l'avena" non potrà mai passare un discorso del tipo "ma dai, rilassati, va bene i politici ti mangiano le tasse ma alla fine basta che ci sta il sole, basta che ci sta il mare, io tengo uno zio sopra al comune, stai in mano all'arte, senti come è buono questo prosciutto, è serrano". Non sono Andalusi, sono Catalani. Lavorano, producono e si sentono, forse in parte giustificatamente, meglio di chi si adagia. Sono, in buona sostanza, settentrionali. Non so in quale misura siano colpiti dal priapismo di bossiana memoria, ma sono sicuramente gente del Nord.

Ora, uno potrebbe, a voler proprio ragionare, mettere l'accento sul fatto che questa visione mal si sposa con tutta la retorica di sinistra sciorinata in questi giorni. L'andaluso non è come il catalano per ragioni storiche, più o meno le stesse per cui il napoletano non è come il genovese o il lombardo. Allora, è giusto dire visca Catalunya se poi l'Andalusia deve morire di fame? Ed è giusto che la Catalogna torni ad essere rica i plena a spese della Galicia e dell'Extremadura? 

Lancio un'idea: lavorare meno, lavorare tutti. Meno treballar per i bambini catalani, e più sviluppo e occupazione per le regioni che oggi la Catalogna sente come una palla al piede. Più giustizia, più solidarietà e più rispetto per tutti i cittadini di questo paese bellissimo e straordinariamente vario che è la Spagna. Tapas, tortilla de patatas e paella per tutti; e che l'avena, cruda e non condita, se la mangino gli imbecilli, incoscienti e corrotti che hanno fatto manganellare anziani indifesi.

venerdì 22 settembre 2017

Avere fede nella scienza

Cari lettori, bentrovati. Ormai scrivo di rado, vedete; sono molto preso dai cambiamenti che stanno sconvolgendo, questa volta in positivo, la mia vita. Dopo la cattività lavagnese, sono tornato a Genova. Non si sono aperte le acque al mio passaggio, né è caduta manna dal cielo durante il trasloco che mi ha portato nella mia nuova dimora, umile ma onesta. Eppure, io giubilo, gongolo e in una certa qual misura zuzzurello. Ne ho ben donde. Dal mio trilocale sito sulle alture di Sampierdarena, domino via Cantore e tutto il Medio Ponente, compresa la scuola in cui ho cominciato a elargire a piene mani il mio verbo ai fanciulli. Lasciate che i pargoli vengano a me, ché potrebbero finire peggio...
 
Bene, oggi parliamo, come si evince dal titolo, di scienza. Una gran cosa, potenzialmente, ma con un grandissimo limite: nasce dalla disuguaglianza. Come? In che senso? Bene, vediamolo.
 
Nelle prime società sedentarie tutti contribuivano alla produzione del cibo, come agricoltori, raccoglitori o cacciatori; alla produzione del vestiario e delle suppellettili; o, infine, alla cura dei piccoli. Insomma, non c'era spazio per attività non tese alla soddisfazione di bisogni asolutamente primarti, perché non c'era surplus. Con il miglioramento delle tecniche agricole si comincia a ottenere questo surplus, e si libera manodopera per qualcosa che non è strettamente necessario, ma è certamente utile: l'osservazione del mondo. La religione, inizialmente, non è dogma, non è fare il tifo per Gesù contro Maometto o viceversa, ma un tentativo di spiegarsi il mondo. A chi ne era affidata la pratica? Naturalmente, ai più anziani e saggi. Ecco che nasce una casta.
 
Ora, non ho intenzione di tracciare una storia della scienza, a partire dai suoi albori per arrivare ai giorni nostri. La cosa che mi interessava era stabilire che, in un primo momento, la scienza e la religione sono la stessa identica cosa, e sono altro dal dogma. Ma poi, per una serie infinita di ragioni, l'esclusività dell'accesso alla conoscenza diventa potere, e il sapere si calcifica, si cristallizza. Ogniqualvolta che, nella Storia, una classe in ascesa cerca di assicurarsi maggior potere, deve sfidare l'ideologia dominante, ovvero quell'immenso complesso di dogmi e verità indimostrate (o fittiziamente dimostrate) su cui si regge l'edificio sociale.
 
Ora, cosa vuol dire "avere fede nella scienza"? Dubitare, ricercare, mettere in discussione, o trattare con disprezzo qualsiasi idea o nozione che vada contro il sapere cristallizzato? Questo dipende da come intendiamo schierarci rispetto al paradosso del surplus. Se intendiamo il sapere come servizio alla collettività, diffideremo della spocchia dei sommi sacerdoti di questa o quella disciplina; se invece lo intendiamo come impalcatura a sostegno dello status quo, faremo meglio a rifugiarci nell'autorità, nell'ipse dixit. Perché poi questi sommi sacerdoti, gira e rigira, sono quasi sempre dalla parte del torto (come lo è il privilegio, del resto). Gli egittologi hanno affermato per secoli, fino a tempi piuttosto recenti, che le piramidi di Giza erano state costruite da schiavi; oggi sappiamo che questo non è vero. Il punto è che, in una società autoritaria, votata alla coercizione, è preferibile pensare che la grandezza sia il risultato del dominio assoluto di un solo uomo - il faraone - su masse di disgraziati senza il minimo diritto. Per fare un altro esempio, quando Darwin ha suggerito che l'uomo discendeva da una qualche forma di grosso primate, lo hanno mandato a comprare il tozzabancone. La sua visione ci ridimensionava, ci costringeva a fare un bagno di umiltà. Ora l'eresia dello scienziato inglese è accettata da tutti tranne certuni bifolchi dell'Alabama, probabilmente affetti da disturbi specifici dell'apprendimento, così lenti nella lettura da non riuscire a terminare quel singolo libro e passare appresso.
 
Io ho fede nella scienza, è per questo che diffido dei sacerdoti. L'eresia è la vera e propria essenza  del sapere, lo scarto fra dogma e conoscenza, la strada che separa il selvaggio dall'uomo civilizzato. Se vogliamo avere un futuro, è solo in quella che possiamo permetterci di credere. Tanto nella casta, statene pur certi, non ci fanno entrare.

domenica 20 agosto 2017

Riflessioni su un semaforo genovese

Il Bradipo non scriveva da un po'. Si era appisolato sul suo ramo, nella dignitosa solitudine di chi ha ormai capito che l'unico modo per limitare i danni è prendere il genere umano a piccole dosi. Ma il fatto è che anche lui, per quanto forti siano le sue affinità agli ungulati arboricoli, ne fa parte; anche lui, dunque, deve pagare dazio a questo minuetto di efferate crudeltà reciproche che è diventata la società. L'unico lato positivo della faccenda è che si raccoglie materiale per invettive e bestiari. Ecco, ordunque, inveiamo! 
Oggi mi sono recato a Genova dal mio confino lavagnese. Mentre tornavo verso la stazione per prendere il treno diretto a Sestri Levante, dal quale sarei sceso alla penultima fermata, dopo uno stillicidio di oltre un'ora di continue fermate in borghi di poche centinaia di anime, ho avuto un'epifania. Mettetevi a sedere con la vostra bevanda preferita, e se per caso doveste avere un pirito in sala d'attesa, non fatevi venire in mente l'insano pensiero di trattenerlo per creanza o per soggezione nei confronti dei presenti: yours truly, come dicono a Vairano Scalo, se ne infischia del giudizio delle genti; orsù, fatelo anche voi! Scorreggiate fino ad esaurimento scorte e mettetevi comodi. Niente deve interferire con la trasmissione del Bradipo-pensiero e con il piacere che la suddetta trasmissione senz'altro vi procurerà.
Orbene, stavo attraversando via Balbi, quasi in Piazza Acquaverde, quando un ciclista è entrato in rotta di collisione con il vostro blogger preferito. Dovete sapere, cari lettori e catecumeni, che a Genova è in uso attraversare sulle strisce, e solo quando il semaforo è verde, o al massimo giallo. Ecco, il mio era proprio giallo. Allora, ben consapevole della quasi patologica mosciaria genovese, che si riflette anche nella temporizzazione dei semafori, ho affrettato il passo. Il ciclista, che aveva evidentemente il rosso, mi ha guardato con l'aria di chi subisce un torto. Questa espressione è durata una frazione di secondo, perché poi si è reso conto di non potermi muovere il minimo appunto. Il problema è quella frazione di secondo, e soprattutto il fatto che il ciclista in questione si sia sentito leso nel suo diritto di passare con il rosso. 
In molti, sulle nostre strade, hanno fatto la scelta di abbandonare auto e moto in favore delle biciclette. Certo, ci possono essere mille motivazioni dietro questa decisione, ma notate una cosa: non si fermano quasi mai con il rosso. E notatene un'altra, sono sempre, e dico sempre, in divisa da radical chic. Ecco, semplificando molto, ma non troppo per quanto mi riguarda, questa è la nuova Sinistra in Italia: un gruppo di persone che rivendica il diritto a passare con il rosso, a non dare alcun tipo di educazione ai propri figli (come insegnante ne so qualcosa...) e ad ammorbare chi li circonda con una variopinta panoplia di scelte alternative che hanno l'unico scopo di definirli in quanto élite. La loro libertà è libertà di culto, la libertà di essere setta e andare, alla bisogna, in culo al mondo universo. 
Io cari amici, tifo per il semaforo: una cosa meravigliosa, basata sul buonsenso e uguale per tutti. Buonanotte e sogni d'oro. Vi cuoro. 

sabato 27 maggio 2017

Orrore perpetuo

Cari adepti, buongiorno. Come vi trova questa bella mattinata di tarda primavera? Dal momento che trova me in uno stato pressoché pietoso, e non ho neanche la forza di farmi la doccia, scriverò. Scriverò dell'orrore perpetuo che mi è toccato come sorte professionale.
Lo avete visto il film del quale vi ho azzeccato la locandina sulla pagina? Guardatelo, è fatto molto bene. Si tratta di un tizio che per lavoro scrive recensioni degli alberghi, il quale finisce in una stanza maledetta di un hotel statunitense. Questa stanza ha la peculiarità di farti rivivere la stessa giornata in eterno; ogni volta che il ciclo ricomincia si presentano orrori leggermente diversi, ma sostanzialmente tutti riconducibili alla natura malvagia della stanza stessa. Ecco, vi sembrerà strano, ma io sono fortemente convinto che l'autore di questa sceneggiatura abbia avuto una pessima esperienza scolastica. Sì, perché quello che racconta il film è qualcosa di molto, ma molto simile a una cattiva scuola.
Ieri una collega mi diceva di essere delusa dal fatto che i nostri alunni, quelli della classe che abbiamo in comune, non hanno dato mostra di aver fatto una maturazione significativa nel corso di questo anno. Credo che abbia ragione. Giorno dopo giorno, sono entrati in aula per dare vita a un orrore leggermente diverso nei dettagli da quello del giorno prima, ma fondamentalmente generato dalle stesse cause: sfiducia in se stessi e nei propri insegnanti, e di conseguenza ansia e rabbia di fronte alle prove che non possiamo esimerci dal sottoporre loro.
Ma l'orrore va oltre. Per noi docenti è ancora peggiore. Sì, perché se i ragazzi se ne liberano in cinque anni, per noi questo tormento continua, ci vede invecchiare (male) e diventare sempre più deboli e sprovvisti di strumenti ed energie per farvi fronte. Deboli perché perdiamo l'entusiasmo e le forze, e privi di strumenti perché il tessuto sociale degenera rapidamente e noi non possiamo farci assolutamente niente. Gli adolescenti sono inesperti e ignoranti, e dunque le prime vittime designate di questo degrado. Le seconde siamo noi, chiusi in una stanza in cui il tempo si è fermato e non esiste più il futuro.

lunedì 24 aprile 2017

L'ordalia del fuoco, il Socialismo e la barbarie



C'è uno spartiacque che oggi è molto più importante delle presunte differenze fra Destra e Sinistra, diventate ormai due diversi segmenti di mercato, nella maggior parte dei casi. Si tratta della differenza fra coloro che credono all'idea di fine della Storia (ovvero la stragrande maggioranza degli Italiani e dei cittadini europei occidentali in generale, a giudicare dai loro processi politici) e coloro che non ci credono. Questi ultimi guardano con occhi più critici a quello che accade nel mondo, come a qualcosa che continua la storia del Novecento, rispetto a cui non vedono cesure. I primi, di contro, applicano quello che al vostro umile servo sembra una forma di pensiero magico agli eventi succedutisi fra il 1989 e il 1991, con lo sgretolamento del blocco orientale. Un po' come il visigoto spettatore dell'ordalia del fuoco, traggono dal fatto che l'imputato non sia riuscito a camminare sui carboni ardenti la conclusione della sua colpevolezza. La Storia ha emesso il suo giudizio: gli uomini non sono tutti uguali, e mai potranno esserlo. Di più: uguaglianza e libertà sono inconciliabili fra loro, e la seconda è naturalmente preferibile alla prima, perché insomma, è chiaro, qualsiasi coglione può farcela nella società dei reality e delle favolette politically correct. Io non voglio essere di più nell'uguaglianza, voglio avere di più. Questo, ovviamente, perché sono subalterno fino al midollo, e non potete pretendere che la mia ambizione vada oltre il feticismo della merce, la necrofilia del consumo.

La Storia non è finita, si è fermata a riposare. Ed appare sempre più preoccupantemente evidente che dovrà rimettersi in marcia, che non c'è stabilità in questo modo di produrre, distribuire, consumare e intendere la vita. Quale strada prenderà è da vedere, ma non potrà rimanere ferma ancora a lungo. Chi la orienterà? Mi sembra chiaro: coloro che non si fanno ingannare nel crederla finita. A quale prezzo? Questo dipenderà dalla consapevolezza che avranno i visigoti ai bordi del percorso infuocato che quella prova li riguarda e ci riguarda tutti; che alla fine di quella passerella rovente c'è una vita decente per tutti, senza la minaccia dell'esclusione, della privazione, della guerra. E che chi ci ha messo i carboni ardenti è l'unico, vero nemico.

Ma i Visigoti non brillano, parafrasando un vecchio cantautore francese, ni par le goût, ni par l'esprit. Fin quando saranno tali, non potranno che applicare alla realtà i principi interpretativi superstiziosi e fallaci che costituiscono le uniche risorse di una società senza cultura scritta. Ne consegue che il mondo si salva in un solo modo : con l'educazione. Non crediate di proteggere i vostri figli, di fare il loro bene, nell'essere permissivi e poco esigenti. Fidatevi, la Storia non è finita. Non vi illudete, non finirà fino a quando le masse dei lavoratori e dei miserabili, i soliti, eterni imputati della storia, non riusciranno a superare l'ordalia. Se amate i vostri ragazzi, preparateli a camminare su quei carboni ardenti, o preparateli alla barbarie.

 

mercoledì 19 aprile 2017

Difendere la città

Signore e signori, buonasera. In attesa di Barcellona-Juventus, parliamo un po' di questa nuova iniziativa del sindaco De Magistris: uno sportello per denunciare chi parla male di Napoli. La nostra città va difesa, giusto. Come? Con una forma di segnalazione non dissimile da quella che taluni sfigati rancorosi fanno nei confronti di questo o quel personaggio che su Facebook riceve qualche consenso e qualche like in più di loro.
 
Io sono carne di macello, sono emigrante, lo sapete. Se me ne sono andato, è perché la mia città natale qualche difettuccio ce l'ha. Se non altro, offre molto poco in quanto a opportunità lavorative. E tanti altri sono i limiti di cui si potrebbe scrivere, se non temessi di finire sul patibolo di questa nuova Inquisizione partenopea.
 
Intendiamoci bene, io non mi vergogno delle mie origini. Sapete perché? Perché significano molto poco, ve lo assicuro. I vizi napoletani sono, per la massima parte, vizi italiani. E lo stesso vale per la maggior parte dei nostri pregi. Da Genova a Napoli cambia l'accento, e poco più. Noi italiani siamo imbroglioni, pigri, bugiardi, fanfaroni. Gli ingredienti del cocktail sono questi, le quantità variano leggermente da città a città, da regione a regione. Ah, dimenticavo, e siamo campanilisti. Questo ci porta a vedere solo il bello del nostro luogo natio, e tutto il male delle altrui contrade.
 
Volete difendere Napoli? E allora vivete da persone per bene. Lavorate con serietà e passione, vivete la città in cui abitate (qualunque essa sia) con senso civico, crescete bene i vostri figli, pagate le tasse. E poi, quando qualche miserabile vi giudica per la vostra provenienza, scrollate le spalle e fatevi una risata: il napoletano serio si difende così. 

martedì 28 marzo 2017

Rumenta

"Rumenta" è parola genovese che indica, come forse avrete intuito, la monnezza. Ora, vi ricordate quella storia che tutti gli uomini sono uguali, senza distinzioni di razza, censo eccetera? Si tratta di una clamorosa cazzata. Gli uomini, semmai, nascono uguali; il seguito sta a noi scriverlo. Dico "semmai" perché dobbiamo, se parliamo di uguaglianza, tenere conto di tutti coloro che nascono con seri handicap. Un esempio potrebbero essere le mie mani, geneticamente inadatte a suonare la chitarra, o qualsiasi altro strumento a corde.
 
Dunque, nasciamo più o meno tutti uguali. Ma poi ognuno di noi si scrive la propria parte nella commedia del mondo, e tutti insieme, di conseguenza, ne scriviamo la trama. E, per scrivere, bisogna saper tenere la penna in mano. Questo, in buona sostanza, è l'educazione. Parlo di educazione, e non di istruzione, perché siamo esseri umani e non lavatrici. Tutti diversi, sebbene uguali, e tutti sprovvisti dei programmi di lavaggio. Se sai scrivere, partecipi alla stesura del copione. Altrimenti, fai la comparsa fino al giorno in cui butti il sangue.
 
Amarcord. Quando ero fanciullo, mia madre insegnava in un istituto tecnico, proprio come me adesso. Io leggevo i temi dei suoi alunni (insegnava italiano e storia) con grande curiosità, frammista a un senso di ammirazione; sì, perché quei ragazzi e quelle ragazze, nonostante l'augusta genitrice li tempestasse di insufficienze, scrivevano non c'è male. Almeno, così mi pareva all'epoca, quando ancora avevo tutti i capelli in testa e neanche un pelo di barba. Oggi che la mia peluria è migrata verso Sud come una rondine, magari avrei un'impressione diversa, chissà. Ma una cosa mi appariva chiarissima: quei ragazzi e quelle ragazze si impegnavano.
 
Quando ho cominciato a insegnare, mi sono chiesto che tipo di insegnante volessi essere. Ho letto qualcosa, visto che a me hanno insegnato a leggere, e un testo in particolare mi ha colpito molto: La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. In questa opera ho trovato una formula che mi ha affascinato tanto da impararla a memoria: "la vocazione storica e ontologica a essere di più". Parole bellissime e sommamente pregne di significato. Ripetetele, assaporatele, palleggiatevele un po'. Sono la fine del mondo. O l'inizio di uno nuovo.

Già, un mondo nuovo. Una volta c'era chi ci credeva. Ora nessuno perde più tempo a immaginare qualcosa al di là dell'esistente. Forse molti non si rendono neanche conto che esista un divenire storico, che le società vanno cambiando. Ad ogni modo, non si concepisce più la possibilità di essere di più. Tutto è ciò che è, e basta. Chi è poco farà finta di essere molto, o almeno un po' di più, per non sentirsi quello che è: rumenta. La scuola non serve più al resto di niente. Dovrebbe insegnare (e in molti casi lo fa) a mentire, a imbrogliare, a falsificare, e soprattutto a nascondersi a se stessi. La Storia è finita, e la speranza di un futuro migliore è ormai qualcosa di inutile, inservibile: è rumenta.


sabato 18 febbraio 2017

Cicerone, le canne e la libertà.


Il post di ieri ha acceso dibattiti, come prevedevo. Me ne beo, visto che il mio fine è sempre e soltanto quello di provocare una reazione, positiva o negativa che sia. Nell'epoca del pensiero unico, dell'autoritarismo invisibile, perfino uno sprovveduto come me può e deve farsi carico dell'irrinunciabile compito di fare ironia, nel senso socratico del termine. 

Dunque, per prima cosa constatiamo che tutta l'Italia, non solo Lavagna, è in collera con la madre di Giovanni; in seconda battuta, notiamo come questa morte venga strumentalizzata per fare una battaglia presuntamente libertaria sul diritto a farsi le canne (battaglia sacrosanta, finché riguarda consumi che avvengano fuori dalle istituzioni educative). Personalmente, per chiarire quello che ho scritto ieri e per aggiungere ulteriori ammonimenti da vecchio bacucco, tornerò a insistere su un altro aspetto.

Cari catecumeni, ormai sono tre anni che insegno nella scuola pubblica, e un'idea dei sedicenni di oggi me la sono fatta. Ho insegnato in una grande città e in provincia, in un professionale, un liceo e un tecnico, e vi scongiuro quindi di credermi se vi dico che, nella maggior parte dei casi, i ragazzi non hanno un Nord, niente in base a cui orientarsi, vanno a vento. Ad eccezione di quei pochi che hanno la fortuna di vivere in una famiglia vera, sono immersi in un vuoto assoluto. Avvertono vaghi malesseri ai quali non hanno la minima idea di come rimediare, dato che la scuola, ormai trasformata in poco più che un bivacco, non li aiuta a sviluppare le proprie capacità di analisi della realtà, né il proprio carattere. Vittime? Certo. Ma non di chi vorrebbe spingerli a cambiare.

E adesso, come si conviene al mio stile, passo alla modalità autobiografica. Quando io avevo quattordici anni, mi si è imposto di imparare a tradurre dal greco e dal latino; oggi, grazie alla valenza formativa di quei pomeriggi passati a bestemmiare i morti di Cicerone e Senofonte, sono in grado di insegnare un po' di inglese ai più abbelinati del reame. Ma se non fosse stata esercitata su di me una pressione severa e costante da parte della mia famiglia affinché mi impegnassi nei compiti scolastici, io non avrei mai imparato neanche la prima declinazione. L'essere stato costretto a farlo non costituisce una violenza perpetrata contro la mia libertà, e chi pensasse una cosa del genere si sbaglierebbe clamorosamente; il fatto è che a quattordici anni bisogna imparare ad essere adulti, e questo è difficile. Il richiamo della diversione è più forte di quello del dovere. La diversione: quella cosa a cui un adulto ben formato si dedica nel tempo libero e in modalità che non interferiscano con i suoi impegni.

E veniamo alle canne. Io sono un antiproibizionista. Se le bevande alcoliche sono acquistabili tranquillamente in un supermercato o in un'enoteca, non ha senso che la cannabis sia illegale. Il vino, tanto comune e radicato nelle tradizioni di qeusto paese, è potenzialmente più nocivo dell'hashish o della marijuana. Io lo bevo, in quantità modiche. Qualche volta, diciamo la verità, bevo un po' di più di quello che può essere definito "quantità modica". Ma - e qui casca l'asino - non lo faccio mai a scuola, o nelle ore precedenti alla mia entrata in classe. Una cosa del genere inficerebbe la mia sovrumana capacità di spiegare i verbi modali a gente che ha difficoltà perfino a scrivere il proprio nome (non posso mostrarvi le loro verifiche perché è contro la legge, vi prego ancora una volta di credermi sulla parola). Né tantomeno mi permetto comportamenti che possano essere configurati come reati, mentre sono a scuola. Cerco, nonostante la mia cazzonaggine congenita, di dare un esempio positivo ai miei alunni.

Chi sono le persone che si troveranno impreparate quando la vita e la Storia le chiameranno alla lavagna, dunque? Quelle che, invece di crescere nel lavoro e nell'impegno, sono rimaste piccole. Tutta la cannabis, tutte le macchine di lusso, tutte le pellicce, tutti i gioielli del mondo potranno distrarli, ma non cambieranno di una virgola il giudizio. E la galera peggiore a cui si possa essere condannati è l'incapacità di capire cosa ti sta succedendo, e perché: in una parola, l'ignoranza.

giovedì 16 febbraio 2017

Alla lavagna

Ho saputo della morte di Giovanni, il suicida di Lavagna, mentre facevo lezione. Non frequentava la mia scuola, ma alcuni dei miei alunni lo conoscevano. Frequentava un liceo sportivo, una delle tante sontuose florescenze della "combo" di riforme che ha messo in ginocchio il sistema educativo italiano. Ora, io non so - e preferisco non sapere - cosa si insegni in un tipo di scuola chiamata "liceo sportivo", ma so che Giovanni non era uno "studente che studia", come avrebbe detto Totò; era uno dei tanti ragazzi che la mattina vengono parcheggiati in un'aula, aspettando il momento della campanella, che li libera dall'obbligo di avere a che fare con quei quattro rompicoglioni che siamo noi. E allora li vedi in giro per Chiavari, dove sono concentrate tutte le scuole superiori della zona, o nella vicinissima Lavagna, che con le sue giostre rappresenta la Mecca degli sfaticati. 
Giovanni fumava droghe leggere, e questo non è scandaloso; ma, se mi permettete, a me che ho già dato agli stili di vita alternativi (due anni di militare al Tien'a Ment, sempre per parafrasare Totò), una cosa è farlo nel tempo libero, un'altra dedicare intere giornate a questo consumo. Io ogni sera mi apro una birra, ma dopo aver fatto lezione, aver preparato quelle del giorno successivo, corretto eventuali compiti; insomma, ho un tempo di lavoro e un tempo di svago. La scuola, molte lune fa, mi ha insegnato a fare questa distinzione.
La GdF, questi macellai, questi assassini di stato, è stata chiamata dalla madre di Giovanni. Il paesello, questa tristerrima cittadina di SUV e pellicce, di cattolicesimo bigotto e divorzio facile, di adulti distratti e figli allo sbando, si è indignato. Loro, i loro figli, li proteggono, e una cosa del genere non l'avrebbero mai fatta. Se Giovanni fosse stato figlio loro, passerebbe ancora le giornate a farsi le canne, tra la scuola e la strada, mai veramente distinte in quanto vissute con le stesse identiche modalità. 
 
Voi, che vi definite comunisti, o quantomento progressisti, e adesso parlate di brutalità poliziesca e legalizzazione delle droghe leggere (sulla quale peraltro concordo), siete sicuri che il problema - in questo caso - sia la repressione? Prima o poi la vita di ciascuno di noi, o la Storia - che è vita collettiva delle civiltà - ci chiama tutti alla lavagna; che vergogna sarebbe fare scena muta perché abbiamo passato una vita intera a scambiare il vuoto assoluto per la libertà. 

sabato 28 gennaio 2017

Il monopolio della forza


Ebbene, è arrivato il fine settimana. Dal momento che il cane mozzica lo stracciato, il tempo fa schifo e io ho tutta la scatola cranica indolenzita per via della sinusite. Viene così sventato, per l'ennesima volta, il pericolo che io possa godermi questi due giorni senza fanciulletti posseduti dal Maligno. Essendo costretto da un tasso di umidità del 4675% a restare a casa, scriverò.

Avrete letto della legge approvata recentemente in Russia (per ora solo da una delle due Camere), che "legalizzerebbe" la violenza domestica. Naturalmente si tratta dell'ultimo di una lunghissima serie di attacchi a un paese considerato nemico dalle elite europee e nordamericane, per motivi che ovviamente non hanno niente a che vedere con quei quattro valori di cartapesta che ci siamo ridotti a coltivare. La verità è che i Russi possono anche trovare una cura definitiva per il cancro, azzerare la disoccupazione e far crescere la palma da datteri in Siberia, saranno sempre cattivi. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì del modo in cui la notizia è stata travisata.

Andando sul sito della BBC ci rendiamo conto che questa legge, in effetti, ne corregge una precedente  che era piuttosto severa contro gli autori di violenze in famiglia. Il nuovo quadro normativo prevederebbe pene lievi per coloro che non causano danni fisici, a patto che non siano recidivi. Come possiamo vedere, siamo ben lontani da un semaforo verde offerto ai violenti. Sebbene la notizia sia stata prontamente associata al problema della violenza sulle donne, che come sappiamo bene fa tanta audience, a ben vedere questo aspetto c'entra poco e niente. Gli uomini che picchiano le loro donne lo fanno "per bene": i danni li fanno, eccome. Qui c'è un'altra cosa in ballo, e cioè il classico ceffone dato a un figlio o a una figlia quando passano il limite.

E nemmeno mi voglio addentrare nel discorso sulla validità del metodo mazza e panella, sul quale ognuno ha la sua idea e se la terrà. Il punto è come, dietro una patina di tolleranza e libertà, si nasconda il potere più dittatoriale e spietato che il mondo abbia mai conosciuto: quello del capitale. I bambini devono crescere liberi, senza costrizioni. Certo, perchè la pubblicità, la pressione dei pari (già belli indottrinati dai sacerdoti del consumo sfrenato) e il gran carrozzone dei mezzi di comunicazione non applicheranno su di loro nessun condizionamento, per carità. Non si permettano, mamma e  papà, di frapporsi tra questo colorato, simpatico totalitarismo e i loro figli. Gli unici che possono dare mazzate alla cecata sono i detentori del vero, unico potere che sopravvive in questa era petalosa: quello di guidare un gregge di imbecilli consenzienti alla fine della propria umanità.

domenica 22 gennaio 2017

Chi fatica e chi si arriccia i baffi

- E non vi arricciate il baffo...
- E pecché?
- Noi siamo napoletani, lo sappiamo che significa l'arricciatina di baffo...

Questo è un post semiserio, come si conviene a un globo terraqueo che ha perso la serietà. Lo ha dimostrato, in modo teatrale quanto patetico, da quando Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali negli USA. I sondaggisti, che qualche dato dovevano averlo alterato, a occhio e croce, hanno finto stupore; i commentatori, soliti volti noti, hanno dato fiato alle trombe come sempre, ovvero a vanvera; i bleeding hearts, gli educati alfieri del politically correct, si sono stracciati le vesti. Ma cosa è successo veramente? Bene, visto che ognuno ha detto la sua, parlando rigorosamente a vanvera nella stragrande maggioranza dei casi, ora lo faccio anch'io.

Già dal XIX secolo, cioè praticamente da neonato, il capitalismo industriale è entrato in una crisi di popolarità che nessun altro sistema aveva mai vissuto, se escludiamo le eccezioni della Riforma protestante e della Rivoluzione Francese. E questa crisi morale ha riguardato, presto o tardi, tutti i paesi in cui il processo di industrializzazione aveva luogo. La bile vomitata dalla borghesia su pensatori e attivisti socialisti, comunisti e anarchici era motivata da un fattore evidente: quei sovversivi avevano ragione. Si poteva pensare che il capitalismo fosse riformabile, ma che andasse riformato era un'evidenza che nessuno negava. E non - attenzione perché qua casca l'asino - perché il capitalismo fosse ingiusto, ma perché non poteva sopravvivere a lungo così come era.

E infatti ci sono volute due guerre mondiali per rimetterlo in sesto. La guerra è, oggettivamente, l'unico modo per far sopravvivere un sistema che necessita di un aumento continuo della produzione. Le bombe sono, dal punto di vista capitalistico, l'investimento migliore: si usano una sola volta, e poi devi rifare l'ordine. Ma, prima che un numero inconcepibile di tonnellate di bombe venisse sganciato sulle città europee, qualcuno negli Stati Uniti aveva già cominciato a capire che la giostra poteva continuare a girare solo se si cominciava a farci salire anche qualche inferiore, come avrebbe detto il Barambani. La civiltà dei consumi, quella che va in giro con la Ford modello T, se ne frega del proibizionismo e si rimpinza di pubblicità e gadget inutili, è l'unico modo per far sopravvivere un sistema irrazionale e violento. Se vuoi che il bambino si distragga e non ti dia fastidio, gli devi mettere la pazziella in mano. Altrimenti si accorge, bambino e buono, che lo stai stronziando, e diventa meno collaborativo.

Naturalmente, per avere il modello T, la casa col giardino e gli elettrodomestici bisogna lavorare. Questa è la semplice intuizione del fordismo: ti faccio lavorare e ti pago non dico bene, ma decentemente, affinché tu possa comprare quello che io vendo. In questo modo non solo io faccio un profitto, ma tengo anche buono un popolo, soddisfatto del proprio benessere; le rivoluzioni le fanno i disperati, non i figli degli avvocati e degli ingegneri, che magari si fanno crescere i capelli o portano i blue jeans, al limite distruggono le proprie vite con le droghe, ma difficilmente andranno mai oltre. Non sono lavoratori, sono gente che si arriccia i baffi. E, in quanto tali, nemici naturali di chi lavora. Per favore, non chiedetemi di spiegarvi questo passaggio, perché è così evidente che se non lo capite da soli non credo che potrò mai riuscire a spiegarvelo.

Dagli anni '80 in poi, abbiamo assistito a una graduale ma inesorabile ascesa di quelli che si arricciano i baffi. La classe media retrocede sempre di più con i suoi mediocri sogni di relativo benessere, e i baffi arricciati troneggiano su un mondo in cui la ricchezza è divisa sempre meno equamente. Qual è il problema? Che adesso il bambino non ha più la pazziella in mano. E, non più distratto né blandito da quelle briciole di benessere, sta sgamando il gioco. Non fatevi ingannare dal fatto che votano a "destra" e fanno discorsi "fascisti": stanno cominciando a capire. Per ora ce l'hanno con la globalizzazione, con i migranti, con il politicamente corretto; prima o poi, inevitabilmente, realizzeranno che il nemico vero è l'arricciatina di baffo. Chi ha velleità di intellettuale progressista dovrebbe cercare di capirlo prima di loro, prima che sia tardi; a patto,ovviamente, che riesca a resistere alla tentazione di arricciarsi quei cazzo di baffi.

martedì 17 gennaio 2017

Aristocrazia per tutti

- Cos'è che beviamo, Calboni?

Quella merdaccia di Calboni, essendo un fasullo da capo a piedi, sa bene come darsi un tono. Il geometra partorito dalla penna di Paolo Villaggio è maestro dell'arte del far vedere. Solo che, come tutti coloro che si arrampicano sul palo ben oliato dell'ascesa sociale, è a rischio continuo di rovinosi scivoloni. Fantozzi e Filini, che si portano la Prunella Ballor da casa, potranno non rendersene conto, ma chiunque abbia tanto così di cultura e di mondo visto e vissuto capisce quanto sia tristemente inferiore il maschio Alfa della megaditta. Non inferiore per aver avuto la sfortuna di nascere all'estremità sbagliata dei rapporti di produzione; inferiore perchè si vergogna di essere ciò che è, e prova a essere altro; e dunque ha accettato come un dato di fatto scontato, che non necessita di essere argomentato e dimostrato, figuriamoci affermato con la forza, la propria inferiorità.

E adesso accantoniamo il pessimo Calboni, e diamo uno sguardo a Mr. Wemmick, l'impiegato che prende Pip a ben volere in Grandi Speranze di Dickens. Wemmick vive in un castello con tanto di ponte levatoio, in cui si prende cura dell'anziano genitore e porta avanti un legame affettivo tenero e sincero con la fidanzata, Miss Skiffins. Se il giorno del suo matrimonio con quest'ultima Wemmick esce con una canna da pesca in spalla non è perchè si vergogna di quell'amore, ma piuttosto per difendere il proprio mondo affettivo e morale da quello ricco, potente, magari anche titolato ma essenzialmente plebeo nel peggiore dei sensi. Quello del suo datore di lavoro, l'avvocato senza scrupoli Mr. Jaggers, che vive e prospera raggirando il prossimo. In my private and personal capacity è la formula, buffamente ricalcata sul gergo legale, che utilizza ogni volta che vuole marcare il confine fra la merda che gli tocca mangiare in ufficio e la vita degna, addirittura esemplare, che si è costruito stoicamente nella dimensione personale.

Un mio amico sosteneva, in una conversazione su Facebook, che l'educazione (o istruzione, chiamatela come preferite) è per sua stessa natura aristocratica. Io sono d'accordo, ma bisogna intendersi sul significato dell'aggettivo. Oggi ho fatto verifica in 4A, e gli esiti sono stati sorprendenti. Per una volta, in positivo. Non che siano andati tutti benissimo, intendiamoci. Il punto è che certi 5 sono diventati 7, e certi 6 si sono trasformati in 8. Questo nel giro di un paio di mesi. Senza che io andassi incontro a uno stuolo di alunni "invalidi" semplificando i quesiti. Semplicemente, alcuni ragazzi avevano deciso che volevano fare meglio. Per dirla con Freire, ascoltare la propria vocazione storica e ontologica a essere di più. Questa è, in buona sostanza, "l'aristocrazia borghese" di Wemmick: la possibilità, la scelta di evolversi, di migliorare senza per questo sottrarre alcunché agli altri, l'unico argine che ci dà qualche speranza contro i Jaggers e i Calboni di questo mondo. Un ponte levatoio che si alza e si abbassa quando lo diciamo noi, in barba a tutti i soldi e tutto il potere dei veri plebei. Fino a quando il mondo non sarà una pacifica, consensuale confederazione di uomini e donne pienamente sovrani su se stessi.

lunedì 16 gennaio 2017

Concè, fa freddo dentro?

Cari i miei, dopo una lunga assenza sono tornato. Da ligure di adozione, la mia priorità è il mugugno: lamentarmi sistematicamente di tutto ciò che non va nella mia esistenza (ovvero pressoché tutto). E mugugnare è quello che farò.

Come spesso accade, mi trovo costretto a sfogare il mio disappunto di fronte allo fenomenologia dell'adolescente contemporaneo; un disappunto paragonabile a quello del signor Praline nel sentirsi dire che Bolton sarebbe il palindromo di Ipswich ("The palindrome of Bolton would be Notlob" osserva l'arguto avventore). Venerdì, e nuovamente stamattina, molti degli alunni della scuola presso la quale presto servizio si sono rifiutati di entrare in classe a cause delle temperature troppo basse registrate dal termometro all'interno del plesso. Dimentichi dell'assioma in base al quale l'alunno scalda il banco, essendo dunque da considerare fonte primaria di calore, essi si sono scagliati contro le gravi deficienze dell'impianto di riscaldamento, ritenendole ragione sufficiente per disertare le lezioni. E questo in un momento in cui si tirano le somme del primo quadrimestre, con le ultime interrogazioni e verifiche scritte ancora da effettuare.

Viene in mente la risposta di Concetta a Luca nella commedia dal vostro Bradipo spesso citata, a cui fa riferimento la foto: "Fa freddo! Il freddo non l'ho inventato io, l'ha inventato il Padreterno, perciò ti devi rassegnare! Fa freddo... fa freddo... fa freddo!" E Lucariello, che tutta la notte non ha potuto prendere calimma, stoicamente si alza, si lava e si veste in una casa gelata.

Tommmasino invece, 'o nennillo, non si alza se non gli portano la zuppa di latte, 'o zuppone, a letto. Questo giovanotto pigro, infantile, disonesto e ignorante è la vera icona della generazione a cui mi tocca insegnare. Una nidiata di eterni cuccioli viziati dalle madri nell'assenza o nell'incapacità di intervenire dei padri. Una adunata, sediziosa solo ed esclusivamente per i più futili dei motivi, di individui seriamente compromessi nello sviluppo psicoevolutivo  da un esercito di Concette, di nemiche della casa, nemiche dei figli, nemiche del proprio sangue.

La scuola è, effettivamente, una casa gelata. In tutti i sensi. Ma si capisce: "è il meso suo... lo deve fare". La stagione non è propizia. Educazione, sanità, servizi pubblici in genere sono voci in bilancio da tagliare quanto più è possibile. Il prezzo mi pare evidente: una generazione che, mentre le fanno il vuoto intorno, resta a letto ad aspettare la zuppa di latte.