mercoledì 28 dicembre 2011

Terroni si nasce?

Perchè il post si apre con una foto di Vittorio Emanuele II? Lo scoprirete solo leggendo...

Cari amici del Bradipo, come è andato il Natale? Avete fatto schifo all'Umanità? Avete rantolato sul freddo pavimento in preda a uno stato di totale abiezione, in seguito a pasti sufficienti a sfamare un bove nell'età dello sviluppo? Bene.
Come sapete, qualche giorno fa è morto Giorgio Bocca. Mi sento dire da più parti che dovrei dolermene. Il fatto che non me ne freghi niente è l'ennesima dimostrazione della mia natura riottosa ed eterodossa. 
E qui alcuni di voi probabilmente si staranno irrigidendo sulla sedia, cercando di capire per quale motivo io non avessi simpatia per il giornalista piemontese. Questo video l'avrete già visto nei giorni scorsi, se siete frequentatori dei social network. Sono costretto a riproporlo, per spiegare la mia indifferenza alla morte di questa figura così stimata nel nostro paese.

Chi mi conosce sa che non sono uno di quei napoletani che difendono a spada tratta la propria città; la critico, spesso e volentieri. Ne evidenzio limiti e pecche, ma con la consapevolezza che non sono poi così diversi da quelli del resto d'Italia. O, per meglio dire, e volendo appropriarsi indebitamente del gergo del filosofo, la differenza è fenomenologica, più che ontologica. Lo stesso marciume si manifesta in modi diversi a Napoli e Milano, ma in fondo il volksgeist degli italiani è uno solo: siamo un popolo mafioso. Vi è poi chi, al di là della latitudine che gli è toccata in sorte, accetta questa condizione, e chi la combatte; ma l'italiano si può definire esclusivamente in base al suo atteggiamento di fronte alla cultura mafiosa. Sono mafiosi i casalesi che tengono in scacco un territorio, impedendone lo sviluppo e depredandolo, come sono mafiosi gli imprenditori settentrionali che fanno smaltire i loro rifiuti industriali alle aziende della camorra. E' mafioso il sistema dei partiti che, nella Prima come nella Seconda Repubblica, ha fatto e fa una lotta di facciata alla criminalità organizzata, senza minimamente sognarsi di affrontare le cause del suo perdurare. Mafia è il napoletano m'o vvec je così come il padano ghe pensi mi. Nel consorzio civile i problemi si affrontano insieme, tenendo conto degli interessi e delle esigenze di tutti. E rispettando le fottutissime regole di quelle voraci ittiofaghe delle vostre madri, che interminati spazi e sovrumani silenzi racchiudono nelle loro brutalmente devastate vulve.

Oggi, alle soglie del 2012, nessun intellettuale (per la verità, nessuna persona di buon senso e dotata di istruzione superiore) si sognerebbe di affermare che il Sud è una terra popolata da gente pigra, disonesta e ladra. Un merito va riconosciuto a Giorgio Bocca, e per sfregio lo voglio dire in napoletano: nun teneva niente 'a verè. Non aveva peli sulla lingua, diceva e scriveva tutto quello che pensava. Questo atteggiamento gli ha permesso di dare voce a un razzismo mille volte peggiore di quello della Lega Nord, in fondo risibile e folkloristico. Quel razzismo strisciante, sottile, fondato non già sull'aperta avversione e sul campanilismo, ma su un'osservazione che si ritiene scevra da pregiudizi; e per questo infinitamente più dannoso e pericoloso. Napoli è un "cimiciaio", una città "putrefatta da migliaia di anni". A Palermo orribili figure di umanità degradata escono dalle catapecchie. Questo era il Sud di Giorgio Bocca.

Fermiamoci un attimo a riflettere. Perchè una persona indubbiamente intelligente e in gamba si è fatta questa idea di metà del suo paese? Perchè da un viaggio a Napoli, una città che a livello paesaggistico è oggettivamente meravigliosa, che ospita un patrimonio storico e artistico notevole, e che è in genere accogliente con il visitatore, Bocca si porta via l'impressione del cimiciaio? Del mio breve soggiorno romano io non ricordo solo lo squallore della Prenestina, o la orrenda e straripante lazialità delle infauste lande a nord dell'Aniene: conservo anche e soprattutto l'impressione di un vero e proprio museo a cielo aperto, di una città ariosa, vivace. Ricordo l'atmosfera da altri tempi di San Lorenzo, un quartiere che ti dà l'impressione di essere veramente a misura d'uomo. Ci deve essere un motivo per cui Bocca ricordava di Napoli soprattutto la sporcizia.

Si parlava proprio di questo, qualche giorno fa, su Facebook. Io vado compatito, perchè ho passato così tanto tempo a studiare gli altri e cercare di impararne le lingue, che mi sono forse dimenticato di come è fatta la maggior parte degli italiani: chiusi nel loro guscio, refrattari al nuovo, esterofili ma solo superficialmente. L'italiano, due volte su tre, si fa un'idea del mondo da ragazzo e non la cambia più. Quanto beneficio si potrebbe trarre da un dialogo veramente aperto, in cui cambiare idea non venisse vissuta come una sconfitta personale! Ma la mente del fanciullo, si sa, è una spugna. Ciò che vi si inculca tende a restare. Il Cattolicesimo. L'attaccamento morboso alla famiglia. Il Risorgimento.

                  Il brigante Carmine Crocco, evidente esempio del fatto che i terroni sono brutti, sporchi e cattivi.

E veniamo finalmente al punto. Se non si ammette che l'Italia unita è stata fatta in modo violento, a spese di quello che prima della conquista era il principale stato italiano, e che le politiche successive sono state tutte tese a promuovere lo sviluppo del Nord a scapito del Sud, si deve necessariamente arrivare alla conclusione che i meridionali sono per loro natura pigri, imboglioni e quant'altro. Perchè mai, se no, il Mezzogiorno non avrebbe ancora colmato un divario che si ritiene pre-esistente? La colpa è degli atteggiamenti dei meridionali, del loro modo di affrontare le cose. Non sappiamo o non vogliamo darci da fare. Quando poi lo facciamo, nell'unico modo possibile in questo contesto, e cioè imbrogliando e brigando un po', ci si critica per la nostra mancanza di onestà. Quaggiù il Nord non  sversa solo i propri rifiuti, ma anche e soprattutto la propria cattiva coscienza. Ricordiamoci che lo scandalo di Tangentopoli scoppia a Milano, mica a Reggio Calabria. Si torna a quanto dicevo prima: un male, tante diverse manifestazioni: qui il cimiciaio e la violenza a mano armata, lì le tangenti e gli appalti truccati alla 'ndrangheta. Accettiamola come parte della ricchezza di questo paese, fatto di tante realtà locali diverse. Bagna cauda al peculato, pizza con le cimici, e cannoli in catapecchia. Signori, l'Italia è servita.

mercoledì 21 dicembre 2011

La rivoluzione non è un pranzo di gala


Ebbene, caro Bradipo, che cosa ti ha spinto a scegliere come titolo di questo tuo breve scritto la famosa citazione del noto leader comunista di cui sopra? Il quale, fra l'altro, stando all'autorevole Baggi Sisini e alla sua Settimana Enigmistica, aveva anche un'igiene personale assai carente... Sicuramente starai per rifilarci una delle tue saporite similitudini, metafore o allegorie? Dischiudici, orsù, il mistero delle tue sinapsi! Rivolgi a noi la tua benevolenza e accarezza i nostri padiglioni auricolari con la tua sapiente e sapida favella! Cantaci, o divo, del Pelide Achille...

Miei cari lettori, l'inverno mi vede sprofondare in un lungo letargo, un sonno senza sogni, una moratoria esistenziale; ma quando mi si tocca Giggino, ovvero l'unica cosa bella che sia capitata a questa città dopo Diego Armando Maradona, io tosto mi ridesto e mi appresto alla pugna con fiero cipiglio. L'oggetto del contendere, alcuni di voi lo avranno già capito, è la famigerata ZTL, che infiniti lutti addusse agli Achei... pardon, agli abitanti di questa città dolente, popolata da perduta gente e ricolma di eterno dolore.
Da quando è stata istituita, a Napoli non si contano le lamentele e le critiche; perfettamente legittime, per carità; ma stiamo attenti a non cadere nelle trappole tese dal nostro retaggio.

Una delle caratteristiche più comunemente associate alla "città nuova" è l'arte di arrangiarsi; sicuramente è nella top ten, insieme al sole, alla pizza, al mandolino, alla sfogliatella e alla monnezza. Ed è vero: qui, come un po' in tutto il Meridione d'Italia, spesso dobbiamo sbrigarcela da soli, perchè ciò che ci offrono lo Stato e la parte "pulita" dell'economia è carente e scadente. Lo facciamo da sempre, ormai è un automatismo. Le mafie non sono altro che una risposta come un'altra a un clamoroso vuoto di potere e di governance, se mi passate un termine anglosassone. Non per niente la più (tristemente) nota organizzazione criminale del Sud Italia si chiama Cosa Nostra: in assenza della res publica, ci appropriamo con il diritto del più forte del ruolo di guida politica, economica, sociale rimasto vacante e ce la vediamo noi. Casca a fagiuolo, in questro discorso, il faceto racconto sull'esame teorico per il conseguimento della patente di guida da parte di un tale camorrista. Costui, messo di fronte alla rappresentazione grafica di un incrocio, e alla domanda su quale veicolo avesse la precedenza, rispose rapido e deciso: "Qual è 'a machina mia?"

Questa è esattamente la cultura che ha espresso il rivale di Luigi De Magistris al ballottaggio per l'elezione a sindaco: Gianni Lettieri. Se avesse vinto lui, oggi non avremmo una Zona a Traffico Limitato. A uno come Lettieri non sarebbe passato neanche per la testa di fare una cosa del genere. Perchè l'ha fatta De Magistris? Perchè andava fatta. Perchè Napoli ha un centro storico straordinario, che va valorizzato; perchè i livelli di inquinamento atmosferico erano improponibili, e il monossido di carbonio si stava mangiando il nostro patrimonio storico e artistico; perchè in tutta Europa si sta ripensando, ormai da diversi anni, la mobilità, cercando alternative a un modello ritenuto non più adeguato. In breve, c'era bisogno di cambiare le nostre abitudini relativamente agli spostamenti e ai trasporti. 

Ora, siamo ragionevoli, era possibile aspettarsi una transizione fluida e indolore in una città dove da secoli non funziona una beata funcia di minchia? In una città dove tutti parlano continuamente di quello che non va, ma pochi sono disposti a fare sacrifici per cambiarlo. Con un comune in dissesto finanziario, non è realistico pretendere più corse degli autobus, o che circolino anche la notte (sebbene sia doveroso aspettarsi un'opera di risanamento e riorganizzazione). Quando poi si parla di Cumana o metropolitana si dimentica che dipendono da aziende di trasporto sulle quali il Comune non ha alcun controllo. Discutiamo quanto vogliamo dei difetti della ZTL, dei modi per migliorarla, ma non diamo la colpa dei disagi che stiamo subendo a De Magistris. E, per carità di buddha, smettiamo di insinuare che è interista! Sono colpi bassi, veramente meschini... Giggino è l'unica speranza di questa città, ma bisogna avere fede in lui, come ne abbiamo avuta in Maradona. Insieme, caricandoci sulle spalle ognuno la sua piccola, personale croce, possiamo provare a cambiare questa palude di corruzione, indifferenza e abbandono, e traformarla in una città di cui andare veramente fieri. Ma se pensiamo di farlo comodamente a casa nostra ci illudiamo. Per aspera ad astra. No pain, no gain. La rivoluzione non è un pranzo di gala.

mercoledì 7 dicembre 2011

Il gioco più bello del mondo


 Di ritorno da una serata trascorsa al pub Penny Black, in via Enrico Alvino, per seguire l'ultima e decisiva partita del girone di qualificazione di Champions League del Napoli, mi pare doveroso scrivere poche righe celebratorie. Mi accorgo con disappunto di non avere niente da bere in casa, per chiudere in bellezza la serata; una serata in cui ciò che ho bevuto passa comunque in secondo piano, perchè è di Napoli che mi sono ubriacato.

Brutta, la partita, a dire il vero, almeno per buona parte. Napoli contratto, Villareal orgoglioso e sportivo, deciso a onorare il campo, come è giusto che sia. C'è molto in palio, e si vede. Primo tempo inguardabile, si soffre insieme agli undici in campo. La birra, gli snack al pollo, l'eccellente panino consumato sono un magro contentino. I bei volti di fanciulla che costellano l'ambiente sono una tetra (si spera non profetica) allegoria della speranza delusa, dell'aspettativa frustrata, di ciò che sarebbepotuto essere, e come sarebbe stato bello se, eppure...

Eppure ci sono ancora 45 minuti da giocare, e ne abbiamo di forze da spendere, e soprattutto voglia di vincere. Il sottomarino giallo ormai ha tirato dentro il periscopio, è andato in immersione e ormai pensa solo a difendersi. Il campo è nostro, lo inonda l'azzurro delle nostre maglie, il frastuono del nostro disordinato amore, il calore asfissiante dei nostri sogni. Si potrebbero fare forse analisi tecnico-tattiche, ma chi ne ha voglia, adesso? Ciò che io ho intravisto, attraverso i fumi di un desiderio smodato di vittoria, è stato un leone ferito che ha improvvisamente alzato la testa e aggredito la preda con una zampata terrificante; e poi la calma serafica, assolutamente incongrua con il contesto,  del solito vecchio volpone (eppure non è che un giovanotto pressochè imberbe) che dopo tre quarti di gara in sordina riesce, come spesso capita, a trovarsi nel posto giusto al momento giusto, e a trasformare una deviazione casuale in oro.

Il resto è tripudio. La consapevolezza di aver avuto la meglio su un rivale molto più attrezzato di noi per il passaggio del turno; la soddisfazione nel sentire i giornalisti di Mediaset Premium parlare finalmente di noi come una realtà con la quale TUTTI devono fare i conti. E, perdonatemi se vi sembra che io stia esagerando, l'orgoglio di essere un figlio di questa città e questi colori, perchè il calcio è qualcosa che trascende il rettangolo verde. Vittima di una minorità della quale è responsabile una storia scellerata, certo non io o chi mi è caro, stasera mi prendo il lusso di sentirmi vicente, per una volta. Faccio "ciao ciao" con la manina a sceicchi e affini, e come il proverbiale zappatore mi autoinvito alla festa e ballo pure io (sì, questa analogia l'ho già usata, si vede che mi piace...). 

Getto un'altra occhiata a quei bei volti di fanciulla, che di solito mi appaiono tanto crudeli (tali paiono le donne a chi è solo, come notavano Jim Morrison e Giacomo Leopardi), e non mi sembrano più tanto alieni. Stasera nulla è altro da me, lo spirito di comunione ispirato dall'evento sportivo ha inondato l'intero locale. Tra i crolli strutturali di una vita che cade a pezzi, le picconate di una manovra finanziaria che non lascerà niente del paese che è stato l'Italia, e gli shakespeariani strali della sorte avversa, si intravede un barlume di speranza. E tutto questo per una partita di calcio... Signore e signori, di questo è capace il pallone. Ho imparato la grammatica dei sogni guardando Maradona, Giordano, Bagni, Careca, e continuo a sognare oggi con il Matador, il Pocho, Maggio, Inler... Nel mezzo la vita; contenuta nella forma perfetta di una sfera di cuoio.

sabato 12 novembre 2011

Il furbacchione, la gamba in cancrena e l'autorevole primario.


 Ultimamente mi si da del disfattista e del guastafeste; capirete, quando la vita ti ha abituato a vedere la fregatura in ogni evento, in ogni situazione, in ogni aspetto dell'esperienza umana, tendi a condividere le lezioni apprese. Anche in questo caso, non posso proprio esimermi.

Pare che l'Italietta nella quale abbiamo la disgrazia di vivere sia tutta in subbuglio a causa delle recentissime dimissioni di Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio. Dando per scontato, peraltro, che la fine di questa particolare legislatura coinciderà con il capolinea dell'avventura politica del Cavaliere, milioni di persone si preparano a festeggiare un evento che aprirà la strada al governo delle banche e della finanza, ovvero ai responsabili della crisi finanziaria ed economica che ha seriamente ridimensionato lo sviluppo e il tenore di vita di tutti i popoli europei negli ultimi anni. Vorrei poter gioire per la fine del governo dell'uomo che fino a ieri incarnava il male assoluto nella politica italiana. Vorrei, ma non posso. A malincuore, devo prendere atto che oggi c'è qualcosa di peggio sulla scena.

Lungi da me voler sminuire le colpe di Berlusconi, che ritengo, per citare il titolo di un famoso articolo di una pubblicazione "comunista", "unfit to rule Italy". E non è il caso di stare a enumerare i peccati di Mr B, anche perchè si svierebbe questo post dal suo naturale corso. L'uomo di Arcore è stato forse il peggior flagello che si sia mai abbattuto sulla politica italiana dai tempi del Ventennio. Ma temo che non manterrà questo triste primato per molto, e proverò a spiegarvi perchè.

Pur con tutte le sue pecche e la sua lampante incompatibilità con qualsiasi concetto di democrazia, Berlusconi è stato scelto dagli Italiani attraverso una consultazione elettorale. Ha fatto gli interessi delle classi sociali che lo hanno espresso in modo discreto, se non addirittura egregio, per certi aspetti. Pensate anche solo alla depenalizzazione del falso in bilancio. Questo tipo di rappresentanza mostra naturalmente un ovvio travisamento del concetto di democrazia; ma è esattamente questo che chiedeva l'elettorato di centro-destra nel nostro paese, e Silvio (meno male che Silvio c'è!) l'ha accontentato nel modo più diretto ed efficace. Per la persona di destra, Berlusconi è il pragmatismo all'ennesima potenza, l'efficienza. Sconfiggere Berlusconi alle urne avrebbe voluto dire che quell'Italia gretta, egoista, furba e strafottente, l'Italia del not in my backyard, se mi consentite un'espressione anglosassone, era diventata minoritaria. Questo non è successo. Non poteva succedere, poichè un'Italia diversa o non esiste, o è numericamente trascurabile, o non ha mai trovato voce all'interno dell'arco costituzionale. 

Stasera Berlusconi si dimette, ma non da sconfitto. In questo momento lui è il generale che accetta l'armistizio per riorganizzarsi e valutare la possibilità di sferrare un ulteriore attacco. L'alternativa a Berlusconi, difatti, non è politica; è un signore dall'aria distinta che, a detta di tutti gli analisti più gettonati e più noti al grande pubblico, è "molto autorevole". E io comincio già a tremare all'aggettivo "autorevole". Penso alla crescente incertezza del nostro futuro, penso a come si sta trasformando il mondo attorno a me, e mi vengono in mente parole come "fratellanza", "solidarietà", "cooperazione", "mutuo soccorso". Non "autorevolezza". Non credo sia quella la ricetta per guarire i mali di questo paese e del nostro vecchio continente, economici e non. L'autorevolezza si richiede a colui che ha il privilegio di dire l'ultima parola, di decidere cosa fare e cosa non fare, e come. Immaginate un medico al capezzale di un malato grave. Immaginate che decida di amputargli un arto, perchè curarne la cancrena costa troppo. E perchè magari quel medico vende stampelle o sedie a rotelle. In che modo gioverebbe la sua autorevolezza al malato? E ora immaginate che quel medico sia stato imposto al paziente e ai suoi familiari. Quel medico è mario Monti. Distinto, autorevole, come un primario che non ci pensa due volte prima di segare via una gamba. Una figura severa e disumanizzata che farà capolino in una parentesi tragica e tetra della vostra vita, per uscirne poco dopo con il portafoglio pesante e la coscienza (ammesso che ne abbia una) leggera.

Se volete capire chi è Mario Monti, vi basterà fare una breve ricerca online. In due parole, è la voce delle istituzioni finanziarie che governano - o provano a governare - il capitalismo. Non ha bisogno di convincervi come deve fare necessariamente un politico, che ha bisogno del vostro voto. Non ha bisogno di giustificare il suo operato, perchè quello che formerà sarà un governo tecnico, non politico. Lui non ha alcun mandato. Pardon, ho detto un'eresia. Il giorno che questo distinto signore dall'aria garbata prenderà un provvedimento minimamente in contrasto con gli interessi dei tanti Shylock del mondo (e mo' dite che sono antisemita, jà!), il suo telefono squillerà. E arriverà la cazziata. Cordiale, garbata, quasi  non sembrerà un rimprovero. Fra di loro pare che comunichino così, questi colti, raffinati vampiri. Il conte Dracula, del resto, era forse meno urbano? Ciò che conta è che, se a Mario Monti venisse in mente di avere la mano un po' meno ferma del dovuto nel fare a pezzi il suo popolo, i suoi amici dal vestiario e dai modi inappuntabili lo richiamerebbero all'ordine.

Questo, purtroppo, è inevitabile. Non ho paura di Monti e della sua teapia d'urto, perchè non può più essere evitata. Aspetto il colpo che arriverà fra capo e collo come il condannato a morte ormai rassegnato al suo destino. Un'altra cosa mi fa paura: che, dopo un periodo di austerità probabilmente senza precedenti nella nostra storia repubblicana, il furbacchione torni a riscuotere il suo credito di malcontento e rabbia. E a tramutare la confusione, la paura, il desiderio di una via d'uscita generati dalla cura Monti in voti.

Per questo stasera non festeggerò. Continuerò a vivere come ho sempre fatto, coltivando le mie idee, i miei valori, la mia umanità, pur sapendo che saranno ancora perdenti nell'Italia di domani, e probabilmente in quella di dopodomani. Sarò alla mercè di dottori che mi tagliuzzeranno pezzo dopo pezzo. Spero solo che il cervello e il cuore li lascino per ultimi. Buonanotte.

giovedì 3 novembre 2011

Il soldo che manca sempre per fare la lira

 

Cari lettori, si torna a parlare del Napoli. Non lo abbiamo fatto dopo l'ignominiosa sconfitta di Chievo, o quella ancor più sconcertante, in casa con il Parma, nè quella contro il Cagliari Non lo abbiamo fatto per via di quel benedetto turnover che tanto è stato criticato per il modo poco giudizioso in cui lo avrebbe fatto Walter Mazzarri. Un turnover prontamente additato come responsabile di ogni male della compagine azzurra, e a ragione, vista la qualità espressa dalle seconde linee. Turnover, del resto, dettato dall'esigenza di affrontare al meglio la Champions League, dalla quale il presidente De Laurentiis non fa mistero di voler spremere fino all'ultimo euro umanamente possibile. Bene, e allora parliamo di Champions League.


Ieri sera il Napoli ha affrontato una squadra di livello internazionale, nello stadio di quest'ultima. Dovendo trarre un bilancio, direi che abbiamo assistito a una prestazione di grandissimo vigore agonistico, ma il risultato, se dobbiamo essere onesti, non è mai stato in discussione. Semmai quell'unico gol di scarto è uno score bugiardo, perchè non riflette la realtà di un Bayern che ha fatto praticamente quel che voleva, ha tagliato la nostra difesa come burro, ha gestito il risultato giocando al torello; solo una straordinaria rincorsa di De Sanctiis con scivolata finale ha potuto evitare il quarto gol in finale di partita.

Intendiamoci, noi dobbiamo essere contenti della gara del Napoli, perchè si è battuto con grinta e forza di volontà da calcio di altri tempi cntro un avversario nettamente superiore. Ma può bastarci, questo? E soprattutto vale la pena di risparmiare i nostri giocatori migliori in campionato per una competizione nella quale non possiamo recitare che un ruolo da comparse? Con quali energie andremo a Torino, a giocare contro la principale candidata per lo scudetto? Tutte domande che andrebbero poste all'empio cazzaro, per il quale il mio odio è ormai incommensurabile e tale che solo la morte violenta e dolorosa di quell'imbonitore impomatato da quattro soldi potrebbe darmi pace.

Ma bando all'emotività, cerchiamo di ragionare. Lasciando il pub in cui ho visto la partita con alcuni amici, ho sentito un'atmosfera positiva, quasi di soddisfazione. Questo mi preoccupa. Si tratta di un discorso che va anche al di là del calcio, di quel complesso di inferiorità inconsciamente presente in ogni napoletano, che lo porta ad accontentarsi di poco. Che lo porta ad aspettarsi poco. Non ci prendiamo in giro, non facciamoci ingannare da quell'unico gol di scarto: ieri il Napoli ha dato il 120% solo per perdere con dignità. Ha trovato due gol su palla inattiva (il secondo dei quali una prodezza forse irripetibile da parte dell'autore), perchè su azione manovrata non ha creato praticamente niente. Ha dimostrato un eccellente valore atletico e agonistico, ma anche dei chiarissimi limiti tecnici e tattici, legati alla mancanza di alternative. Tanto per dirne una, se avessimo avuto in panchina un giocatore in grado di sostituire il mediocre Cavani visto nelle ultime partite, il mister l'avrebbe probabilmente schierato. Cosa possiamo rimproverare ai nostri ragazzi? Assolutamente niente. Parafrasando Luca Cupiello, ce la dobbiamo pigliare con Don Aurelio: il nemico della casa, il nemico dei figli, il nemico mio!!!

Il soldo che manca per fare la lira, per consentire al Napoli di gestire contemporaneamente e con profitto Campionato e Champions, di vincere qualche partita, ogni tanto, senza provocare cardiopatie ai suoi tifosi, lo dave cacciare De Laurentiis. Nel grande calcio il Napoli merita di essere non già un occasionale avventore, ma un ospite fisso. Per fare questo, però, c'è bisogno di grossi investimenti. Se non arriveranno non vinceremo mai niente, e saremo costretti ad accontentarci di perdere più o meno bene. Il gesto atletico di De Sanctis che caccia la palla dalla porta dopo una rincorsa di una cinquantina di metri simboleggia perfettamente il presente della nostra squadra. Entusiasmante, non c'è dubbio, perfino esaltante. Ma nelle grosse squadre i portieri sono abituati ad altri gesti, meno eroici e  più composti: alzare i pugni al cielo per esultare, e poco più. Quando Morgan De Sanctiis si annoierà in porta, il Napoli sarà diventato una grande squadra. Ma per fare questo, ahimè, temo che dovremo aspettare la dipartita del cine-furbacchione dalla presidenza del Napoli o, ancora meglio, dal suo guscio mortale. Nel frattempo, non possiamo fare altro che ripetere l'inutile mantra spend the money.

sabato 22 ottobre 2011

Vivere in uno stadio


Signore e signori, buonasera. Mi dite che è ancora giorno? Da un punto di vista strettamente astronomico, può darsi. Ma per questo paese è notte fonda. L'argomento di cui vorrei parlarvi oggi è l'estrema faziosità del popolo italiano. Così estrema da precludere qualsiasi possibilità di reale dialogo, di vero confronto. Noi siamo tifosi intrappolati in uno stadio. La nostra identità si risolve per buona parte nei colori che portiamo, nella curva in cui ci stringiamo ai nostri compagni di tifo.

Ho scelto come foto introduttiva del post la curva dell'Hellas Verona perchè ritengo quella tifoseria e quell'ambiente, più in generale, un perfetto esempio di faziosità indifendibile. Avrete sentito e letto del vergognoso coro razzista intonato in occasione della presentazione della squadra dal suo allenatore Andrea Mandorlini, subito seguito dalla tifoseria e dai suoi giocatori. Ecco, il fatto che non solo gli ultrà, protetti dall'anonimato e mossi da dinamiche tipiche degli eventi e movimenti di massa; ma addirittura l'allenatore, i giocatori, lo staff di quella società abbiano pensato di poter cantare "terrone ti amo" e non essere travolti da virulente polemiche è indicativo dell'assoluta mancanza di oggettività e senso del fair play. Che queste persone nemmeno si rendessero conto dell'inaccettabilità di ciò che facevano è dimostrato dalla reazione sorpresa di Mandorlini alle accuse di razzismo.

Giorni fa leggevo di un'indagine della magistratura sul nuovo stadio della Juve, che pare sia stato costruito con materiali  non conformi alle norme. La notizia era stata condivisa da un amico su Facebook, e prontamente due o tre persone avevano lasciato commenti che in un paese normale li avrebbero messi ipso facto fuori dal consesso civile, e invece in Italia passano per ragionamenti pertinenti e arguti. I magistrati ce l'hanno con la Juve, si riapre la ferita di Calciopoli e via dicendo. Chissà se la ditta (o le ditte) coinvolte si sono preoccupate del destino della povera Vecchia Signora, qualora fossero venute alla luce le loro magagne. Viene da chiedersi anche per quale squadra tifassero i costruttori delle case di sabbia dell'Aquila. Questo, sempre perchè viviamo in una curva da stadio; altrimenti penseremmo che un illecito è un illecito, non c'entra niente con la squadra del cuore, o con la fazione politica di riferimento. Naturalmente la magistratura valuterà se esistano le condizioni per istruire un processo o prendere altre misure repressive o restrittive. Nel frattempo il sindaco Fassino si è attivato per assicurare che la squadra possa continuare a giocare in uno stadio che potrebbe avere serie debolezze strutturali.

Sempre all'interno di questa logica possiamo leggere la reazione mediatica e d'opinione ai fatti di Roma, in particolare alle gesta di quello che è diventato un'icona di questa epoca di confusione e generico malessere: Fabrizio Filippi, in arte er pelliccia. Io non guardo quasi mai la televisione. Ormai la accendo solo per le partite di calcio o il Sei Nazioni. Qualche volta Santoro, che però ritengo prigioniero di un format (peraltro lanciato proprio da lui molti anni fa con Samarcanda) che rende praticamente impossibile lo svolgimento di un dibattito serio e maturo. Sì, Santoro ha capito che l'Italia era uno stadio, e si è inventato un brillante modello di trasmissione "di approfondimento politico" che incanala proprio le dinamiche più care agli italiani. Quello che mi arriva, della TV italiana, mi arriva tramite Facebook. 
E proprio tramite un link ho avuto modo di assistere a uno spezzone di una trasmissione Mediaset, mi pare, con un conduttore assurdamente incompetente, in cui da una parte erano schierati Landini, Bernocchi e Ferrero, dall'altra Sallusti. 
Presto il dibattito è degenerato, e dall'estintore scagliato dal Filippi si è passati a discutere di un altro estintore, questo mai lanciato, perchè colui che lo brandiva fu raggiunto da un proiettile alla testa. Parlo naturalmente di Carlo Giuliani, l'uccisione del quale Alessandro Sallusti è arrivato non solo a giustificare ma addirittura a elogiare. Ovvio che a quel punto confrontarsi è diventato impossibile, e la trasmissione è degenerata in una rissa verbale.

Ma l'esempio più eclatante della nostra faziosità negli ultimi tempi è, a mio parere, la risposta della Rete al linciaggio di Muammar Gheddafi.
Gira una foto, condivisa da un numero di persone rispettabilissimo, che recita nel titolo "perchè abbiamo ucciso Gheddafi". Sarebbe il caso di puntualizzare che Gheddafi non lo abbiamo ucciso noi, a meno che l'autore dell'immagine non si identifichi nei ribelli che hanno sparato all'ex leader libico. C'è poi una notizia, assolutamente non corroborata da alcuna fonte, secondo cui Gheddafi sarebbe stato ucciso perchè stava cercando di liberare l'Africa (insieme ad altri simpaticoni identificati vagamente come "capi di stato del Nord Africa") dalla dittatura economica del FMI. Anche le rivoluzioni colorate di Egitto e Tunisia sarebbero dunque da inquadrare in una grande offensiva delle forze oscure del capitalismo per stroncare sul nascere una nuova stagione di socialismo islamico. 
Bene, adesso proviamo a guardare in faccia la realtà. Per quanto riguarda Egitto e Tunisia, abbiamo assistito a mobilitazioni di massa, centinaia di migliaia di persone scese in piazza anche a rischio di farsi sparare addosso. Insomma, non certo uno dei raduni anticastristi di Miami a cui partecipano quattro gatti sotto l'egida praticamente esplicita della CIA. 
In Libia Gheddafi governava da circa quarant'anni, durante i quali è riuscito a mantenere il suo popolo in un tale stato di arretratezza da ritrovarsi impantanato in una guerra civile di tipo tribale. Certo, c'erano elementi di socialismo nell'architettura economica e sociale della sua Libia; ma se in 40 anni di governo ininterrotto non riesci a cementare il tuo popolo, a farlo sentire partecipe di un unico destino, affratellato dalla convivenza e dalla condivisione di una lingua, una cultura, e un senso di appartenenza alla stessa comunità nazionale, allora il tuo è la schifezza del socialismo.
La guerra in Libia è scoppiata prima dell'intervento delle potenze occidentali, quando Gheddafi ha iniziato a bombardare una delle città del suo paese. Questa è la realtà. Fin quando il Colonnello ha avuto la situazione sotto controllo, i leader europei si sono guardati bene dall'andare a svegliare il proverbiale can che dorme. Bastava che ci vendesse il suo petrolio. Certo, siamo intervenuti per quello, non per difendere gli insorti di Misurata. Ma perdonatemi, trovo un po' di incoerenza nel fatto di criticare aspramente (e giustamente) il nostro Presidente del Consiglio per come si rapporta al genere femminile  e poi elogiare un cavernicolo che si presenta a Roma con tanto di amazzoni al seguito, e si fa procurare uno stuolo di belle ragazze dall'amico erotomane; indignarsi per la censura che il nostro governo prova ad attuare contro la Rete, e poi fare agiografia di un uomo che risponde al dissenso con le cannonate.


Insomma, siamo prigionieri di logiche di sterile contrapposizione. Sarebbe il caso di riflettere sul fatto che pochissimi uomini, nel corso della storia, sono stati in grado di prevedere dove andava il futuro. Non parlo di divinazione, naturalmente, ma della capacità di capire come si evolve una società, un sistema economico, un dibattito culturale e politico; questo perchè il futuro arriva quasi sempre da una direzione imprevista. Rimanere intrappolati in un noi contro loro è inutile e controproducente, perchè l'avvenire, qualsiasi esso sia, sarà lo stesso per tutti. E allora mi chiedo perchè non smettere di essere spettatori di partite in cui non abbiamo niente da vincere o perdere, e uscire da questo stadio che è l'eterno presente in cui ci hanno chiusi.

lunedì 17 ottobre 2011

Fantozzi, Folagra e il sanpietrino


Ieri ho pubblicato un post in cui facevo notare quanto fosse assurdo, all'indomani di una manifestazione come quella di due giorni fa, insistere solo e ossessivamente sugli incidenti causati da poche centinaia di persone, a fronte di una marea di gente che è sfilata in modo ordinato e composto. Facevo notare come quelle violenze sporadiche e circoscritte fossero poca cosa in confronto alla violenza sistematica di un sistema economico che ormai ha gettato la maschera e si dichiara per quello che è, ovvero il più sofisticato e spietato piano criminale nella storia del genere umano. Proprio in virtù del fatto che i nodi stanno venendo al pettine, un numero sempre crescente di persone sta cominciando a rendersi conto che c'è qualcosa di seriamente disfunzionale nel nostro modo di vivere. Il malessere che fino a poco tempo fa riusciva difficile da identificare e spingeva persone sole e confuse verso soluzioni individuali come la New Age, le religioni orientali o i molto più banali e tradizionali droghe e alcol, oggi sta assumendo contorni un po' più precisi. Come tutti i sistemi che l'hanno preceduto, il capitalismo è entrato in un fase di declino, che inevitabilmente si concluderà con la sua trasformazione in qualcosa di diverso.

Naturalmente, come è sempre avvenuto nella storia, le classi dominanti non stanno a guardare mentre i fondamenti della loro supremazia vengono messi in pericolo. Siccome il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza che chiamiamo "capitalismo" è fondato, perlomeno nella sua variante occidentale, sul consenso popolare (per quanto estorto con raffinate tecniche di disinformazione e distorsione dei dati reali), può resistere solo nella misura in cui mantiene un minimo di credibilità presso l'opinione pubblica. Nel momento in cui il proverbiale "uomo della strada" arriva a pensare che un dato ordine socioeconomico non solo non è il migliore possibile, ma neanche il male minore, per il capitalismo è finita. Semplice. La chiave di volta del cambiamento - sembrerà prosaico ma è così - è la classe media. 

Questo lo sanno bene i giornalisti, il cui mestiere consiste proprio nell'orientare l'opinione pubblica e, in una fase come questa, soprattutto il dissenso. Nell'instradarlo su binari morti. Significativo, ad esempio, che chiunque metta in luce la sostanziale identità di posizioni fra centro-destra e centro-sinistra venga tacciato di qualunquismo. Non si portano argomenti per confutare l'affermazione (del resto non ce ne sono), ci si limita a screditare chi ha prodotto l'enunciato. A questo proposito fa d'uopo riconoscere il merito del marchese Fulvio Abbate, che dalla sua Teledurruti ha fatto coraggiosa professione di qualunquismo, ricordandoci l'assenza e il susseguente silenzio del centro-sinistra rispetto alle ragioni del 15 ottobre, e concludendo che sono tutti - cito a memoria - dei "burocrati di merda". E se entra in crisi l'illusione della rappresentanza sono cazzi per tutti.

Molti altri, purtroppo, hanno seguito ingenuamente un altro tipo di dinamica. Sfortunatamente, proprio il tipo di dinamica che i mezzi di comunicazione "ufficiali" si sono sforzati di innescare e alimentare. Una dinamica che è a mio giudizio meravigliosamente esemplificata da una delle disavventure più pregne di senso filosofico e politico del rag. Fantozzi: il suo incontro con il Folagra, e la conseguente adesione all'ideologia e alle prassi della sinistra extraparlamentare, così come si esplicavano nei tardi anni Settanta.




Folagra è un comunista di quelli vecchio stampo, dalla folta barba, l'espressione intrisa di amarezza e il linguaggio praticamente incomprensibile, al limite del grammelot. Illuminato dall'incontro con lui, Fantozzi si dedica per tre mesi a "letture maledette", fino a rendersi conto di essere stato sempre sfruttato dalla megaditta, come qualsiasi altro lavoratore del mondo. Il povero ragioniere "si incazza come una bestia"; ma che fare? E' stato proprio il Folagra a indicargli uno sbocco per tutta la sua rabbia, in un farraginoso discorso che ha concluso affermando: "è a monte che dobbiamo distruggere." 

Quello che segue è una delle scene più amare e patetiche (e al contempo ciniche e sarcastiche) di tutta la saga cinematografica. Fantozzi va al lavoro con un sanpietrino avvolto in un foglio di giornale, e dopo aver fatto tragica professione del suo status di vittima scaglia il rudimentale proiettile contro una finestra della sede aziendale. Immediatamente tutti i colleghi si dileguano, e il Megadirettore spunta  come una sorta di apparizione soprannaturale, dietro la vetrata dell'ingresso. Fantozzi viene quindi portato nell'ufficio del dirigente, per subire un clamoroso lavaggio del cervello che alla fine lo vedrà supplicare il suo aguzzino di lasciargli fare la parte della triglia nel suo  acquario dei dipendenti.

Come può Fantozzi distruggere a monte, armato di un semplice sanpietrino? La sua non può essere che un'espressione di forte disagio, non certo un gesto rivoluzionario. Fornisce al padrone il pretesto per colpire in lui il dissenso, e aliena le potenziali simpatie dei colleghi. Questo è uno script che ha caratterizzato tutta la storia della sinistra antagonista italiana, e che l'ha messa essenzialmente in fuorigioco insieme alle sue posizioni, anche quelle giuste e condivisibili. Lo stesso che vediamo in azione in un'intervista a un "black bloc" pubblicata oggi da Repubblica, giornale chiaramente dedito a demonizzare le anime più radicali del multiforme dissenso che sta attraversando il nostro paese. Lo fece il 14 dicembre scorso con un memorabile editoriale di Don Saviano, e lo ha fatto di nuovo in occasione del 15 ottobre. Se, dopo aver letto le farneticazioni di questo idiota, io ne auspicavo mentalmente l'imminente arresto con la conseguente neutralizzazione del pericolo che chiaramente rappresenta per la collettività, figuriamoci un moderato.

Le auto e le camionette bruciate, le vetrine delle banche sfondate, e tutti gli altri danni fatti a Roma l'altro ieri sono come il sanpietrino di Fantozzi: servono solo a danneggiare le giuste idee e istanze di chi è sceso in piazza per costruire un'alternativa all'esistente, non per giocare a fare la guerra. C'è però una differenza: Fantozzi almeno era a volto scoperto. Lui ha commesso un gesto prometeico, per quanto patetico nella sua inefficacia. I deficienti di Roma no. Loro hanno seguito l'antica strategia dello scagliare la pietra e nascondere la manina. Alla fine tanto, loro lo sanno, chi ci rimette le penne sono gli altri, i più ingenui, quelli che non hanno capito che si fa per giocare. Folagra parla di distruggere a monte; ma poi è Fantozzi che lancia il sanpietrino e subisce la repressione. E allora io suggerirei a tutti i Fantozzi come me (e siamo tanti) di lasciar perdere i Folagra (che sono pochi) , e pensare a come si possa agire per smettere di essere vittime.

domenica 16 ottobre 2011

Il cane, la catena e il morso

Immaginate un cane perennemente legato a una pesante catena di metallo; immaginate un padrone che lo maltratti sistematicamente, picchiandolo, affamandolo, gridandogli contro, lasciandolo fuori al freddo, alla pioggia, negandogli ogni conforto. Immaginate che però questo cane si sia per qualche ragione convinto che sia normale tutto questo. In quanto cane, questo è il suo destino. Accetta la sua dura sorte con pacifica rassegnazione, e prova perfino gratitudine quando il padrone gli tira un osso da spolpare, di tanto in tanto.

Poi, a un certo punto, e per ragioni che il cane non riesce a comprendere, la situazione peggiora. Il padrone non gli tira più neanche più quello sporadico osso da spolpare, ma se lo tiene per sè. Non lo porta più a spasso, a fare i suoi bisogni, è tutto preso dai suoi problemi, dei quali il cane può solo cercare di indovinare la natura. Un giorno il padrone esce in giardino e sottrae al cane la sua ciotola, con quello poco di cibo che c'è dentro. Il cane ormai ne ha abbastanza, e lo morde. Non è un morso di quelli che ti staccano le dita, è solo una reazione di rabbia, un leggero stringersi delle fauci che il padrone sente appena.

Immaginate che, il giorno dopo, il vicinato non parli che di quel morso, e della ferocia del cane che se ne è reso responsabile. Ma dov'erano i vicini fino a quel momento? Non sanno di tutte le angherie che il cane è stato costretto a subire dal padrone? Per quale motivo vedono la ferocia del cane, occasionale e senza serie conseguenze, e non la fredda, calcolata, odiosa violenza del padrone che lo ha ridotto pelle e ossa, e ne minacciava la stessa sopravvivenza? Semplice: perchè sono esseri umani, padroni di cani, e quindi portati a solidarizzare con un loro simile, piuttosto che con il cane.

Ieri a Roma si sono verificati alcuni episodi di violenza. Roba da poco, checchè ne dicano i media, rispetto alla inusitata, disumana violenza di un capitalismo che per sopravvivere non esita a mettere mano alla ciotola del cane. Se oggi leggiamo tante condanne di quella violenza (che, ben inteso, è pur sempre esecrabile), è forse perchè i nostri mezzi di comunicazione sono come il vicinato di cui sopra: sono la voce dei padroni, non dei cani.

Cerchiamo di non farci infinocchiare. La violenza di piazza è un errore perchè non produce risultati politici e perchè non può essere indirizzata verso i suoi veri obiettivi. Perchè non fa veramente male. Non perchè non sarebbe giustificato ricorrervi, contro un ordine sociale ed economico che è diventato chiaramente indifendibile. Ma rendiamoci conto che chi, dopo una mobilitazione come quella di ieri, parla del morso del cane, sta parlando nell'interesse del padrone. 


sabato 15 ottobre 2011

La sorella di Shakespeare e il fratello di Parascandolo


Cari adepti, non ricordo se vi ho già parlato della sorella di Shakespeare, questo personaggio di fantasia frutto del genio di Virginia Woolf. Calmi, perchè scappate in ogni direzione? Chi ha paura di Virginia Woolf? Insomma, ricomponetevi e prestatemi le vostre retine. La sorella di Shakespeare è, secondo la Woolf, una donna dotata delle stesse abilità e delle stesse ambizioni del fratello William. Lei, però, vive in una società che non concede spazio alle donne, se non all'interno di rigidi schemi e ruoli prestabiliti. Pertanto, lasciando Stratford-upon-Avon per Londra, la poverina si condannerebbe non solo al fallimento artistico, ma addirittura alla prostituzione o alla follia.  Che altro potrebbe fare una donna sola a Londra, alla fine del Cinquecento? C'è anche una bella canzone degli Smiths ispirata a questa figura.

Facendo un piccolo salto culturale e concettuale, passiamo da Virginia Woolf a Così parlò Bellavista, per incontrare il fratello di Parascandolo. Vi ricordate Parascandolo, il batterista che accompagnò il famoso cantante Gennarino Savastano nel suo tour di Campania, Basilicata e Puglia? Bene, suo fratello è un fruttivendolo dall'aria non troppo sveglia. Però è il fratello di Parascandolo, e questo basta per essere ospite in una trasmissione di una piccola emittente locale. 

Secondo me questi due personaggi possono essere la chiave per capire l'Italia di oggi. Noi viviamo in un paese pieno di fratelli di Parascandolo, molti dei quali sistemati in posizioni di potere e responsabilità; le sorelle di Shakespeare, d'altro canto, non scarseggiano, ma essendo tali sono condannate alla prostituzione o alla follia. 
 
Io, per esempio, sono una sorella di Shakespeare. Per la mia creatività e la mia vulcanica simpatia meriterei ben altro che una stanza tutta per me; meriterei un fottutissimo vitalizio, e lo ius primae noctis su tutte le fanciulle del regno. Ma voi che rendete omaggio in modo anche un po' eccessivo e stucchevole al papà dell'iPod e dimenticate l'inventore del cavatappi non meritate altro che il fratello di Parascandolo. Per quanto mi riguarda, prenderò alloggio al Bethlem Royal Hospital, volgarmente detto Bedlam, e mi dedicherò a questo blog ed altre amene iniziative volte ad affermare il mio genio di fronte a una totale assenza di interlocutori. Nelle pause ricreative scaglierò le mie feci contro muri di gomma o, qualora ne abbia a portata di tiro, contro i secondini. Quando ne avrete avuto abbastanza dei fratelli di Parascandolo, venitemi a prendere. Ma badate bene: non mi muovo se non mi date il vitalizio. E non dimenticate lo ius primae noctis.


venerdì 14 ottobre 2011

Non si trova mai un lanzichenecco, quando serve...




Nel 1527 l'imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V d'Asburgo, scende su Roma alla testa di un esercito di lanzichenecchi e la saccheggia. Chi erano i lanzichenecchi? Secondo Wikipedia: 

"I lanzichenecchi erano dei soldati mercenari di fanteria provenienti dalle regioni del Sacro Romano Impero, che combatterono tra la fine del XV e la fine del XVII secolo." 

E così continua l'enciclopedia libera (che ci auguriamo rimanga online in secula seculorum): 

"Il termine deriva dal tedesco Landsknecht, cioè servo della regione (Land = terra, patria + Knecht = servitore), non era raro infatti che, con l'indebolirsi dei legami di servitù feudale tipico del periodo rinascimentale gli appartenenti a quell'umile ceto sociale tentassero la fortuna aggregandosi in compagnie mercenarie, sperando di arricchirsi con la rapina e il saccheggio."

In breve, immaginate uno Scilipoti più aitante e avvezzo all'uso dell'arma bianca, fategli indossare un buffo costume dai colori sgarcianti, e otterrete un lanzichenecco. Questi opportunisti del genocidio sono stati l'ago della bilancia su molti campi di battaglia europei nel periodo rinascimentale e nella prima Età Moderna. Al soldo di un sovrano spregiudicato e ambizioso hanno devastato la Città Eterna, vi hanno seminato la peste ed altri ameni morbi, l'hanno spogliata dei suoi tesori e l'hanno infine abbandonata dopo circa un anno di scorribande e ineffabili violenze. E poi un'assenza inspiegabile durata quasi cinquecento anni. 

Cari lanzichenecchi, non so dove voi siate in questo momento, nè cosa stiate facendo. Forse sorseggiate gustose birre al frumento nei biergarten di Monaco, o accompagnate i vostri figli in uno degli asili nido pubblici e assolutamente gratuiti di Berlino. Forse, in questa epoca di pacatezza e distacco, vi siete imborghesiti. Ma ricordatevi della vostra storia, ve ne prego. Oggi come allora, l'Italia è la pattumiera morale d'Europa. Allora metteste in fuga il laido pontefice Clemente VII, con la vostra baldanza e il vostro spirito da Giamburrasca luterani e molestamente ubriachi. Fate altrettanto con Silvio Berlusconi. Come potete constatare, è la Divina Provvidenza che ve lo chiede. Noi da soli non riusciamo a liberarcene. Ogni volta che sembra stia per cadere, si compra i voti di qualche disgraziato, proprio come li comprò il papa Borgia al conclave che lo vide ascendere al soglio di Pietro. Non è forse questa una forma di simonia? Cosa devo dirvi ancora, per convincervi a scendere una seconda volta su quella città blasfema e invisa al Signore?

Affinchè non disperdiate le vostre energie convergendo su obiettivi di scarso rilievo, vi fornisco anche indicazioni precise. Ecco dove si nascondono i vostri e i nostri nemici:


Visualizzazione ingrandita della mappa

E adesso, corpo di mille bombarde, andate a prenderli, e fateli a pezzi. Roma delenda est!

domenica 9 ottobre 2011

Pezzenteria di ritorno


Qualcuno di voi avrà sentito parlare dell'analfabetismo di ritorno, quel fenomeno per il quale persone pur scolarizzate regrediscono culturalmente a causa della pigrizia intellettuale e della mancanza di interessi. A questo problema è facile ovviare, soprattutto oggi che l'accesso alla produzione culturale è facilitato (e reso più accessibile anche economicamente) dalla Rete e dalle pratiche di sharing. 

Ma vi è un altro spauracchio ad attenderci nell'ombra dei vicoli maleodoranti e loschi di questa crisi economica senza fine: la regressione a uno status sociale inferiore a quello delle famiglie in cui siamo nati; la rinuncia al prosciutto crudo; la necessità di praticare altri due o tre fori alla nostra cintura, e vivere in una costante precarietà in appartamenti di periferia condivisi con altri cinque o sei disperati come noi. Ecco cosa intendo per pezzenteria di ritorno.

Io, come credo la maggior parte di voi, ho passato la mia infanzia circondato da un'abbondanza di cose, molte delle quali superflue; ma se Voltaire non s'inganna, il superfluo è qualcosa di assolutamente necessario. Dopo aver speso questa frase da incarto dei cioccolatini, mi spiego.

Io ho sempre avuto un tetto sulla testa, e ho sempre trovato un piatto a tavola, due volte al giorno. A periodi l'ho fatto da me (possedendo le risorse economiche per farlo), più spesso lo hanno fatto per me. Sono andato a scuola, poi all'università, ho frequentato corsi di formazione, tutto nella speranza di ottenere quello che fin da bambino vedevo come un obiettivo che era sacrosanto porsi: la realizzazione professionale ed economica; e, attraverso quella, la realizzazione di altre aspirazioni, più profonde, ma che devono necessariamente poggiare sulla solidità di un reddito più o meno costante e minimamente adeguato. 

Mentre crescevo, il mondo si è trasformato. Attraverso operazioni propagandistiche e mediatiche da quattro soldi (ma più che sufficienti a convincere masse prive di informazione e consapevolezza) si è sdoganata l'idea che l'economia debba essere lasciata libera di funzionare senza interferenze, di arrivare ai suoi verdetti senza che questi vengano messi in discussione, perchè i mercati non possono sbagliare. Nel post precedente parlavo del compromesso vittoriano; mi pare che si stia ritornando a una concezione simile del vivere sociale. Molto, se non tutto, è sacrificabile in nome di uno sviluppo grottescamente asimmetrico.

Una delle prime cose ad essere sacrificate è stato il diritto al lavoro. Per un lungo periodo nella storia del capitalismo, era comunemente accettata l'idea che fosse necessario mantenere livelli accettabili di occupazione, se non altro perchè i lavoratori sono anche consumatori, e se non hanno denaro da spendere ciò che producono non potrà essere venduto. Oggi sembra che si stia prendendo una direzione diversa: il capitale non chiede più semplici consumatori, ma debitori, vacche da mungere, limoni da spremere. Come possa evolversi una dinamica di questo tipo a me personalmente sembra ovvio, ma la politica è ormai paralizzata, e la società civile è stanca, sì, incazzata, sì, ma non matura per superare questo sistema, che ormai dimostra in modo palese di non essere in grado di generare un qualsivoglia ordine che sia degno di tale nome. Del resto come meravigliarsi, se un sistema basato sull'avidità e la sopraffazione produce miserie e squilibri?

Scusate la digressione, torniamo al nostro pezzente di ritorno. Istruito, umanizzato dal suo percorso formativo (perchè uomini, a differenza che signori, non si nasce ma si diventa), si affaccia al mondo con le sue aspirazioni, i suoi bisogni, e i suoi sogni. Un fardello che ha accumulato con tempo e fatica, e al quale non rinuncia facilmente; perchè, inutile che mi diate dello snob, sa bene che il Grande Fratello, Vasco Rossi, il gossip e tutto ciò che riempie il tempo e le vite dell'italiano medio sono come gli stronzi di Carnevale: sono cacca, e per giunta fasulla. 


Ma dove si avvia questo povero fesso? I soldi non te li danno certo per la tua umanità, la tua cultura, la tua simpatia (nel senso greco della parola) nei confronti del prossimo. Te li danno nella misura in cui sei utile a determinati rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza. E, da quel punto di vista, la tua situazione è adeguatamente espressa dall'immagine di cui sopra. Il mondo, sempre per non distaccarsi da questa tanto bella metafora, è degli stronzi.

Pazienza, mi direte. Trovati una stanza in qualche fatiscente baracca e accetta la tua condizione. Eh, no. Non è così facile. Perchè non è solo al prosciutto crudo che devi rinunciare. Devi rinunciare alla possibilità di tenere insieme le fila della tua vita. Devi assistere impotente alla diaspora di amici e conoscenti, colpevoli solo di un "peccato di latitudine". Devi subire la precarietà non solo del tuo lavoro e del tuo salario, ma delle relazioni umane che sono inevitabilmente condizionate dai rapporti economici. Devi subire lo scippo di ogni potere su te stesso, se non quello di una irriducibile quanto inane libertà di pensiero. Sei come lo schiavo nelle proverbiali piantagioni di cotone prima della Guerra Civile Americana: cantatelo quanto vuoi, questo blues che è la tua dimensione interiore. Alla fine non è che la colonna sonora della tua cattività. Non vedrai mai Miss Liza, nè il Mississipi...

giovedì 6 ottobre 2011

William Godwin, l'arcivescovo di Canterbury, Steve Jobs e...tua mamma.


Vi assicuro, cari amici, non mancano nella mia vita motivi di tristezza e rammarico. Ed è con invidia che prendo atto della valanga di post e link dedicati stamattina su Facebook alla morte di Steve Jobs. Sì, invidia, perchè se queste persone riescono ad essere dispiaciute per la morte di un completo estraneo vuol dire che le loro vite sono quello che in inglese si chiama un bed of roses. Tutte rose e fiori. Talmente prive di dolore da creare il bisogno di provarne per la scomparsa di una persona che non hanno mai conosciuto. Vale la pena a questo punto distinguere fra quelli che hanno voluto ricordarne il lavoro (sicuramente importante) e quelli che invece l'hanno ricordato come se fosse morto un loro caro.

Potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma forse sarà meglio ricordare che il rapporto fra noi persone qualsiasi e le celebrità come Steve Jobs è un rapporto fortemente asimmetrico: se io vedo Maradona per strada lo riconoscerò immediatamente e sentirò un afflato di amore e lussuria nei suoi confronti, visto che sono cresciuto guardandolo giocare e farci vincere due scudetti, una Coppa Uefa e altro ancora; lui, invece, non sa chi io sia. Per lui io non rappresento niente. Scontato, certo. Ma era opportuno esplicitarlo.

Il 1793 vide la pubblicazione di un'importante quanto poco conosciuto trattato di filosofia politica, il Political Justice di William Godwin. In esso Godwin, uno dei pionieri del pensiero anarchico, individua il fondamento morale di una società equa nel libero esercizio della ragione, rifiutando qualsiasi categorizzazione di bene e male come concetti assoluti, e assumendo invece una posizione utilitarista: è buono, dal punto di vista sociale, ciò che arreca il massimo beneficio al massimo numero possibile di individui. Da qui la convinzione, che può apparire ovvia a noi, ma non lo era affatto per i suoi contemporanei, che l'organizzazione politica di una comunità debba avere come fine l'estensione dei frutti del benessere e del progresso a tutti i suoi membri. Quanto apparisse estrema questa concezione alla fine del '700 in Inghilterra (non dico in Inculandia, ma nel paese allora più progredito e più libero del mondo) è dimostrato non solo dalle violente critiche che ricevette l'opera di Godwin, ma anche dal fatto che l'epoca vittoriana, qualche decennio più tardi, avrebbe visto l'affermazione più o meno esplicita di un principio ben diverso: la povertà, il degrado, l'infelicità a cui nascevano destinate le masse di sfruttati che trasformarono la Gran Bretagna in un impero sul quale il sole non tramontava mai erano un prezzo inevitabile e tutto sommato ragionevole da pagare, in cambio di un progresso socialmente selettivo. Di solito un compromesso si raggiunge fra due parti. Il compromesso vittoriano invece è paragonabile al gesto di qualcuno che ti taglia un braccio, ma poi si giustifica dicendo che serviva per sfamare i suoi cani.

Dunque, condivisibile il pensiero di Godwin (e io lo condivido pienamente), se non che... se non che, per spiegare questa sua posizione, il filosofo inglese usa un esempio che io reputo clamorosamente infelice. Immaginate di trovarvi di fronte a una casa in fiamme, ci dice. All'interno della casa ci sono vostra madre e l'Arcivescovo di Canterbury: chi salvate? La risposta di Godwin è che la scelta moralmente più giusta è salvare l'Arcivescovo di Canterbury, in quanto più "utile" alla società nel suo complesso, e quindi meritevole di essere preposto alla nostra cara mammina. Si tratta di un pessimo esempio perchè non tiene conto delle relazioni affettive che esistono fra membri della stessa famiglia. L'uomo non vive di solo pane, nè di sole fredde idee. Per capire quella che a prima vista potrebbe sembrare un'aberrazione, dobbiamo considerare che Godwin è appartenuto a una cultura che oggi pratica il culto dello stiff upper lip, figuriamoci allora; esistono inoltre anche elementi biografici che ci fanno pensare a un uomo piuttosto cerebrale e contenuto nelle sue passioni. Meno male, quindi, che la povera madre di William non si è mai ritrovata in una casa in fiamme insieme all'Arcivescovo di Canterbury.

Oggi nessuno di noi, credo, avrebbe dubbi sulla risposta al dilemma che ho riportato. Le persone a cui vogliamo bene sono più importanti degli estranei, a prescindere dai meriti di questi ultimi. Eppure le mie gonadi oggi sono rigonfie di innumerevoli in memoriam dedicati a questo signore che io proprio non vedo perchè dovrei piangermi. Ed è proprio quando le mie gonadi si gonfiano che sento con maggiore intensità e pathos la mancanza di un affetto nella mia vita, che regoli la pressione delle mie gonadi come una sorta di gommista dell'amore terreno...

E allora, mentre voi piangete per Steve Jobs, io dedicherò un pensiero al mio criceto e ai miei due pesci rossi scomparsi durante la mia infanzia, nessuno dei quali ha inventato il Mac o l'I-pod, ma che perlomeno hanno fatto parte della mia vita. Per quanto riguarda la mia cara mamma, starò ben attento a tenerla lontana da fiamme libere e fonti di calore.



mercoledì 5 ottobre 2011

Il Manhattan di René Ferretti


L'Italia è un bel paese. Un bel paese nel senso che è ricco di bellezze paesaggistiche, artistiche, vi si mangia e beve bene. Quello che lo rovina è la sua storia. Forse perchè, come ebbe a dire Mario Monicelli, non abbiamo mai avuto una bella rivoluzione. Dal Medio Evo ad oggi siamo andati avanti senza soluzione di continuità, sono cambiati i confini degli stati, le forme di governo, ma le strutture sociali sono rimaste profondamente arretrate. In questo paese non esiste l'individuo. Esistono famiglie, clan, gruppi di interesse. L'espressione del sè è virtualmente impossibile. 
Il singolo è costretto a operare all'interno di reti, dalle maglie strettissime, che si frappongono fra lui o lei e la collettività intesa nel senso più ampio. Mors tua, vita mea. Siamo ancora lì. Il risultato è che, se Tizio o Caio può di volta in volta beneficiare di tali dinamiche, il paese nel suo insieme ne è immensamente danneggiato, e viene annichilito in modo perentorio e spietato ogni tentativo di realizzare le proprie aspirazioni personali, di vivere secondo la propria natura e il proprio sentire. Di fare qualcosa che non sia previsto dal canovaccio secolare dell'opportunismo asservito al potere.

Del resto si tratta di un tema presente, se non centrale, nell'opera di scrittori e drammaturghi di primo piano del tardo Ottocento e Novecento, da Verga a Pirandello ed Eduardo, per citarne solo qualcuno. L'idea che per essere liberi bisogni morire è presente nel Fu Mattia Pascal, con il finto decesso inscenato dal protagonista per sfuggire a una famiglia che lo sta distruggendo, come ne Le voci di dentro, nella figura di Zi' Nicola, o nella famosa "pace senza morte" che il grande Eduardo cercava in una sua celebre poesia. Ma non si può guardare sempre dietro (un altro difetto molto italiano), la bellezza e il senso vanno ricercati anche nel presente. E quindi oggi parleremo di quel miracolo della televisione italiana che è stato Boris.

La serie, per chi non la conoscesse, è incentrata sul lavoro del regista televisivo René Ferretti e della sua squadra, alle prese con l'ingrato compito di girare fiction che vadano incontro all'inquietante gusto del pubblico televisivo italiano medio. Il set sembra una caserma, con le sue rigide gerarchie e il suo nonnismo, chi ci lavora lo fa male o di mala voglia, gli unici a mostrare un po' di entusiasmo e impegno sono in genere gli stagisti. 

Nella terza e ultima serie vediamo uno sviluppo: Renè, che fino a quel momento aveva sostanzialmente accettato di girare merda, limitandosi a salvare il salvabile, decide di provare a fare un'altra televisione. Così nasce il progetto Medical Dimension, una serie che dovrà rompere con il passato e parlare un nuovo linguaggio. Purtroppo, però, in un grottesco e geniale colpo di scena, scopriamo che questo progetto era stato avviato con il preciso intento di farlo naufragare, da parte della stessa rete televisiva che lo ha finanziato. Lo scopo era quello di dimostrare che un'altra televisione non è possibile, dando quindi licenza agli addetti ai lavori di continuare a produrre merda, mettendo a posto la coscienza con la scusa che il pubblico non desidera che quella. La coscienza di Renè, invece, è scossa, come è scossa la sua etica professionale (della quale conserva nonostante tutto qualche traccia), per non parlare del suo orgoglio e del suo entusiasmo. Ma ormai la sconfitta è inevitabile. Tutto è perduto. Tanto vale arrendersi e "sedarsi". Il dottor Cane, direttore di rete, è stato molto chiaro. E mentre gli parlava di una totale assurdità che per lui era normale amministrazione, nel suo ufficio riccamente arredato, si è concesso una digressione sul suo cocktail preferito: il Manhattan. Nel suo il dottor Cane ha sostenuto di gradire anche mezzo Lexotan, un ansiolitico piuttosto diffuso. E allora Renè decide di provarlo, evidentemente nella speranza che anche lui, dopo averlo bevuto, riesca a vedere la questione con la stessa strafottenza e totale distacco che ha riscontrato nel dirigente.

Per un po' questa pozione di confortevole infelicità funziona. Ma poi, mentre tutto introno a lui crolla, Renè scopre per caso di avere forse ritrovato il suo vecchio pesce rosso, chiamato appunto Boris, per via di un maneggio che sarebbe lungo spiegare. Parlando con lui, Renè trova una possibile soluzione a quello che ora vede come un problema, non come uno stato di fatto da accettare passivamente. Il pesce, a me almeno sembra chiaro, rappresenta la coscienza di Renè, il suo essere più intimo, un po' come il ritratto di Dorian Gray. La differenza è che, mentre il dipinto nel romanzo di Wilde invecchiava al posto del protagonista, in Boris il pesciolino viene cambiato ad ogni nuova fiction girata. Ritrovare Boris, per Renè, significa ritrovare la voglia di fare perduta. L'assalto piratesco allo yacht degli sceneggiatori nella puntata successiva è un altro esempio della grandissima creatività degli sceneggiatori (quelli veri), ed è, per quanto possa sembrare strano dire questo di una serie TV, uno statement morale e filosofico. C'è un alternativa all'amaro calice (pieno di Manhattan e Lexotan) della rinuncia a se stessi: la resistenza a oltranza, donchisciottesca se vogliamo, probabilmente destinata alla sconfitta, ma che trova in sè tutto il senso di cui ha bisogno. Alla fine della serie Renè finisce con Duccio, il suo esatto opposto per quanto riguarda l'etica del lavoro e l'approccio alla vita, nella Guardia Forestale. Li vediamo alle prese con la catalogazione di alcuni alberi nel Parco Nazionale d'Abruzzo. Duccio vorrebbe andare in capanna "a pensare", ma Renè lo richiama al suo dovere, proprio come faceva sul set. Alla fine questo meraviglioso personaggio ha perso il lavoro in cui si era ostinato a credere, ma ha conservato la sua etica, i suoi valori, diciamo la sua "anima". E questa, forse, è la battaglia che è più importante non perdere.



martedì 4 ottobre 2011

...and justice for all


Cari amici, oggi purtroppo non vi posso sollazzare con arguti motteggi e astrusi concetti sull'amore, la vita e quella grande posteggia che è la ricerca della felicità. Purtroppo ieri sera Gallo's si è trasformato da ameno luogo di sbarazzina socialità in teatro di una indignazione e di una rabbia da parte mia che molti dei presenti hanno probabilmente trovato eccessiva, e che comunque ha reso l'atmosfera un tantinello pesante. Di questo mi scuso con tutti e soprattutto con i festeggiati Simona e Mauro, ma una volta ogni tanto capita anche a me di essere scosso da emozioni e sentimenti estranei alla mia immagine pubblica da Oscar Wilde vestito da Pulcinella. 

Il motivo di cotanto scorno è stata la notizia, ricevuta in tempo reale dal nostro mescitore di ebbrezza Giacomo, della assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito nel processo d'appello per l'omicidio di Meredith Kercher. Prima di entrare nel vivo del post, vorrei ricordare chi era Meredith, e cosa le è successo.

Meredith Kercher era una studentessa inglese di 21 anni, a Perugia con il progetto Erasmus. La notte fra il 1 e il 2 novembre 2007 è stata molestata sessualmente (forse stuprata, la perizia non ha potuto darne la certezza) e accoltellata più volte alla gola e ad altre parti del corpo. La morte è avvenuta per soffocamento causato dal suo stesso sangue. I primi ad essere sospettati del delitto sono stati Sollecito e la Knox, in quanto le dichiarazioni da loro rilasciate alle forze dell'ordine prima sul posto (la casa di via Pergola 7, nel centro storico di Perugia), poi in commissariato, sono risultate subito lacunose e contraddittorie. Solo molto più tardi, dopo diversi altri interrogatori (con ulteriori contraddizioni e incongruenze, e con Amanda che ha cambiato per ben tre volte la sua versione dei fatti calunniando peraltro l'innocente Patrick Lumumba) è emersa la figura di Rudy Guede, l'ivoriano che è stato poi condannato a 16 anni con il rito abbreviato per concorso in omicidio. Fin da subito è apparsa chiara l'estrema imperizia con la quale sono state raccolte le prove scientifiche, imperizia che ha compromesso il castello accusatorio ed ha costituito il motivo centrale degli attacchi costantemente portati da buona parte dei media americani al nostro sistema poliziesco e giudiziario dal 2007 a oggi. Le uniche prove a essere risultate ammissibili e inconfutabili sono state quelle a carico di Rudy, per ovvi motivi: lui non è tornato nella casa di via Pergola, e non ha quindi avuto modo di cancellare le proprie tracce. Amanda Knox, la mattina del 2, aspettava l'apertura di un esercizio commerciale della zona per effettuare l'acquisto di alcuni prodotti per la pulizia della casa. Le perizie hanno evidenziato la presenza di tracce di sangue in uno dei bagni della casa, invisibili all'occhio nudo, appartenente sia a Meredith che ad Amanda. Lo sprovveduto Guede, al contrario, aveva addirittura dimenticato di tirare lo sciacquone dopo essere andato di corpo. Potrei continuare a tediarvi a lungo con prove, testimonianze e resoconti, ma il mio scopo con questo post non è dimostrare la colpevolezza di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Di quella sono profondamente convinto, ma ognuno di voi potrà farsi la propria idea, se vuole, informandosi altrove. Quello che vorrei fare qui è una considerazione sul rapporto fra la giustizia come valore fondante della convivenza civile e il modo in cui viene amministrata.

In un bellissimo film del 1979 che dà il titolo a questo post, Al Pacino interpreta Arthur Kirkland, un giovane avvocato che cerca di interpretare la sua professione con coscienza e senso morale. All'inizio della pellicola lo vediamo in cella, per aver aggredito fisicamente il guidice Fleming, responsabile a suo giudizio di aver condannato un suo cliente senza prove sufficienti. Dal seguito del film emerge chiaramente l'innocenza di Jeff, piccolo spacciatore accusato di omicidio per una semplice omonimia (vi dice niente?), ma il sistema (nella persona dello stesso Fleming) è sordo al suo grido di innocenza e alle iniziative di Arthur per farlo rilasciare. Potete immaginare la sorpresa di Arthur quando il giudice che aveva preso a pugni viene accusato di stupro e chiede proprio a lui di difenderlo, minacciandolo di tirar fuori una vecchia storia che gli stroncherebbe la carriera in caso di rifiuto. Mentre Arthur prepara la difesa del giudice Fleming, Jeff cerca di evadere dal carcere, dopo aver subito violenze da parte di altri detenuti, e viene ucciso da un cecchino. Il malessere di Arthur cresce esponenzialmente, e quando si rende conto della colpevolezza del suo assistito matura una decisione apparentemente folle. In una sequenza straordinaria, che valse a Pacino una candidatura all'Oscar, l'avvocato parla alla corte della discrepanza fra la giustizia come ricerca della verità e il modo effettivo di amministrare la giustizia nel sistema americano (che non è poi tanto diverso dal nostro, o da quello di qualsiasi altro paese occidentale). Tutti concordano sul fatto che gli innocenti vadano assolti e i colpevoli condannati, ma c'è un problema: entrambe le parti vogliono vincere, a prescindere dalla verità. Il PM (o procuratore distrettuale), prosegue l'avvocato Kirkland, non ha che la testimonianza della vittima, mentre dalla parte dell'imputato ci sono diversi testimoni e il prestigio che gli viene dalla sua posizione sociale e professionale. A questo punto l'uomo si sovrappone all'avvocato, e Arthur si chiede ad alta voce per quale motivo la vittima avrebbe dovuto mentire. Semplice: non esiste un motivo, perchè la vittima non ha mentito. Ed ecco il geniale colpo di scena: Arthur Kirkland punta il dito contro il suo assistito, e lo dichiara colpevole. Nell'aula non c'è più il legale di Fleming, ma un cittadino, un essere umano indignato e disgustato che si sbraccia e si accalora, rendendo la mia performance di ieri sera uno spettacolo di atarassia.


La professione di avvocato è ben remunerata, quando la si svolge con successo. Pertanto non meraviglia che attragga persone di acuto ingegno, e di notevole capacità e determinazione. L'avvocato vuole vincere, come osserva giustamente Kirkland, il suo obiettivo non è la ricerca della verità, non è la giustizia. E se si trova di fronte una pubblica accusa costretta a lavorare sulla base di prove forensi ingenuamente contaminate e in presenza di comportamenti non sempre corretti e rispettosi dei diritti dei fermati/indiziati da parte delle forze dell'ordine, il suo compito è notevolmente semplificato. E allora l'avvocato vince. E la giustizia?

 
Questa era Meredith Kercher, uccisa barbaramente a 21 anni senza neanche un motivo. Non mi interessano prove, perizie, esami del DNA e quant'altro. Mi interessa sapere chi l'ha accoltellata ed è poi fuggito via, lasciandola a soffocare mentre i suoi polmoni si riempivano di sangue. Mi interessano la verità e la giustizia.