giovedì 29 luglio 2010

La grande truffa dell'amore romantico


Allora, abbiamo detto che l'Occidente è moribondo, dedito all'auto-annullamento in una prolungata eutanasia a base di Calippo, bira e inanità. Tra i sintomi del male terminale che ci affligge citerei senz'altro la crisi del rapporto uomo-donna, che personalmente incarno come fulgido esempio di maschio adulto sentimentalmente disfunzionale. Cupido è raggomitolato in un angolo, sanguinante e tumefatto, e cerca invano di proteggersi dalle selvagge percosse somministrategli da stuoli di stolidi individui che, in un modo o nell'altro, non sanno amare. Sì, perché amare è un'arte, come fa notare l'amico Fromm, il di cui libro è riprodotto nell'immagine apposta al principio del post. Potrei rimandarvi al suddetto volume, dal momento che il mio pensiero sull'argomento coincide in tutto e per tutto con quello del celebre esegeta di Freud, ma essendo cosciente del valore che hanno assunto nelle nostre vite di indolenti e indigenti perdigiorno la concisione e la freewaritudine, vi regalerò qualche riga di ordinario delirio.

Per capire perché sarebbe una truffa l'amore romantico, dobbiamo prima definire con un ragionevole grado di precisione il significato dei singoli lessemi che compongono la proposizione. Su "truffa" non credo di dovermi dilungare, dal momento che il mio blog è scritto in italiano e rivolto a lettori italiani. Ma cosa vuol dire davvero "romantico"? E cos'è l'amore, al di là delle melense massime reperibili negli incarti di una nota marca di cioccolatini, che non citerò per evitare di fare pubblicità a un'azienda dalla quale non ho ricevuto un centesimo?

Cominciamo dall'aggettivo "romantico". Etimologicamente, è riconducibile al francese medievale romanz, che stava a indicare un qualsiasi tipo di narrazione fittizia in lingua volgare (laddove "volgare" non vuol dire scurrile, ma semplicemente del popolo, in contrasto con il latino, lingua dei dotti). Il termine era applicato in particolare alla letteratura cavalleresca, spesso infarcita di particolari fantastici. Il Romanticismo fu animato proprio dal proposito di recuperare lo spirito di quella tradizione, vitale e pregna di significati reconditi e misteriosi (l'esistenza del subconscio era ancora insospettata). Una civiltà orfana di dio e dell'ordine indiscusso dell'ancien regime sentiva il bisogno di uscire dagli angusti confini del mondo che aveva ereditato. Sentiva il bisogno di trascendere, di andare oltre. Dunque "romantico" non c'entra assolutamente niente con le cene a lume di candela o altre banali tecniche di corteggiamento, che hanno come fine il mero accoppiamento, ma fa riferimento a quella ampia e complessa gamma di emozioni suscitate dal ritrovarsi soli nell'universo, limitati nel tempo, eppure arsi da un desiderio irrazionale quanto insopprimibile di entrare in comunione con il senso più profondo dell'esistenza. Quest'ultimo, essendo questione di percezioni interamente soggettive, può essere ricercato ovunque: nel misticismo, nell'adorazione della natura, nella contemplazione del bello espresso dall'arte, o nella ribellione alla tirannia. O, ancora, in una donna.

Passiamo ora alla parola "amore", una delle più travisate della lingua italiana. Naturalmente lo stesso avviene ai lessemi equivalenti in molte altre lingue europee. Noi, come i francesi, gli inglesi o gli spagnoli, ricorriamo continuamente alla parola "amore" (o "amour", "love" e "amor") per fare riferimento alla sfera sessuale. Pensate a un'espressione come "fare l'amore", e riflettete su come l'amore non sia affatto un elemento essenziale del rapporto fra due "amanti". Questo forse a causa del dualismo originato dal Cristianesimo, che ci ha scissi in carne e "spirito", con la prima ricettacolo di ogni male e il secondo veicolo della salvazione. E così Eros si è rifugiato nella dimensione incorporea, intangibile dell'anima e delle sue facoltà, mentre al corpo sono rimaste funzioni più basse e vili, come la diuresi, la defecazione e il coito. Da non confondersi, quest'ultimo, con il "fare l'amore", che implica la legittimazione della monogamia. Il Signore, che tutto scruta dall'alto dei cieli, gioisce nel vedere un uomo e una donna (attenzione eh!), previamente uniti nel sacro vincolo del matrimonio, donarsi l'uno all'altra; naturalmente, nella posizione espressamente raccomandata dalla Santa Madre Chiesa, opportunamente denominata la "missionaria". Certo, sempre si tratta di un pene che stantuffa una vulva, ma se questo viene fatto secondo la volontà di Geova (cosa pensereste di me se vi dicessi come dovete scopare???) va bene, e lo spirito rimane puro. Quanta confusione...

Ora finalmente possiamo provare a definire l'amore romantico. Dicesi amore romantico l'inopinata illusione che un partner sessuale, scelto pertanto in base a dinamiche di attrazione fisica e alle leggi della vile carne, possa essere il compagno o la compagna che darà un senso alla nostra vita, che ci schiuderà nuovi orizzonti, che ci salverà dalla nostra mortalità e sostanziale assenza di scopo ultimo.

Ah, Bradipo, ci hai rotto i coglioni con questo cinismo! Ma allora che dovremmo fare? E qui entra in gioco l'amico Erich. L'amore, secondo Fromm, è una attività, non qualcosa che ci capita. Consiste nel godere della compagnia degli altri (non solo del partner dunque), nel condividere con loro le nostre esperienze, nel sostenerli nei momenti di difficoltà perché la loro presenza ci dona gioia. In quest'ultima frase, come avrete notato, ho rasentato la grottesca edulcorazione del linguaggio clericale... Beh, perché in fondo anche l'umanista ha una "fede": quella nell'Uomo (o Donna, se preferite). Sì, siamo qui per caso e siamo destinati a sparire senza lasciare tracce durature della nostra presenza. Ma ora siamo qui, animali sofisticatissimi, tutto sommato piuttosto evoluti, e dotati non solo della capacità di sentire, ma anche di quella di ragionare. Se resistiamo alla tentazione - tutta terrena - di ricorrere a soluzioni prêt-à-porter che ci risparmino la fatica di usare il cervello, possiamo fare autonomamente le nostre scelte morali, e cercare, per quanto ci è possibile, di dirigere il corso della nostra vita. La scelta del partner, l'impostazione del rapporto, la gestione delle crisi, il rifiuto della scappatoia offerta dall'infedeltà: tutto questo è amore. Dio non c'è, non abbiamo un padre che ci possa imporre leggi infallibili; non possiamo consentirci l'abbandono infantile che oggi tanti uomini e donne chiamano amore. L'amore è una fatica, un lavoro. Se vogliamo godere dei suoi frutti, dobbiamo dissodare, arare, seminare, irrigare il podere dell'amore (sembra il titolo di un brano di Elio e le Storie Tese, vero?).
Passare da una "storia" all'altra, come Tarzan sulle liane, non è altro che consumismo umano, un replicare acriticamente nei rapporti fra persone gli stessi comportamenti e atteggiamenti che abbiamo nei confronti delle merci.
Desistere di fronte alla noia, alle rughe che si moltiplicano su un viso che prima ci sembrava così bello, alla paura di ipotecare il futuro, vuol dire non sapere amare. Questo dice Cooper... pardon, Fromm. E questo è quello che è capitato a noi.

lunedì 26 luglio 2010

Il calippo, la birra e la morte dell'Occidente


Il video delle due romanacce sulla spiaggia di Ostia sta diventando un vero e proprio tormentone. Le due giovani donne, probabilmente senza averne avuto nè l'intenzione nè la consapevolezza, si avviano a diventare personaggi mediatici. Beh, certo. In un paese dove tutto va bene, dove la disoccupazione non esiste, dove il lavoro e la casa non sono un problema per nessuno, dove la classe politica è amata dal popolo, al servizio del quale si dedica con zelo e passione; in un paese dove tutto va come deve andare, i media dovranno pur parlare di qualcosa, no?
Ma in fondo cosa interessa alla gente delle intercettazioni, della legge bavaglio, della marea nera nel Golfo del Messico, del fatto che le due Coree sono a un passo da una guerra che potrebbe vedere l'impiego di armi nucleari? Scusate, siamo onesti: cosa c'è veramente alla base delle nostre vite, se non i consumi? Le due coatte potranno avere un modo di esprimersi un pò più semplice e povero di molti di noi, ma ci rappresentano tutti. Sono un vuoto assoluto da riempire. Con la birra e il calippo, nel caso specifico.

C'è stato un tempo in cui questo nostro vecchio continente era il faro del mondo, producendo la cultura più raffinata e collocandosi all'avanguardia nelle scienze e nel progresso tecnologico. La sua superiorità era talmente schiacciante da spingere molti dei suoi abitanti a credere di avere il dovere di portare la civiltà anche ai meno fortunati, giustificando così la barbarie del colonialismo. Il fardello dell'uomo bianco, come ebbe a definirlo Rudyard Kipling, in arte Kipli. Gradualmente, abbiamo perso quel primato indiscusso, man mano che i frutti del progresso tecnologico e industriale si diffondevano in tutto il globo. Con l'affermarsi della società dei consumi, si è creata una controtendenza: loro, figli della cultura della frugalità, progredivano, si evolvano, si industriavano per migliorare; noi, per contro, tornavamo indietro, ci arrendevamo a un edonismo ottuso più o meno imposto dalla pubblicità, ci disabituavamo all'uso del cervello, e di ogni sua facoltà. Il risultato è che oggi il mondo occidentale ha perso il suo primato culturale e intellettuale, e nemmeno se ne rende conto. Qualche esempio? Hollywood, un tempo fabbrica dei sogni, non riesce più a sfornare una pellicola che non abbia come protagonista un giocattolo, un maialino parlante o il personaggio di un videogioco. L'informatica, già dominata dagli americani con la loro Sylicon Valley, è oggi uno dei settori trainanti della crescita indiana. Politicamente le cose non stanno diversamente: con gli Stati Uniti e l'Europa devastati dal pensiero unico e da politiche di macelleria sociale, oggi le speranze più consistenti di un reale progresso nell'arte della convivenza ci arrivano dall'America Latina di Chavez e Morales.

E allora che fare? Niente, non c'è più niente da fare. Pasolini ce l'aveva detto che dovevamo stare attenti alla televisione; ma gli esseri umani, come molti altri animali, trovano conforto nel branco. Ci siamo stretti attorno ai nostri totem, i nostri rituali, le nostre superstizioni. E non solo in Italia, naturalmente. Perchè la nostra cultura contemporanea non è altro che una variante di quella americana, di quella britannica, di quella spagnola e di tutte le altre culture contemporanee occidentali, dalle quali si distingue ancora in parte solo in virtù dei rispettivi retaggi storici. Tutto ciò che siamo in grado di produrre oggi è omologazione, attraverso la non-cultura subdolamente imposta dei consumi. Le nostre amiche parleranno anche in romanesco, ma non mangiano la pajata. Mangiano il calippo, e bevono la bira. Sì, ci manca una "r", ma per la casa produttrice della bevanda in questione fa lo stesso. Le nostre amiche vanno al mare, e se noi siamo in ufficio a sgobbare e sudare, guardare il loro video ci regala un momento di sollievo. E appena prenderemo le ferie correremo anche noi al lido di nostra scelta, e ordineremo subito un calippo per rinfrescarci, e 'a bira (oops, questo romanesco è contagioso) perchè uno ar mare se deve divertì. E ci disinteresseremo di eventuali guerre atomiche e di tutte le leggi porcata che il nostro governo - che tanto bene ci rappresenta - riuscirà a far passare senza troppo clamore.

Quindi divertitevi finchè potete, perchè è più tardi di quanto pensiate. Abbiamo i secoli contati, prima che un cataclisma globale, una crisi energetica o un'invasione di cinesi infuriati ci spazzino via. In fondo è quello che è successo ai nostri illustri antenati, gli antichi romani, no? Chissà se anche loro bevevano 'a bira. Chissà se avevano intuito che i Goti, i Vandali e gli Unni avrebbero devastato il loro impero decadente e corrotto. Magari lo sospettavano, ma facevano finta di niente. Proprio come noi. E chissà cosa penseranno i posteri di noi, una civiltà così ossessionata dal presente da non essersi accorta che il futuro le precipitava addosso.

venerdì 23 luglio 2010

Questo maledetto sole africano!




I resti della famiglia Brambilla di Segrate (MI) dopo una prolungata esposizione al solleone

Dopo l'insopportabile giaculatoria contro le forze oscure di questo paese, che si servono del garantismo per sfuggire al giusto castigo della ghigliottina giacobina, torno a trattare temi più leggeri. Sempre però di una invettiva si tratta, dal momento che io conosco solo due modalità espressive: quando sono ubriaco canto o racconto barzellette, quando sono sobrio inveisco.
E allora inveiamo, signori. In questa specifica circostanza contro il nostro pessimo rapporto con il sole, prezioso alleato finchè lo si tratta con rispetto, pericoloso nemico quando ci si dimentica di cosa è capace. Oggi, nel pieno dell'estate, con lo strato di ozono ridotto alle dimensioni e allo spessore di un perizoma da da oltre due secoli di industrialismo scriteriato, il sole ci si presenta come un guappo d'altri tempi: se ti permetti di affrontarlo a viso aperto lui te ne fa pentire.

Un guappo d'altri tempi

Io ho la fortuna di essere un fototipo molto chiaro. I primi giorni al mare, con la mia pelle lattea, la mia pancia di birra e il mio cappellino Jameson sembro proprio un inglese in vacanza. Mi è effettivamente capitato che un vero britannico mi abbia scambiato una volta per un suo compatriota, rivolgendomi un cordiale e informale saluto in un accento che non riuscii a stabilire con certezza se fosse del Lancashire o dello Yorkshire. Grazie a questo mio colorito da nordeuropeo mi accorgo subito di scottature ed eritemi, e corro prontamente ai debiti ripari (ombrellone e doccia fredda d'acqua dolce). I fototipi più scuri si prendono sovente gioco di me, delle mie membra flaccide e pallide, ma io so che ride bene chi ride ultimo. Anche nella malaugurata ipotesi che queste simpatiche personcine non finiscano al reparto grandi ustionati di qualche ospedale balneare in cui i dottori sono tutti in vacanza e ti tocca farti visitare da un infermiere tabagista che sta lì solo perchè raccomandato da un assessore locale dell'UDC, e svolge il proprio lavoro con la stessa lena di un prigioniero di guerra con gravi sintomi di denutrizione; anche nel caso che evitino questa sorte, che meriterebbero, io so che alla fine loro saranno più brutti, ma molto più brutti di me. Perchè non hanno senso della misura. Perchè si esporranno al guappo sole fino a quando la loro pelle non sarà del colore del cuoio conciato, e altrettanto secca e ruvida.

L'essere umano non è fatto per rimanere a lungo sotto il sole estivo, almeno non a queste latitudini. I saggi delle epoche passate, una volta arrivati a questa incontestabile conclusione, si sono prodigati per offrire all'umanità protezioni di varia natura rispetto all'eccessiva intensità dei raggi solari. I popoli del deserto vestono in un modo apparentemente poco indicato a un clima così caldo. Ma i saggi hanno capito che è meglio avere caldo, piuttosto che trasformarsi in un mucchietto di carbonella, come la sfortunata famiglia lombarda ritratta nella foto soprastante. Le case del bello ma brullo Salento sono dipinte di bianco, per riflettere i raggi solari ed evitare che questi possano tramutare le dimore stesse in altiforni. I contadini di mezzo mondo portano da tempo immemore cappelli a tesa larga per difendersi dall'aggressione dei raggi solari. Negli Stati Uniti, per ragioni ignote agli antropologi, hanno preso a indossare cappellini da baseball, ritrovandosi in pochissimi minuti con il collo arrossato, e guadagnandosi quindi l'epiteto infamante di rednecks. Il mondo moderno rifiuta la saggezza degli antichi, e ne paga il prezzo sotto forma di Foille da applicare sulle piaghe vagamente purulente che si procura.

Una donna che non ha mai dovuto adoperare il Foille


Ora, dico io, guardate un quadro qualsiasi del Rinascimento. La Gioconda, o la Dama con Ermellino. Erano forse abbronzate? No, tutt'altro. Erano pallide. Ora, escludendo per ovvie ragioni cronologiche l'ipotesi che fossero cadute vittime della oramai insopportabile isteria vampirofila, dobbiamo concludere che quello era l'ideale di bellezza femminile del tempo. Ma perchè quello che era considerato bello allora è considerato antiestetico oggi? Questo è un problema che abbiamo già affrontato parlando della triste piaga sociale del fitness, ricordate? No? E allora andate subito a leggere il post! Vi voglio attenti e preparati, perchè da domani interrogo! Ma ora rispondiamo alla domanda. Nel Rinascimento una donna di nobili natali non poteva essere abbronzata, perchè questo avrebbe implicato qualcosa di estremamente sconveniente: che quella donna passava molto tempo all'aperto. Il luogo della castellana era il castello, non certo il contado circostante, popolato da zotici e bestie di ogni guisa. Diverso era il caso degli uomini, dediti alla guerra e alla caccia. Se però si trattava di monaci, potete star certi che solo la questua o la vendemmia li avrebbero convinti a uscire dal loro monastero in una calda giornata di sole. Perchè è evidente che, in tali condizioni climatiche, è preferibile restare al fresco e all'ombra.

Certo, mi direte, l'aria di mare fa bene. E come potrei darvi torto proprio io, sinusitico cronico, che ogni anno aspetto quelle due settimane in riva a un pur inquinato e sovraffollato Tirreno per liberare le vie respiratorie e bandire da me il demone oscuro che mi possiede durante tutta la stagione invernale, e che risponde al nome inquietante di Muchifero? Anch'io mi stendo al sole (stando però attento a evitarlo nelle ore più calde), ma sto ben attento a proteggermi, se non con creme e filtri, con frequenti tuffi rinfrescanti in quei pochi centimetri cubici di acqua marina non occupata da bagnanti turpi e malcreati. Questo è un altro aspetto che detesto delle spiagge nostrane, sul quale tornerò nei prossimi capoversi. Dunque, mi stendo al sole, poi faccio un tuffo, poi vado al bar a prendermi qualcosa da bere o un gelato...insomma, prendo il sole ma con moderazione. Il colorito che assumo è dapprima rossastro, poi una specie di ramato, che non riesco a descrivere come si deve perchè in quanto uomo sono cromaticamente impedito.

Una giovane donna posseduta dal terribile demone Muchifero

Poniamoci adesso la doverosa domanda: ma perchè il volgo zotico e ciarliero è così ossessionato dall'idea di abbronzarsi? Perchè si espone a raggi ultravioletti, con tutti i rischi per la salute che ormai sono stati scientificamente provati, durante i mesi invernali? Perchè, appena il primo sole estivo fa capolino si precipita alla più vicina spiaggia con l'intenzione di ingaggiare duelli di resistenza con la stella intorno alla quale gravita il nostro verde e ameno pianeta? Personalmente, non riesco a darmi una spiegazione. Però devo dire che noto sempre, sulle spiagge nazionalpopolari e berlusconiane (peggio, cosentiniane!) di Gaeta, le signorine dal colorito più chiaro, che magari se ne stanno stese all'ombra, con un cappello di paglia a protezione dell'organo più importante di cui ci ha dotati Madre Natura. Sarà reciproca la cosa? Spero vivamente di no. Non riuscirei a stimare una donna che considera l'eventualità di accoppiarsi con me. Mi limito ad osservarle, e a chiedermi come le ritrarrebbero un Raffaello o un Leonardo. Rapito da tali pensieri, mi dimentico del guappo che mi sta dando in testa. E così l'amico farmacista, che già lucra sul nervoso, venderà ancora un'altra confezione di Foille.

domenica 18 luglio 2010

Garantisti e giacobini, ovvero: la legge è questione di opinioni



Robespierre e Di Pietro, due acerrimi nemici del garantismo. Sotto: un allegro raduno di giustizialisti.


L'Italia è un paese strano. Ma strano davvero. Ovunque nel mondo esistono e vengono applicate tecniche di comunicazione politica volte a focalizzare l'attenzione degli elettori su alcuni argomenti piuttosto che altri, e cercare di far passare in sordina notizie che non si vogliono al centro del dibattito pubblico. In Gran Bretagna, ad esempio, lo straordinario successo di Tony Blair è stato costruito per buona parte grazie al contributo di eccellenti spin doctors come Alastair Campbell e Peter Mandelson. Bill Clinton aveva usufruito dei servizi di un think tank altrettanto formidabile. Eppure, fuori dai nostri confini nessuno si sogna di provare a negare l'evidenza e sovvertire la percezione comune di eventi che hanno ben poco di ambiguo o equivoco. Qui da noi è da un decennio e mezzo che si ripete sistematicamente tale operazione. Il cav. Silvio Berlusconi ha fatto irruzione sulla nostra scena politica e l'ha trasformata in uno spettacolo di illusionismo da fiera di paese. Lui, il Magnifico Silvio, è in grado di farci vedere minacce comuniste assolutamente inesistenti, o trasformare mafiosi in eroi. Ma stavolta il mago di Arcore si è superato: ci ha riportati dritti dritti nella Francia del 1789.

Si è creato un intollerabile clima giacobino, le toghe rosse vogliono sovvertire la volontà popolare, la democrazia è in pericolo. Guardiamo il volto rude e schietto di Tonino Di Pietro e improvvisamente, sim salabim, vediamo un parruccone incipriato che in francese, senza la minima inflessione molisana, tesse l'elogio della ghigliottina come soluzione di ogni male. Come non inorridire? Ci sono gaglioffi della peggiore specie, ricolmi d'odio e risentimento sociale, che vogliono intercettare le nostre conversazioni telefoniche, cercando il più insignificante pretesto per far scendere sul nostro capo la mannaia della rivoluzione bolscevica (sì, in nome dell'Amore e della Libertà un piccolo salto cronologico è perfettamente legittimo); come non essere annichiliti dal terrore? D'altra parte, si sa, gli italiani li schiodi dal loro atavico immobilismo solo con le minacce. Con la paura del pericolo rosso ci hanno fatto accettare vent'anni di dittatura e una guerra per la quale eravamo attrezzati come la Juventus per vincere lo scudetto. Dunque, non possiamo che invocare il garantismo, parola-amuleto che i nostri politici, faccendieri e lestofanti di varia estrazione invocano ognora come un ecumenico 31 salvatutti.

Ma cosa vuol dire garantismo? Proviamo a chiedercelo. Anzi, facciamo così: proviamo a immaginare come spiegheremmo a uno straniero cos'è il garantismo. Io, che annovero tra i miei interessi il far finta di essere il figlio illegittimo di Gary Lineker, ho fatto questo simpatico esercizio di ipotetica esegesi politico-filosofica. Di fronte a me c'è John Smith, un suddito qualsiasi di Elisabetta II, che si trova in Italia per lavoro e ha bisogno di imparare la nostra lingua; pertanto ha cominciato a leggere i nostri quotidiani, e si è imbattuto in un termine oscuro, che per quanti sforzi facesse non è riuscito a comprendere. Garantismo, appunto. Ora mi chiede di illuminarlo, e io mi trovo subito di fronte alla prima difficoltà: non esiste un termine analogo in inglese. O, se esiste, lo conoscono solo lo staff dell'OED e del Merriam-Webster. Dovrò dunque, con il mio inglese parzialmente fluente come la chioma di un metallaro di mezza età, provare a dare a John Smith un'idea di questo italianissimo fenomeno.

Partirei probabilmente dagli albori della Repubblica Italiana, ricordandogli come questa sia nata sulle macerie di una dittatura, e come dunque fosse una priorità assoluta per i nostri Padri Costituenti evitare il ripetersi di persecuzioni politiche, vigliacche rappresaglie, delazioni e varie altre amenità che avevano contraddistinto la "allegra" gestione dell'ordine pubblico e della giustizia durante il ventennio. Noterei quindi come la nostra Costituzione esprima quelle più che legittime preoccupazioni, e come tutto il nostro sistema giuridico e giudiziario sia quindi molto attento al rispetto dei diritti dell'imputato e delle procedure processuali. A questo punto introdurrei il concetto di "garanzia", così come viene inteso in questo contesto, arrivando alla conclusione che il garantismo è quell'orientamento culturale fondato sulla convinzione che la giustizia debba essere esercitata sempre in modo equo, misurato, senza sacri furori e senza eccessi di emotività. Sarebbe ormai relativamente semplice insegnargli il significato dell'antonimo di garantismo, ovvero "giustizialismo". Ma John Smith sarebbe soddisfatto di questa spiegazione?

Mi permetto di ipotizzare una risposta negativa al quesito testè posto da me medesimo. Osserverebbe, quasi certamente, che si tratta di affermazioni una più scontata di un'altra. Che le leggi ben scritte sono chiare, senza ambivalenze o ambiguità, e senza grossi margini di interpretazione. Che il magistrato si limita ad applicarle, così come le forze dell'ordine si limitano (o dovrebbero limitarsi) a mettere gli individui sospettati di reati a disposizione del potere giudiziario. Sosterrebbe che le pene devono essere commisurate ai reati e, qualora appaiano troppo severe, sta al potere legislativo modificarle .
Se poi John Smith avesse anche una certa conoscenza della nostra storia e della nostra cultura, potrebbe anche spingersi oltre. Potrebbe ipotizzare che il garantismo è una categoria italiana, non traducibile e non esportabile con facilità, perchè nasce da una concomitanza di circostanze molto peculiare, forse unica nell'Europa occidentale, che ha prodotto un risultato nefasto: l'Italia è forse l'unico paese di questa zona del mondo a non essere mai diventato una nazione (sulla Spagna mi astengo dal formulare un giudizio per "insufficienza di prove"). Noi abbiamo paura del concetto stesso di nazione. Ci sa di fascista, di autoritario, di reazione. Eppure si tratta di un concetto indispensabile per dare a un popolo il senso di comunanza necessario a evitare la disgregazione e il "si salvi chi può" a cui alludevo nel post precedente. Se non impariamo a riconoscerci nella parola "Italia", nella sua Costituzione, nelle sue istituzioni e le sue leggi (per quanto possiamo dissentire dal loro contenuto), saremo sempre presi d'assedio da bifolchi secessionisti e furbacchioni mafiosi, e non diventeremo mai il paese prospero e civile che dovremmo essere per vocazione storica.

Sono assolutamente certo che alcuni di voi in questo momento sono perplessi o confusi nel leggermi, e forse si stanno convincendo che le mie facoltà mentali siano state definitivamente compromesse dall'alcol. Ma che cazzo dici, Bradipo? Non ti seguiamo più...Mischi concetti di destra e di sinistra...ma come la pensi allora???
Purtroppo, carissimi amici e amiche, il povero Bradipo ha vissuto esperienze di radicale sradicamento che ne hanno sconvolto il patrimonio ideologico, rendendolo un ripugnante e ambiguo crocevia di nozioni e credenze. Come quando, guardando una partita del 6 Nazioni di rugby che l'Italia giocava a Murrayfield, Edimburgo, ho visto 80.000 uomini, donne e bambini alzarsi per cantare insieme Flower of Scotland, inno non ufficiale della Scozia (nazione peraltro senza stato), dalla prima all'ultima nota, senza sbagliare le parole e senza andare penosamente fuori tempo come capita sempre a noi. Perdonatemi, ma cose del genere mi fanno riflettere. E mi fanno arrivare alla conclusione che noi, quelli che dovrebbero essere scaltri, disincantati e svelti di comprendonio, invece non abbiamo capito una fava della cosa più importante per un popolo: il senso di appartenenza.

Spesso noi non ci sentiamo italiani quanto napoletani, milanesi, romani, oppure comunisti, fascisti, anarchici e così via. Tra l'individuo e la nazione in Italia ci sono la famiglia, il campanile, l'appartenenza politica, la confessione religiosa e perfino, cazzo, la squadra del cuore. Per noi metterci d'accordo non vuol dire trovare una soluzione di compromesso che sembri giusta e valida al maggior numero possibile di persone; vuol dire fare la somma algebrica delle assurde e ingiustificate pretese di questa, quella e quell'altra fazione o tribù, e in culo all'interesse comune. Altrimenti, cari amici, non riesco a spiegarmi come sia possibile il perdurare sul nostro territorio di vergognose situazioni di collusione fra politici "democraticamente eletti" e organizzazioni criminali. La verità è che, al momento di spartirsi il potere, la mafia è una forza in campo come le altre; cosa importa che la sua stessa esistenza sia incompatibile con il concetto del monopolio della forza da parte dello stato, fondamento di qualsiasi sistema giuridico moderno? E che c'è di strano se nei quartieri popolari di Napoli, Palermo o Bari la gente vede con favore i traffici dei boss locali, e cerca di impedire con ogni mezzo le retate delle forze dell'ordine? Quella è la loro classe dirigente. Gomorra non è una città, è una nazione intera. Dovrebbe avere una bandiera. Lo stato è un intruso, e basta.

Non è a caso che cito la criminalità organizzata. I mafiosi e i loro fiancheggiatori in Italia sono fra i principali sostenitori del garantismo, per ovvi motivi. E hanno gioco facile, grazie alla nostra predisposizione al sospetto verso concetti che per un tedesco o un britannico sono scontati. I rigori del 41 bis possono sembrare eccessivi a chi, per formazione ideologica, vede la pena come una sorta di cammino spirituale verso il pentimento e la salvazione (come siamo cattolici in questo!); personalmente, in base al già citato principio della commisurazione del castigo al crimine, credo che un regime carcerario particolarmente rigido sia una punizione del tutto adeguata a una persona che ha dichiarato guerra all'intero consorzio civile e alle sue regole elementari di rispetto reciproco. Non mi piace, inoltre, l'espressione "pentito". Preferisco di gran lunga "collaboratore di giustizia". Per me un mafioso resta un mafioso, e tutte le agevolazioni che riceve in cambio delle informazioni fornite sono da considerarsi frutto di una scelta strategica, non di un'indulgenza papale.

E veniamo alla politica. Esistono tre tipi di voto in Italia: quello di appartenenza ideologica, quello di opinione e quello dettato dall'interesse personale, clientelare o meno che sia. Il primo e il terzo decidono senza dubbio i risultati di qualsiasi confronto elettorale. C'è da noi un rapporto fra elettori ed eletti completamente rovesciato rispetto alla norma del mondo occidentale: dal momento che noi "apparteniamo", per ragioni culturali o di portafoglio, a questa o quella forza politica, loro non sono tenuti a dimostrarsi degni della fiducia ricevuta, tanto li voteremo comunque. Non sono loro a mettersi al nostro servizio, ma noi ad essere perennemente al servizio del potere. Duecento anni fa ci dividevamo in chi tifava per Napoleone e chi tifava per le monarchie conservatrici, fermo restando ovviamente che chiunque ci avesse governati l'avrebbe fatto senza interessarsi minimamente all'interesse comune; oggi non è cambiato molto. Alle ultime elezioni regionali in Campania si sono fronteggiati due personaggi come al solito vecchi e compromessi (lo so che Caldoro è anagraficamente giovane per gli standard italiani, ma io mi riferisco alla mentalità e all'impostazione politica). All'indomani della vittoria del centro-destra, Facebook è stato inondato di moniti millenaristi che volevano la Campania irrimediabilmente avviata verso un baratro senza fine. Ma queste persone sono andate in letargo durante il lungo e controverso regno di Bassolino? Hanno dimenticato l'intervista di Report, quando l'allora governatore sbottò contro il giornalista per aver osato fargli una domanda non concordata? Come se fosse una naturale prerogativa dei potenti quella di decidere quali domande possono essere loro poste, e quali no? Detto molto semplicemente, quello che l'incidente dimostra è che i nostri politici non si sentono responsabili nei nostri confronti del loro operato, ma solo depositari di un potere che non va sottoposto ad alcun tipo di controllo.

Nemmeno quello della magistratura, perchè per fare la politica in Italia bisogna sporcarsi le mani. Siamo irragionevoli se pretendiamo il rispetto della legge da parte di chi più di ogni altro dovrebbe rispettarla, perchè occupa incarichi istituzionali. Se il ghibellino ruba, tu fai finta di guardare da un'altra parte. Altrimenti che facciamo, lasciamo vincere i Guelfi? Continuiamo pure a lamentarci di Berlusconi, della P2 e della P3, di Cosentino e dei suoi dossier, di Puttanopoli e di Bertolaso. Tanto al governo ci sono loro, a livello nazionale come a quello locale. E le mani sporche sono quelle che maneggiano i soldi. Ma attenzione alle intercettazioni, perchè un giorno potrebbero colpire chiunque di noi. O magari (più probabilmente) un ghibellino che si spartisce la torta con i vecchi amici. Facciamole pure, ma con prudenza. Diritto di stampa sì, ma con moderazione. Legalità, certo, ma senza lasciarci prendere la mano.

venerdì 16 luglio 2010

Quando la barbarie sorpassa la civiltà - a destra.


Nell'ultimo post paventavo la possibilità di scrivere del traffico nella mia città. Lo ritengo uno di quegli aspetti della vita contemporanea che un giorno sembrerà incredibilmente primitivo e irrazionale a chi, guardandosi indietro, parlerà del nostro presente come di un passato fitto di superstizioni e nevrosi collettive. Lo stesso sguardo che noi rivolgiamo al Medioevo cristiano, con il suo culto della morte, il suo esagerato terrore della stregoneria e il suo estremo sadismo (accompagnato a un chiaro elemento narcisistico) nel punire le eresie, loro lo rivolgeranno a noi, idolatri del motore a scoppio, che inorridiamo all'idea di andare a piedi o prendere un autobus, e impiccheremmo coloro che guidano in stato d'ebbrezza (ma non quelli che travolgono pedoni da sobri).

Bradipo, ora ce l'hai anche con il motore a scoppio? Alla faccia del bicarbonato di sodio. Certo che ce l'ho con il motore a scoppio. In particolare, ce l'ho con il trasporto privato, una modalità di spostamento urbano che in tutti i paesi europei più civili di noi tende a recedere a favore del trasporto pubblico, ma qui resiste per motivi legati certo alle nostre politiche economiche (il settore auto è uno dei principali comparti industriali in Italia), ma anche alla nostra concezione del vivere "civile".

Odo già la stridula voce della denuncia: "Ma tu possiedi uno scooter, lo sappiamo bene! Ci hai ammorbato l'anima con la storia dell'RCA!" Sì, è vero, non posso negarlo. Questa mia scelta è dovuta al fatto di non disporre, su buona parte del territorio urbano, di un servizio notturno decente, e in parte anche alla lentezza dei mezzi di superficie, specialmente su alcune tratte; lentezza della quale non è del tutto responsabile l'ANM (Azienda Napoletana della Mobilità, per i forestieri), visto che le nostre strade sono perennemente intasate, per usare le parole dell'eccelso Gianfranco Marziano, da "troppa, troppa, troppa, troppa gente che caca solo il cazzo e che non serve a niente". In una città con un tasso di disoccupazione reale che sarà intorno al 35%, vorrei sapere dove mai si dirige a ogni ora del giorno e della notte quella moltitudine di automobilisti che fanno praticamente da tappezzeria alle nostre strade, peggiorandone sempre di più le già precarie condizioni e generando un volume di inquinamento atmosferico e acustico degno di una versione dell'Inferno riveduta e corretta a quattro mani da Charles Manson e Donato Bilancia.

Siamo in piena estate, fa molto caldo, e diventa necessario tenere finestre e balconi costantemente spalancati. L'alternativa è il decesso per ipertermia. Non parliamo di folkloristiche popolane dalle forme rotondeggianti che, facendosi aria con dozzinali ventagli acquistati da qualche tossico alla Ferrovia, si lamentano in flebili eppure enfatiche emissioni di fiato dell'eccessiva temperatura; parliamo dello spreco inutile di giovani vite, di tragedie insensate facilmente evitabili con semplici contromisure. Insomma, finestre e balconi vanno aperti. Ma questo vuol dire abbattere ogni barriera fra noi, la classe media colta o semi-colta, per la quale essere nata e risiedere a Napoli è un fatto puramente accidentale, e le popolazioni indigene; queste si contraddistingono per le strutture sociali tribali, i rituali sanguinari, l'essenziale rifiuto della cultura occidentale contemporanea. Occupano lo stesso territorio che occupiamo noi, ma con minore discrezione. Fanno più monnezza, più rumore, causano più danni all'ambiente circostante. Non hanno niente a che vedere con le categorie di proletariato o classe lavoratrice, perchè per loro il lavoro o non esiste, o è di manovalanza criminale, o ancora è organizzato in modo tale da non consentire al lavoratore di aggregarsi ai suoi compagni e sentirsi legato a loro da una sorte comune. Qui la parola d'ordine è "si salvi chi può", e l'unica cultura possibile per chi ha la sfortuna di crescere nell'autoreferenzalità e nella chiusura totale del popolino napoletano è la sottocultura della furbizia, del fottere il prossimo, del "mettersi da sopra".

A queste persone dobbiamo poi aggiungere tutti quegli stimati professionisti, commercianti e piccoli faccendieri del quartierino che, pur essendo nati e cresciuti in ambienti borghesi, emulano le abitudini e gli atteggiamenti della peggiore plebaglia, con la quale hanno in comune la più assoluta mancanza di senso della collettività.
Insieme, queste due categorie sociali danno vita a un traffico "deregolato", in cui non vigono più le regole scritte, certe, e sancite da decisioni assembleari del codice della strada, ma quelle dettate dalla prassi e dalle consuetudini del villico al volante. Segue un breve elenco dei comportamenti aberranti assunti da cotali individui:

1) Fermarsi oltre il semaforo, non davanti ad esso, in modo da non essere in grado di accorgersi di quando scatta il verde. Questo, azzardo un'ipotesi, per trovarsi in una posizione di massimo vantaggio rispetto agli altri. Naturalmente, dato il perenne intasamento delle strade di cui sopra, questo trucco molto raramente produce un reale beneficio per chi lo adotta; in compenso costringe gli occupanti dei veicoli che si trovano dietro a questo deficiente a suonare il clacson per avvertirlo che può ripartire, e consentire così anche a loro di procedere verso le rispettive destinazioni. Sarò pignolo, ma suonare il clacson è vietato nei centri urbani, a meno di imminenti pericoli.

2) Sorpassare pochi metri prima di un incrocio. Ad operare questo tipo di manovra sono quasi esclusivamente uomini fra i 18 e i 45 anni, di centro-destra e fortemente critici nei confronti di Roberto Saviano, che ha fatto i soldi con Gomorra. Il meccanismo è simile a quello appena descritto del semaforo. Forse gli incroci sono un simbolo del sesso femminile per questi soggetti, o forse un metaforico traguardo da tagliare prima di te, per mettersi da sopra.

3) Parcheggiare l'auto in doppia fila quando si va al supermercato come se non ci fosse niente di sbagliato o strano. Questo è invece un comportamento di norma ascrivibile alle donne, e dettato a mio giudizio da un egotismo quasi soprannaturale, ma sostanzialmente in buona fede. "Io devo fare la spesa, mi serve la macchina, non c'è parcheggio; allora mi devo necessariamente fermare in doppia fila". Talvolta queste auto in sosta vietata ostruiscono il passaggio di autobus, ambulanze o camion dei pompieri, ma tanto non basta a spingere le nostre amiche massaie a trovare una diversa soluzione per i loro acquisti di tutti i giorni (andare in un supermercato che ha il parcheggio?).

4) Una volta localizzata un'ambulanza lanciata a tutta velocità e a sirene spiegate, precipitarsi nella scia della stessa per sfruttarne le indubbie qualità di apripista. In tali occasioni due sono le spiegazioni possibili: o il malato ha una famiglia molto numerosa, oppure c'è da qualche parte una signora di facili costumi che non si dà tregua nella propagazione del suo patrimonio genetico al di fuori del sacro vincolo del matrimonio.

5) In una strada a senso unico, procedere con il proprio SUV di dimensioni bibliche giusto al centro della stessa, avendo cura di impedire il sorpasso ai ciclomotori. Questo comportamento genera spesso l'indignazione dei centauri più ligi nel seguire l'esempio di Attila e Alarico, i quali aggrediscono le poche senghe di spazio disponibile con una dedizione e un'abilità che susciterebbero il plauso di qualsiasi speleologo; qualora l'occupante del SUV dovesse dimostrarsi poco cooperativo, gli agili incursori si trasformano come d'incanto in creature mitologiche per metà cane pitbull e per metà Mario Merola, abbaiando e minacciando l'automobilista che osa tenerli in scacco in un solo prodigioso torrente di fonemi. Vietato ai minori di 14 anni.

Non voglio allungare troppo il brodo, ma vi assicuro che potrei citare tanti altri usi e costumi della viabilità partenopea che nemmeno il dott. Livingstone si sarebbe mai sognato. In molti casi, siamo onesti, non si tratta di vizi esclusivamente napoletani. Dalle Alpi alla Sicilia, sono moltissimi gli italiani che fanno un certo ribrezzo alla guida. Come non citare, a questo punto, quel capolavoro del nostro cinema che è Il sorpasso di Dino Risi? Incidentalmente, qui ne trovate una deliziosa parodia. Gassman e Trintignant rappresentano due Italie contrapposte, la loro e la nostra. Quella dei caciaroni, burini, furbacchioni e irresponsabili, e quella, in buona sostanza, della gente per bene. E ricordate Alberto Sordi ne I Vitelloni? Il pernacchio rivolto ai lavoratori sul ciglio della strada dal perdigiorno a bordo dell'auto riassume perfettamente il modo di sentire dell'italiano medio. Non cercherò di chiosarlo con parole che potrebbero solo sminuirne la pregnanza. Quando però la macchina si ferma per un guasto, l'Albertone nazionale dimentica la spavalderia ostentata pochi secondi prima, e se la dà a gambe, abbandonando peraltro alla propria sorte un amico che era rimasto indietro.

Insomma, guidano così perchè sono così. E l'essere a bordo di un veicolo motorizzato enfatizza le loro peggiori qualità. Così come il nobile medievale traeva buona parte del suo potere e prestigio dal fatto di possedere un cavallo, che gli conferiva evidenti vantaggi in battaglia e una presenza che incuteva rispetto ai pezzenti che vessava sistematicamente, l'automobilista o il motociclista odierno (se appartiene alla corrente di "pensiero" esemplificata dagli esempi cinematografici) si serve del proprio mezzo di trasporto per conquistarsi più spazio, più tempo, più sicurezza di sè. Per lasciare indietro gli altri. Per metterseli sotto. Come i cani quando giocano a incularella.

Ma io faccio ricorso alla mia pazienza atavica di meridionale e abbozzo. Perchè so che l'importante non è arrivare primi, ma sapere dove si vuole andare, e attrezzarsi per raggiungere la propria meta. E poi i viaggi più belli sono quelli che si fanno insieme. Camminando gli uni di fianco agli altri, perchè si va tutti dalla stessa parte, e chi arriva prima non vince una beata fava. I viaggi più belli non sono corse, non si va di fretta, non c'è bisogno di spingere, c'è posto per tutti. La vera corsa, ed è una corsa lunga, talmente lunga che non finisce mai, è qualla che facciamo per superare quello che eravamo.

giovedì 15 luglio 2010

L'RCA e Napoli capitale

Devo subito scusarmi con voi, cari e fedeli lettori, per la brevità dell'accesso di frivolezza che mi ha colpito nei giorni passati. Dopo le facete considerazioni sulla necessità di nudità iberiche, devo tornare ad angosciarvi con pensieri tetri e foschi.

Come ogni estate, oggi ho rinnovato la polizza assicurativa sul mio ciclomotore, un obsolescente Kymco Grand Dink 250. Come ogni estate, mi sono trovato di fronte a un ingiustificato aumento del premio assicurativo, per me che guido come un vecchio, che sto DIETRO l'auto che mi precede, e non la affianco; per me che mi fermo quando vedo le strisce pedonali, che riconosco sempre la precedenza a chi viene da destra, che non suono mai il clacson a meno che non si configuri una situazione di immediato pericolo. Siamo arrivati alla parossistica somma di 807.00 euri, che per un sottoccupato occasionale come me sono una piccola fortuna.

Naturalmente, prima di rinnovare il mio rapporto con la stimata Allianz/Gruppo Adriatico, ai dirigenti della quale auguro ovviamente tutto il male possibile, ho cercato soluzioni più vantaggiose. Ci è voluto poco, però, per rendermi conto che il mercato delle polizze RCA in Italia è l'ennesima riproposizione del divario Nord/Sud, e un'ulteriore conferma dello stato di totale abbandono e vuoto morale che regna nella mia città, ovvero Napoli. Fin qui, solo ovvietà. Vorrei però dedicare qualche riga a un'ipotesi forse meno scontata, e cioè che la situazione tragica in cui versa il Mezzogiorno d'Italia, sebbene non nuova, sia in parte attribuibile a un fenomeno di respiro molto più ampio come l'evoluzione delle economie e delle legislazioni in senso neo-liberista.

Io sono cresciuto in un'Italia molto diversa da questa, probabilmente difficile da immaginare per gli adolescenti, o anche i ventenni, di oggi. L'Italia dell'equo canone, della scala mobile, delle grandi battaglie sindacali (quanta differenza con gli operai "pragmatici" di Pomigliano...); un'Italia in cui molti democristiani si collocavano più a sinistra dell'odierno PD, in cui nessuno si sognava di mettere in discussione il diritto alla casa, al lavoro, all'istruzione, alla sanità. Un'Italia in cui il Sud era in ritardo, vittima di politiche sbagliate (vedi Cassa del Mezzogiorno) e di una leadership alquanto discutibile, ma aveva almeno una nozione astratta di ordine, legalità e progresso sociale. Ricordo con tenerezza il periodo delle "targhe alterne", in cui si cercava di decongestionare l'infernale traffico partenopeo (a cui credo che dedicherò un post) stabilendo un giorno per la circolazione delle auto le cui targhe avevano l'ultimo numero pari, e un giorno per quelle che ce l'avevano dispari. Palliativi, ovviamente, di fronte a una popolazione il cui livello di abbrutimento è pre-illuministico, ma almeno si intradeveva l'intenzione di regolare la vita della collettività, tanto a livello locale che nazionale.

Poi c'è stato il ciclone Mani Pulite, che ha spazzato via una classe politica arrivata a livelli di corruzione inammissibili. Il mito alimentato da buona parte della destra è che un gruppo di magistrati bolscevichi abbia cominciato a perseguitare i potenti per invidia, per sete di potere, per voglia di protagonismo e quant'altro; la realtà storica è che, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, colto sul fatto nella riscossione di una tangente versatagli da un imprenditore che aveva chiesto l'intervento delle forze dell'ordine, un arresto ha tirato l'altro, in un'inchiesta che presto ha assunto le proporzioni di un cataclisma giudiziario. In Italia si procede d'ufficio contro molti reati, per cui il pool di Milano non aveva scelta: una volta venuti a conoscenza dei fatti criminosi, i giudici dovevano procedere all'apertura di un fascicolo e alle eventuali incriminazioni.Sull'uso massiccio che si fece della carcerazione preventiva si può discutere, ma certamente non se ne è mai discusso tanto come lo si fece allora; in altre parole, lo spacciatore (magari extracomunitario) può passare mesi in cella prima del processo, e nessuno fiaterà; sbatteteci un politico, in quella cella, e diventerà una notizia da prima pagina.

Giudizi a parte, il fatto è che Mani Pulite lasciò l'Italia con un vuoto di potere paragonabile solo a quello vissuto nei giorni di grande incertezza seguiti alla Liberazione. Per questo si parlò di "seconda repubblica". In questa Italia si fece strada, in un clima effettivamente da dopoguerra, l'uomo che più devastazione di ogni altro ha cagionato alla nostra bella penisola (battendo una concorrenza agguerrita che va da Brenno alla Wermacht): Silvio Berlusconi.
Come è stato possibile che un personaggio come lui, con il suo passato e la sua totale mancanza di rispetto per le regole più elementari del confronto politico sia arrivato a fondare un partito dal nulla e vincere le elezioni? E che, a sedici anni di distanza da quella prima vittoria, continui a governare? Questa è la domanda che si pongono molti italiani, e la totalità degli stranieri che seguono le nostre vicende.

Proviamo a rispondere. Se siete dei giovani maturi come me, ricorderete che qualche anno prima, nell'89, il muro di Berlino era venuto giù. Negli anni successivi, l'intero blocco orientale, quello del socialismo reale, era stato sconvolto da venti di guerra e/o riforma. In breve, l'economia di mercato aveva conquistato tutti i paesi un tempo aderenti al Patto di Varsavia, compresa l'Unione Sovietica, trasformata prima in Comunità degli Stati Indipendenti, e poi smembrata in vari stati e staterelli. Poco importava la scia di sangue e miseria lasciata da questa rivoluzione, noi la si doveva applaudire, perchè aveva vinto la "libertà". Ora, se voi condividete questa idea, vi invito caldamente a non continuare a leggere questo post, e a non leggere mai più il mio blog.
Quello che aveva vinto era il liberismo, ovvero la libertà da parte del forte di opprimere il debole attraverso rapporti economici fortemente asimmetrici; un tipo di relazione al quale si potrebbero forse applicare i meno lusinghieri termini di "oppressione" o "schiavismo". Un orientamento già affermatosi da oltre un decennio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e che si andava diffondendo a macchia d'olio nell'Occidente. Lo scandalo di Tangentopoli diede l'occasione di farlo passare anche da noi, in un paese con una grande tradizione socialista e comunista, un forte movimento sindacale, e un mondo cattolico che almeno in parte - bisogna ammetterlo - era attento ai temi della giustizia sociale e della dignità del lavoro. I nuovi politici, e quelli vecchi che erano scampati alla mannaia delle inchieste, cominciarono a ribadire ossessivamente idee a ben vedere assurde: che l'onestà di un politico era più importante della linea del suo partito; che bisognava votare la persona, non il partito; che le ideologie erano morte (ma cosa c'entra l'insuccesso di un regime con la validità intrinseca di una dottrina politica?), per cui quello che contava era il programma del candidato. Ma un partito politico deve necessariamente avere una linea, e il programma non lo stabiliscono i singoli candidati, perchè la politica è l'arte di far collimare molteplici interessi. Ovviamente si trattava di una marea di incommensurabili cazzate. Gli ex-comunisti avevano una certa premura di rifarsi una verginità morale (mai pensarono di continuare a difendere i principi, pur contestandone l'applicazione), la neonata Forza Italia aveva tutto l'interesse di questo mondo a non parlare di contenuti, e il resto della politica italiana era costituito essenzialmente da macerie. Vi stupisce che in questo clima sia emerso vittorioso un uomo che possedeva tre canali televisivi e una casa editrice?

La lenta e penosa rifondazione del sistema politico in Italia è segnata da quel peccato originale. Le ideologie sono morte. La competenza è la chiave di tutto. Anche in un politico conta solo la competenza, a parte naturalmente l'onestà. E allora le forze politiche si sfidano su quel terreno, dimenticando le vecchie contrapposizioni. Ricorda un po' l'affermazione berlusconiana che un paese è come un'azienda, vero? Ebbene, questa non è forse un'ideologia? L'ideologia che ci ha traghettati verso un'Italia in cui il divario fra ricchi e poveri è più ampio, in cui la scarsità del lavoro, e la precarietà di quello che si trova, sono ormai motivo di allarme sociale, e in cui la libertà di stampa (al contrario di quella d'impresa) viene sottoposta a limitazioni tali da suscitare perplessità perfino da parte della Casa Bianca (Obama, per quanto ne dica Berlusconi, di solito non pensa a noi quando va a coricarsi).

Questa è l'Italia di oggi, l'Italia di Gomorra, l'Italia di Cosentino e dei suoi amici casalesi, dei nuovi ricchi che vanno in giro in Mercedes e Bmw e non sanno parlare l'italiano, del figlio di papà sorridente di stolida indifferenza che lascia la macchina in seconda fila quando si ferma a prendere un caffè, perchè tanto i vigili non ci sono mai; l'Italia di un Sud inondato di fondi dell'UE che non vengono spesi, e quando vengono spesi passano sempre per le mani degli stessi direttori clamorosi, ereditieri, cardinali, e figli di tutti questi potenti; l'Italia in cui i laureati devono lavorare per la teppaglia in giacca e cravatta, e ritenersi anche fortunati di avere tale privilegio. Di questa Italia rasa al suolo da un decennio e mezzo di berlusconismo (italica variante di anglosassone aberrazione) Napoli dovrebbe essere capitale. Una città che sguazza giuliva nella propria merda, brulicante di servi della gleba che si ricordano di essere vessati solo quando arrivano le bollette delle utenze o c'è da rinnovare l'RCA, ma sono altrimenti felici di fronte ai loro televisori a schermo ultrapiatto, dai quali il feudatario e i suoi vassalli continuano a ripeterci che il libero mercato aggiusta sempre tutto. Senza precisare, ovviamente, che in questo mercato noi, con i nostri bisogni, diritti e aspirazioni, siamo solo merce.

lunedì 12 luglio 2010

Vogliamo una spagnola nuda

Finalmente ho l'occasione di offrirvi un post del tutto frivolo e politicamente scorretto. Lo spunto me lo dà la vittoria della Spagna nella finale di Coppa del Mondo, disputata ieri sera contro la sfortunatissima Olanda (si dice che il ritiro di preparazione ai prossimi europei sia stato fissato a S. Giovanni Rotondo). Per la prima volta, il paese iberico si fregia di questo importantissimo trofeo, pur esprimendo da sempre un calcio di alto livello. Una simile vittoria richiede festeggiamenti adeguati.

Nel 2001, per celebrare lo scudetto vinto dalla sua Roma, la florida Sabrina Ferilli si denudò al Circo Massimo, evocando la sfrontata licenziosità della Roma neroniana. E bisogna ricordare che la "magica" si era comunque già aggiudicata, nel 1982, il prestigioso trofeo. Oggi che la Spagna solleva per la prima volta al cielo la Coppa del Mondo, mi sembra del tutto legittimo pretendere di vedere un paio di bocce iberiche.

Pensiamo a cosa sarebbe successo se a vincere fossero stati gli "oranje". Quasi certamente, Amsterdam avrebbe spalancato le braccia a una folla festante, offrendo a tutti superskunk, Heineken e sesso mercenario a profusione. Sarebbe bastato infilarsi una maglietta arancione e ripetere come un mantra l'unica parola di olandese che la maggior parte di noi conosce (oranje appunto) per vedersi travolti da una fiumana di giuliva perdizione.

E vorranno essere da meno gli spagnoli, popolo capace di generosità senza pari, e sicuramente non secondo a nessuno in termini di bellezza femminile (laddove gli uomini hanno invece un non so che di neolitico)? Va bene il prosciutto di Salamanca e lo sherry, ma questo è un momento storico, non una feria qualsiasi. Qui non si sta festeggiando uno delle migliaia di santi che i nostri cugini latini adorano con grande devozione (gareggiando in questo con i terroni); questo è un momento storico, che nella migliore delle ipotesi (dal loro punto di vista) tornerà fra 4 anni. Insomma, servono las tetas. E poi, diciamolo, la produzione artistica e culturale spagnola contemporanea è stracolma di sesso; che saranno adesso un paio di mammelle? Basta passare un sabato sera in giro per i bar di Madrid, per rendersi conto che le figlie del Cid non sono per la maggior parte delle santarelline (e qui spero che scatti nei miei confronti l'infamante accusa di misoginia, che porterei come una medaglia al petto).

Non ho più niente da dire, nessun altro argomento di persuasione da spendere a favore della mia causa. In un impeto di ottimismo avevo comprato una maglietta dell'Olanda; poco male, questo è il calcio, e questa è la vita. Ma adesso, per dio, voglio la spagnola nuda!

sabato 10 luglio 2010

La barbarie del fitness e la gioia naturale del "fatness"

Alcune anime dannate fanno spinning, in una illustrazione di Gustavo Dorè

Dopo il triste sproloquio sul surrettizio ritorno dell'età vittoriana, voglio darmi a qualcosa di più leggero. Agosto si avvicina con la promessa delle vacanze estive, e vacanze per molti di noi vuol dire spiaggia e costume da bagno. Questo è il momento in cui l'italica stirpe si fa prendere in massa da rituali di follia collettiva: diete ed estenuanti routine di esercizio fisico da far sembrare passeggiate di salute le famigerate preparazioni atletiche precampionato di Zeman. Questo è il momento del fitness. Il momento in cui una società che fa il corpo oggetto di ogni sorta di abuso si rende improvvisamente conto dei segni lasciati su di esso da molteplici e multiformi maltrattamenti. E allora giù con ulteriori angherie nei confronti di questo nostro povero guscio mortale, costretto a mutare forma in modi e tempi assolutamente disumani. E questo perchè gli altri ci vedano come ci hanno detto che dobbiamo desiderare essere visti. Si può avere meno rispetto per se stessi e la natura di cui si è parte?

Io, ormai trentasettenne, e a differenza di Walt Whitman non proprio in perfetta salute, guardo la mia epa con romantico struggimento, pensando a tutti i bei momenti che abbiamo condiviso. La sfoggerò con orgoglio sulle spiagge di Gaeta, perchè è parte di me, della mia storia, e non rinuncerei a lei per niente al mondo. E perchè 'a panza è ppresenza. La pancia è segno di maturità e di una buona alimentazione; denota un individuo florido, che sa e può godere delle gioie del palato. E io dovrei sottopormi a fatiche degne di Ercole - di più, di Asterix - per farla scomparire? Ma siamo impazziti??? Io dico NO! al fitness, e sposo invece la filosofia del "fatness". Grasso è bello ("fat"=grasso, "ness"=suffisso sostantivante), in quantità modiche.

L'equivalente femminile della pancia sono i fianchi e i glutei. Su di loro la vita sedentaria deposita grassi "in eccesso" e cellulite. Questi sono in grado di generare vergogne, complessi e sensi di colpa da lettino dell'analista. Le donne in genere non se la passano tanto bene, si sa. Ma in questo periodo ancora di meno, soprattutto se fanno parte di quel grande club dell'invidia del pene che, se da una parte compete con grande tenacia con gli uomini, dall'altra ha già perso in partenza per aver accettato regole interamente decise dall'avversario. Queste donne vitali, capaci, intelligenti, vanno in palestra e si ammazzano di spinning, affinchè gli uomini approvino il loro aspetto. Affinchè non possano avere nulla da eccepire sul loro corpo. Se questa non è una resa incondizionata al patriarcato, ditemi voi cos'è. Ma non degeneriamo, questo doveva essere un post leggero, ed ho già usato la parola "patriarcato". Facciamo attenzione...
Vorrei invece attirare l'attenzione delle signore su un aspetto che trovo rivelatore. Guardate il girovita di dive d'altri tempi come Sofia Loren o Anita Ekberg, e poi osservate i modelli di bellezza proposti oggi. Perchè la donna florida, giunonica, che tanto piaceva ai nostri nonni, oggi è decisamente fuori moda? Mi azzardo a suggerire un'ipotesi. Nel dopoguerra eravamo poveri, la nostra alimentazione era frugale, e i lavori di casa venivano fatti ancora tutti a mano (e tutti dalle donne). Un bel paio di fianchi generosi evocava abbondanza, qualcosa a cui pochi avevano accesso. Con la progressiva diffusione del benessere ci si è pian piano allontanati da quel modello per approdare negli anni '70 alle forme scheletriche di una Twiggy; negli '80, impauriti dallo yuppismo e dal thatcherismo (la perfida Maggie non poteva non ridestare ataviche paure di castrazione), ci siamo rifugiati nel seno materno di Samantha Fox e Sabrino Salerno, ma solo per poco: i '90 hanno riportato in auge la donna snella, magari anche troppo, magari anoressica. Si direbbe che lo star system si ostina a proporre come ideale di bellezza femminile ciò che gli uomini trovano esotico e conturbante per cause più legate al contesto che non alla natura. Sia come sia, le persone (sia uomini che donne) hanno corporature diverse, e l'attrazione è questione complessa. Personalmente, se dovessi incontrare la donna della mia vita, non le chiederei le misure.

E magari la incontrerò proprio quest'estate al mare. Io le andrò incontro con la mia epa gonfia di dolci memorie enogastronomiche, lei dimenerà i suoi fianchi importanti in un'andatura da film anni '50, ma con più ciccia in bella mostra. Nuoteremo insieme, inebriati dall'amorosa vista, nonchè dai mefitici effluvi di cui il nostro mare abbonda ognora. Ci dichiareremo eterno amore di fronte a un ricco spaghetto ai frutti di mare, che poi divoreremo senza ritegno alcuno, innaffiandolo con un'eccellente Falanghina dei Campi Flegrei, senza preoccuparci di dove andrà a depositarli il nostro metabolismo. E poi squasseremo le nostre carni flaccide ma felici nella gioiosa danza dell'amore, un antico ballo che non prevede passi predeterminati, ma solo una continua, intricata e dilettevole improvvisazione.

venerdì 9 luglio 2010

Dal "nanny state" al "workhouse state": la civiltà del gambero

Come vi dicevo nel post precedente, studio l'inglese da molti anni, e sono arrivato a un tale grado di servile e incondizionata ammirazione verso questa lingua, espressione a mio parere di una cultura parecchio più avanzata della nostra, da mettermi a riordinare tutto il mio mondo in base alle sue categorie. Per un periodo considerevolmente lungo della mia vita, quando mi accorgevo di non conoscere il nome di un oggetto in inglese, andavo immediatamente a consultare un dizionario; se mi trovavo fuori casa, era la prima cosa che facevo una volta rientrato. Quando mi imbattevo in un drappello di marinai statunitensi gioiosamente ubriachi, cercavo di trascinarli con me per bar e festini, allo scopo di praticare la loro lingua (sebbene il mio inglese sia più simile a quello parlato da Elisabetta II e dal tredicesimo Duca di Wybourne che non alle varietà nordamericane). Oggi, forte di queste esperienze, mi concedo anche la hybris di coniare neologismi nell'idioma del Bardo dell'Avon. E sì, perchè se l'espressione "nanny state" è ben consolidata nell'uso (almeno quello britannico), e può essere tradotta come "stato assistenziale" (letteralmente "stato balia"), la locuzione "workhouse state" è farina del mio umile sacco.

Ora voi, presumibilmente già annoiati e infastiditi dal riferimento a un universo che non vi appartiene e magari detestate, vorrete sapere in due parole cos'è una workhouse. Si tratta di un luogo, sostanzialmente molto simile a un istituto di pena, in cui venivano ospitati i poveri, i disabili, i vecchi, e tutti coloro che non riuscivano a vendersi sul mercato del lavoro; in cambio di vitto e alloggio, si chiedeva a queste persone di lavorare senza essere retribuite, e di sottostare a una disciplina da 41 bis. In uno di questi luoghi, di cui era zeppa la Gran Bretagna vittoriana, passa la sua infanzia il povero Oliver Twist, classico esempio di bambino infelice. Se volete sapere di più su questa triste istituzione, cliccate qui (in inglese).


Cosa c'entra, dunque, la workhouse con il concetto di stato, e con il povero gambero? Vi sto esasperando? Un po' di pazienza, cari lettori; siete voi che avete chiesto accesso alla mia mente contorta. Potevate andare al mare, e invece siete qui a sorbirvi le mie elucubrazioni. Non chiedetemi, dunque, di essere lineare, visto che neppure voi lo siete stati.
Se, come me, siete nati neglia anni '70, siete stati adolescenti negli '80, e avete vissuto i '90 da giovani adulti, sapete che il mondo è cambiato molto in questo arco di tempo. Quando eravamo fanciulli non era inusuale imbattersi in idee di giustizia sociale, uguaglianza ed equità nella distribuzione della ricchezza. Il diritto al lavoro, alla casa, e all'assistenza sanitaria gratuita erano considerati conquiste consolidate, e lo Stato effettivamente si impegnava per garantirli, se non a tutti, al maggior numero di cittadini possibile. Poi, dopo il crollo dei regimi del blocco sovietico, sono arrivate idee nuove, e abbiamo dovuto rivedere tutto ciò che ci sembrava scontato. Fu come se a crollare non fossero stati solo il muro di Berlino e la cortina di ferro (già resa piuttosto permeabile dalla perestrojka), ma tutte quelle "inibizioni" e riserve che mitigavano gli effetti nefasti del capitalismo. Il "nuovo che avanza", ricordate? Era il neoliberismo. Era l'inizio di un regno del terrore che ci avrebbe ridotti, da paese forse arretrato e provinciale ma estremamente vivo dal punto di vista culturale e intellettuale, al deserto di disperazione che siamo oggi.
Anche stavolta il nuovo arrivava dal mondo anglosassone. Inglesi e americani si contendono la paternità di questa oscenità politico-filosofica: è venuta prima Margaret Thatcher o Ronald Reagan? Un po' come la domanda se siano venuti fuori prima i Sex Pistols o i Ramones (con l'ovvia differenza che il punk rock è qualcosa di veramente bello, mentre l'idea dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo è quanto meno discutibile). Ci vorrebbero pochi secondi a dirimere la questione facendo ricorso all'utilissima Wikipedia, ma quel che ci interessa è che questi due paesi hanno sviluppato più o meno contemporaneamente un discorso politico che rimetteva tutto in gioco, attaccando valori fino a quel momento quasi universalmente condivisi.
Sarò fissato, ma dopo il post sull'alcol devo citare di nuovo il Puritanesimo come fonte dell'85-90% dei mali dell'Umanità. Il resto è da attribuire a Pupo e al Fantasma Formaggino. L'atteggiamento dei puritani nei confronti della povertà è di costante condanna, criminalizzazione, privo di un briciolo di compassione. Per continuare a parlare di alcol, era opinione assai diffusa nell'Inghilterra vittoriana (società puritana per antonomasia) che il bere fosse causa di degrado e miseria presso il proletariato urbano. Qualsiasi persona di intelligenza normale si rende conto che semmai è il contrario: le condizioni di vita assolutamente deumanizzanti in cui versavano i poveri degli slums inglesi del XIX secolo li spingevano a bere per alienarsi da una realtà insopportabile. "Work is the curse of the drinking classes", osservò argutamente Oscar Wilde, autore di un bel libercolo dal titolo The Soul of Man Under Socialism (non troverete lì la citazione, ma una stupenda riflessione sulla miseria, la ricchezza, la giustizia e la libertà).

Ma ragazzi, qui si divaga, e parecchio. Bisogna venire al punto. Ormai la vostra capacità di sopportazione è agli sgoccioli, e manca poco così perchè abbandoniate il mio blog per visionare cani che dicono "I love you" su Youtube. Devo andare a parare senza indugi laddove mi ero riproposto di andare a parare. Attraverso una sistematica e progressiva criminalizzazione della povertà, dell'insuccesso professionale, dell'ozio (ma vi rendete conto di che razza di imbecille devi essere per denigrare l'ozio?), questi teocrati dell'avidità ci hanno spinti di forza in un mondo nel quale è perfettamente morale e legale che il forte calpesti il debole, che il ricco umili il povero, che il bianco sfrutti il nero, o il bianco meno fortunato di lui. Tutto questo accadeva anche prima, ma almeno era possibile denunciarlo senza essere bollato come estremista o sognatore, e sostenere un'alternativa. Oggi non esistono più spazi di critica, se non su un blog come questo che leggerete in quattro, o nelle chiacchiere da bar di chi ha la sfortuna di non avere il coltello dalla parte del manico. Questo è il "workhouse state": un luogo in cui a chi resta indietro, per mala sorte o per scelte di vita che nessuno dovrebbe avere l'arroganza di sindacare, non resta che accettare di buon grado un'esistenza non tanto diversa da quella dei poveri cristi vittoriani.



Certo, loro avevano il gin, e noi abbiamo il TV al plasma (sul quale peraltro guardiamo programmi perlopiù osceni). La sostanza, però, è la stessa. Liberismo e libertà sono agli antipodi. Il nuovo che ci è venuto incontro ci ha riportati a una civiltà che, dopo aver creato la povertà, aveva l'ardire di prendersela con i poveri e rinchiuderli in luoghi di repressione e sfruttamento. Noi, la classe media istruita, siamo una popolazione di Oliver Twist trasversale alle nazioni, che ormai travalica i confini tradizionali di classe sociale, un enorme serbatoio di manodopera abbrutita e disperata, da impiegare nei call center o nel telemarketing. E, proprio come gli ospiti delle workhouses erano costretti a venerare il dio cristiano dei loro aguzzini, noi siamo (praticamente) costretti a riconoscere la bontà del "libero mercato" (un altro uso fuorviante del termine "libero") e ad accettarne i comandamenti.

Vi siete depressi? Ma noooo!!! Non preoccupatevi perchè, come si legge sulle mura di una workhouse in una foto che non posso riprodurre per motivi di copyright, "Dio è buono e giusto". Prima o poi anche voi troverete il vostro posto in questo mondo retto da principi immutabili perchè perfetti, e quando mi telefonerete per propormi l'acquisto di un utensile che consente di premere le arance o i limoni senza che ti schizzi il succo negli occhi (questa sì che sarebbe un'invenzione!) io riconoscerò la vostra voce, e parleremo dell'ultima partita del Napoli o di un amico comune che, nonostante tutto, si è sposato; e faremo finta di vivere in un mondo arioso e benevolo, anzichè in una angusta prigione di arbitrarietà, sopruso e ineffabile bruttezza.

giovedì 8 luglio 2010

Lindsay Lohan, l'etilometro e il demone che non esiste



In questi giorni imperversano sul web articoli e video sulla povera Lindsay Lohan, condannata a un mese e mezzo di carcere da un tribunale statunitense. Lindsay Lohan è uno di quei personaggi, evidentemente noti al grande pubblico, che il mio essermi collocato ai margini della cultura occidentale contemporanea mi consente di conoscere solo in modo molto indiretto, tramite l'ormai onnipresente gossip. Poco male, perchè non ho intenzione di scrivere una monografia sulla bella Lindsay, bensì una riflessione sulle motivazioni della condanna: la Lohan andrà in carcere per non aver frequentato con assiduità un programma di riabilitazione forzata dall'alcolismo.

Sono nato e cresciuto in Italia, ma studio l'inglese da molti anni ormai, e una delle prime cose che noti addentrandoti nella cultura anglosassone è il loro rapporto schizofrenico con l'alcol. Gli anglofoni ne consumano quantità in genere superiori all'italiano medio, in taluni casi massicce, se non addirittura titaniche; eppure questo piacere sembra sempre accompagnato da uno strano senso di colpa, generato da chissà quale meccanismo psicologico. Direi che l'alcol è per gli anglosassoni protestanti quello che il sesso è per i latini cattolici. Nella maggior parte dei paesi di lingua inglese vigono leggi che impediscono di consumare bevande alcoliche in pubblico, lo stato investe risorse in campagne contro l'abuso di tali bevande, e la polizia non è tenera nei riguardi di comportamenti indotti dall'ebbrezza che invece qui da noi passerebbero per goliardici e sostanzialmente inoffensivi. Ma là dove questi simpatici mozzarelloni si superano è nel modo assolutamente fanatico in cui aborrono e condannano la guida in stato di ebbrezza. In quest'ultimo caso, sono riusciti ad imporre anche a noi un loro atteggiamento che, come spero di dimostrare, è assolutamente fuori luogo.

“Come, come, good wine is a good familiar creature if it be well used; exclaim no more against it.” Queste sono le parole dirette da Iago a Cassio nell'Otello di Shakespeare, quando il damerino fiorentino incolpa l'ubriachezza per il suo coinvolgimento in una rissa, nell'accampamento del generale moro. Il senso delle parole del perfido ma brillante soldato è questo: Cassio, sei stato tu a sguainare la spada dal fodero. Anche se questa tua intemperanza è stata causata da un consumo eccessivo di vino, la colpa è sempre e solo tua, per aver ceduto alla pressione psicologica esercitata dai tuoi commilitoni, i quali ti incitavano a dimostrare il tuo valore di bevitore (visto che come uomo d'armi, caro il mio matematico dalle mani curate, non vali molto). Dunque non prendertela con una sostanza che, se usata correttamente, è nostra amica.

Quante volte abbiamo sentito scuse del genere di quella usata da Cassio? Un nostro amico si ritira in amoroso connubio con una creatura abbietta e turpe alla quale non è applicabile la categoria semnatica di "donna", e dopo giustifica l'abominio con l'influsso mefitico della bottiglia, magari esagerando di proposito le quantità deglutite per scagionarsi meglio; una donna si ritira in amoroso connubio con noi, creature abbiette e turpi alle quali non è applicabile la categoria semantica di "uomo", e quando la contattiamo onusti della speme di un futuro migliore, in cui ai nostri atti sessuali prenda parte anche una seconda persona, comincia a blaterare frasi non ben comprensibili sul fatto che "ieri sera eravamo ubriachi". Si direbbe quasi che queste persone attribuiscano all'alcol proprietà che questo, oggettivamente, non ha. Quando sono ubriaco io non mi tiro martellate sulle dita, nè mi trapasso la cassa toracica con spade rituali giapponesi. Per quanto possa bere, io non farò mai qualcosa che sia contro la mia natura. Anzi, l'alcol mi fa essere più autentico, come mirabilmente sintetizzato dall'arcinoto motto latino "in vino veritas". Si direbbe quasi, per essere ancora più espliciti, che i detrattori dell'alcol gli attribuiscano un'identità e una volontà proprie.

Il demone dell'alcol, come quello del gioco, è una delle innumerevoli entità immaginarie escogitate dalla fantasia umana per farci sembrare meno grave la nostra pochezza morale. Se non riusciamo a smettere di buttar via i nostri soldi, e magari anche quelli dei nostri cari, ai cavalli o al tavolo verde, è perchè siamo stati presi dal demone del gioco; se passiamo intere giornate in qualche bettola, in compagnia di individui rimasti sbiaditi perchè la vita non è mai riuscita a metterli a fuoco, è colpa del demone della bottiglia. Il nostro libero arbitrio, in queste faccende, non sembra avere voce in capitolo. Tanto più in ambito protestante, visto che i teologi riformatori sono riusciti a fare ancora peggio dei loro predecessori in una dozzina di secoli di teologia cristiana, escogitando la dottrina della predestinazione. Il puritanesimo raccoglie il peggio dei dogmi e degli atteggiamenti culturali protestanti in un coacervo di bigottismo ricoperto da una patina di pomposa austerità. Purtroppo, ad opera di un famoso lestofante di nome Oliver Cromwell, questa bieca visione del mondo ha preso piede nella bella e verde Inghilterra, dopo essere stata portata nel Nuovo Mondo dai mai abbastanza bestemmiati Padri Pellegrini sulla loro Mayflower. Se vuoi vedere due autentici puritani dell'era elisabettiana clicca qui.

Oggi, per fortuna, i puritani non vanno più in giro a chiudere teatri e decapitare monarchi. Ma essi sono tra noi, come dimostra la sentenza inflitta alla nostra amica Lindsay. E come dimostra la diffusione, persino nel nostro bel paese, di quello strumento di follia collettiva che è l'etilometro. Questo è il punto di arrivo di una lunga e gloriosa tradizione di proibizionismo, che vuole l'essere umano essenzialmente incapace di darsi una propria morale in modo autonomo, e gestirsi dunque senza interferenze continue da parte dell'autorità. La conseguenza principale di ogni tipo di proibizionismo, come sappiamo bene, è l'aggravarsi del fenomeno stesso che si voleva proibire, oltre a svariati danni collaterali. Quello che mise al bando l'alcol negli Stati Uniti dal 1919 al 1933 non spinse certo gli Americani a diventare astemi (se vuoi vedere uno speakeasy dei primi anni '30 clicca qui), ma causò loro forse qualche problema di salute in più, vista la pessima qualità delle bevande, prodotte alla meglio da persone non sempre qualificate in strutture non appropriate; e soprattutto vide un incremento della criminalità impensabile prima del nefasto provvedimento. Sembrerebbe quasi che gli autori del provvedimento avessero come obbiettivo l'arricchimento delle gang che controllavano i bar clandestini e il contrabbando di liquori.

Ma, mi direte voi, la guida in stato d'ebbrezza è pericolosa! Certo, può esserlo. Così come può essere pericolosa quella in stato di estrema spossatezza. Eppure centinaia di camionisti, proprio in questo momento, stanno percorrendo le nostre strade senza essersi riposati a sufficienza, mettendo a rischio la vita loro e quella degli altri, per ottemperare a tabelle di marcia rigide e disumane. Contro questo, non mi risulta che esista una legge. Nè mi pare che si applichi un metro particolarmente rigido quando si tratta di rinnovare la patente a persone talmente anziane da non essere più in condizione di stare nel traffico. Sappiamo quanto siano ingombranti i dannati vegliardi nella società italiana, ma non lo sono mai come quando ti si piazzano davanti su una strada stretta, mantenendo un'andatura da mezzofondista dilettante. E non è pericoloso il rampollo di buona famiglia che si sente padrone del mondo perchè il papi gli ha comprato il SUV, e lo lancia a velocità inusitate per strade urbane dopo aver fatto abbondante uso di cocaina? Anche in questo caso, la cocaina è di corredo: il giovane in questione è stronzo di suo. Non è pericolosa, infine, la moglie del papi, che governa il suddetto SUV (di solito delle dimensioni di un galeone spagnolo) mentre parla al cellulare e si accende una sigaretta? Il punto è che, nel mettersi alla guida di un veicolo motorizzato, ognuno di noi dovrebbe assicurarsi di essere in buone condizioni psicofisiche, ed evitare distrazioni eccessive finchè è al volante.

Ma noi ce la prendiamo solo con lui, il povero demone dell'alcol, alito di morte, alter ego malvagio dello Spirito Santo misurabile attraverso una espirazione propedeutica, in caso di possessione diabolica, all'espiazione, destino inevitabile di ogni peccatore. Ce la prendiamo con lui perchè la Mayflower non è affondata, perchè Cromwell ha vinto la guerra, perchè Eisenhower e Walt Disney ci hanno insegnato che l'America ha sempre ragione. E allora, cara Lindsay, nonostante la pena che mi fai (pur non conoscendoti), devo invitarti a collaborare con il disegno divino. Espia, pentiti, e bevi tanto succo di frutta. Vedrai che alla fine il demone ti lascerà in pace. Io, per conto mio, perorerò la tua causa presso di lui. Siamo amici, ci vediamo ogni sera.

martedì 6 luglio 2010

Aurelio De Laurentiis: benefattore o paraculo?




Con l'Italia fuori dal mondiale, tra una partita e l'altra, lancio di tanto in tanto un'occhiata sonnolenta e disillusa al calciomercato. Avendo avuto la sfortuna di nascere a Napoli (l'ha detto Bocca che è un intellettuale, eh!), seguo le vicende della omonima squadra fin da quando la sua icona si chiamava Diego Armando Maradona. Oggi che non sono più un fanciulletto, e che non so quanto mi resterà da vivere, sono costretto a vedere gli azzurri navigare in una mediocrità mitigata solo dal fatto di essere comune ormai alla quasi totalità della Serie A, e mi domando quando rivedrò il tricolore cucito sulle maglie dei ragazzi che rappresentano la mia povera città nel torneo calcistico più sentito dell'emisfero boreale.

Potete dunque immaginare la mia delusione nel constatare che il Napoli non ha ancora messo a segno un colpo di mercato, ed anzi contempla, nella persona del suo presidente Aurelio De Laurentiis, la possibilità di cedere uno dei suoi pezzi più pregiati, ovvero Fabio Quagliarella. Ma quali sono le trattative in corso? Ebbene, per il bomber di cui si va parlando ormai da svariati mesi il nome più probabile sembrerebbe quello di Paulo Roberto Cotequinho, centravanti di sfondamento, ma non è escluso l'acquisto di un giocatore esperto come Margheritoni; la solita pista brasiliana porta invece ad Aristoteles, giovane di grande talento, ma considerato meno affidabile a causa di una nota tendenza alla saudade. Il ragionatore di centrocampo invece potrebbe essere il (magno) greco Archimede Di Siracusa: a lui spetterebbe il compito di illuminare il gioco, talvolta farraginoso, della compagine partenopea. A parte i calciatori appena menzionati, non sembra ci siano per il momento altri nomi fra gli appunti di Bigon.
E allora viene da domandarsi: che ne è dei proclami del nostro presidente, che ci seduceva con sirene da Champions League (o Sciàmpions, per usare la sua pronuncia) mentre eravamo ancora impantanati nel purgatorio della B? O Aurelione, perché non rendi poi quel che prometti allor? Per darsi una risposta che non rispecchi semplicemente pregiudizi e posizioni preconcette, sarà il caso di ragionare su una una importante questione propedeutica: chi è Aurelio De Laurentiis?

Per farlo, analizzeremo prima una figura fra le più note e travisate del '900: Anjeza Gonxhe Bojaxhiu, meglio nota come Madre Teresa di Calcutta. Tutti sappiamo come è diventata celebre: nel 1950 fondò un ordine religioso, le Missionarie della Carità, il cui scopo doveva essere quello di prestare soccorso ai poveri e ai derelitti. In particolare, come è risaputo, l'ordine era dedito alla cura dei moribondi. Così la minuta religiosa si guadagnò l'ammirazione del mondo, e la fama di santa donna completamente votata al prossimo. Sorvolando sul fatto che una persona completamente votata al prossimo non è degna a mio parere di stima, ma solo di ribrezzo, al massimo commiserazione, fa d'uopo ricordare a questo punto anche le critiche ricevute da questa capa di pezza corta e male incavata.

Nel 1994 l'emittente britannica Channel 4 trasmise un documentario del giornalista inglese Christopher Hitchens su Madre Teresa, in cui si raccoglievano tesimonianze assai critiche di persone che avevano prestato opera come volontarie nei suoi "ospedali", si metteva in risalto il suo ruolo di campionessa delle posizioni della Chiesa Cattolica contro la contraccezione e l'aborto, e si faceva notare come non avesse avuto il minimo problema nell'accompagnarsi ad alcuni fra i più odiosi dittatori del suo tempo, fra cui il sanguinario e corrotto leader haitiano Papa Doc, al secolo François Duvalier. In effetti, una volta raggiunta la notorietà con la sua discutibile attività di missionaria, Madre Teresa passò più tempo in giro per il mondo che non nella "sua" Calcutta. All'inizio del documentario la vediamo a Knock, Irlanda, sede di un'apparizione miracolosa della beata vergine nel 1879, mentre parla a una folla di irlandesi ancora non completamente laicizzati dalla Celtic Tiger, in difesa di un sistema di valori da Età del Bronzo. Nel frattempo, nella sua "casa per i moribondi" di Calcutta, gli ospiti morivano senza ricevere cure mediche adeguate, come accertato da numerose testimonianze. Pare addirittura che fosse in uso la pratica di battezzare i non cristiani in punto di morte, ma questo in fondo è un particolare secondario, di fronte al fatto che malati terminali di cancro morivano fra atroci agonie senza il sollievo di antidolorifici adeguati.

Eppure Madre Teresa è quasi universalmente considerata donna di straordinaria pietà, e sembra destinata a percorrere in tempi record il cammino che conduce alla santità. Il suo processo di beatificazione è cominciato lo stesso anno in cui è morta, nel 1997, per iniziativa di un pontefice al quale la missionaria era stata molto vicina, e con il quale aveva molte affinità: Giovanni Paolo II. E allora, se sappiamo leggere fra le righe, cominciamo a capire per quale motivo la piccola Agnes, oscurantista avida, crudele, cultrice del dolore, è passata alla storia come un essere umano di eccezionali qualità. La religione si fonda sull'attitudine della mente umana a interpretare il mondo secondo i paradigmi del mito. Questo è l'unico modo in cui il cervello infantile può capire ciò che lo circonda, non disponendo di strumenti di analisi critica. Se poi quel bambino non si istruisce e non acquisisce quegli strumenti, ragionerà per tutta la vita da bambino. Questa, cari amici, è la mentalità del credente. Quale ruolo spetta dunque all'autorità religiosa, se non quello di farsi fabbrica di miti? Del resto, il Cristianesimo sarebbe quello che è oggi se Costantino non avesse deciso nel IV secolo di farne il culto ufficiale dell'Impero Romano?

Avendo scritto abbastanza su Madre Teresa da attirare su di me le ire del nazipapa, passo ora a illustrare le analogie fra la sadica di Calcutta e il cazzaro di Castelvolturno. Quando nel 2004 rilevò il Napoli (aspettando prima che fallisse il tentativo di Gaucci di salvarlo, se ben ricordate), Aurelio De Laurentiis promise che ci avrebbe tirati fuori dall'incubo della Serie C, e che al più presto saremmo tornati nel massimo campionato. In questo sforzo sarebbe stato coadiuvato da un uomo di fronte al quale il CAF di pentapartitiana memoria sembra un trio di probi viri: Pierpaolo Marino. Nei primi anni '90 viene squalificato per tre anni a causa di uno scandalo di partite vendute che coinvolge la sua società di allora, il Pescara. Pare (e dico pare nell'impossibilità di reperire notizie certe) che abbia continuato a svolgere l'attività di direttore sportivo all'Udinese durante tutto il periodo della sanzione. Il punto comunque è che il bonzo maledetto è un camorrista democristiano della peggiore specie, esponente della migliore tradizione campana in quel senso. Vero, ha portato all'Udinese tanti ottimi giocatori; ma si trattava soprattutto di giovani stranieri, visionati dagli osservatori Carnevale e Gerolin. Mentre questi giravano il mondo in cerca di talenti, il bonzo restava comodamente seduto a casa propria a fare giri di telefonate con i potenti del calcio italiano, a fare networking, come si dice oggi, e consolidare la propria posizione nel circo pedatorio. Questo è l'uomo che De Laurentiis scelse di affiancarsi.

Potrete dirmi che il mondo del calcio è quello che è, e che comunque l'esperienza e gli agganci di Marino potevano essere preziosi per il progetto Napoli. Certo, su questo non c'è dubbio. Sarebbe stato così, se il condottiero della rinascita sportiva di questa città dolente avesse monitorato costantemente l'operato del suo collaboratore, e gli avesse dato direttive abbastanza rigide su cosa fare e cosa non fare. Invece, Aurelione ha dato carta bianca al bonzo bastardo, lasciandogli finanche le chiavi dello spogliatoio mentre lui andava a rendersi responsabile di quei crimini contro l'Umanità che sono i suoi film di Natale.

Ma allora De Laurentiis non vuole bene al Napoli? Difficile dirlo. Forse persino la sanguinaria Teresa voleva un po' di bene ai poveracci che lasciava morire in strutture fatiscenti, senza assistenza medica qualificata. Il punto è se il cazzaro fa il bene del Napoli o meno. Quanti soldi ha speso per giocatori utilizzati pochissimo (vedi Rullo)? E quanti per dei veri e propri pipponi, come il dinoccolato Rinaudo? Oggi parla di austerity: ma come, proprio oggi che dovremmo attrezzarci per l'Europa League, e per fare un campionato che ci porti finalmente in Sciampions? Forse che stia ragionando come il presidente della Longobarda? Forse gli costa troppo mantenere una squadra di vertice? Comincia a materializzarsi una paura atavica che solo la parentesi epica del pibe de oro aveva potuto momentaneamente scacciare: Napoli non avrà mai più una squadra di calcio degna del suo pubblico; vagheremo in un limbo di ottavi posti per i secoli a venire, fino alla fine dei tempi.

E allora, viene da chiedersi, perché De Laurentiis ha preso il Napoli? Lo sanno tutti che con il calcio non si guadagna, anzi, semmai si perde. Le ipotesi sono due:

1) De Laurentiis, a differenza di altri presidenti meno imprenditorialmente capaci di lui, riesce a guadagnare con il Napoli;

2) La presidenza del Napoli conferisce lustro a De Laurentiis, e gli offre la possibilità di costruire intorno a se stesso un mito non dissimile da quello costruito intorno allo scricciolo assassino di Calcutta.

La prossima volta che leggete di lui, di una sua dichiarazione, pensate a Madre Teresa e al presidente della Longobarda. E pensate che vi è più dignità nella consapevolezza di un destino gramo, che non nell'illusione di una felicità che non arriverà mai.