mercoledì 27 agosto 2014

Proletariato morale

Cari, amici, dovete sapere che ormai l'unico scopo di questo blog è quello di una strenua resistenza al "comune buonsenso", una dittatura dell'diozia e del conformismo che ci porterà tutti sull'orlo del baratro, e in esso ci scaraventerà senza tanti complimenti. A meno che. A meno che non cominciamo a ribellarci. E non tanto rispetto a uno stato la cui funzione repressiva è spesso sopravvalutata, magari cercando uno sterile scontro con gli sbirri che sono tutti bastardi (ACAB!!!) quando gliene si fornisce una scusa; la liberazione comincia dalle nostre capuzzelle, infestate di pregiudizi che dell'ultimo orizzonte tanta parte al guardo escludono. Nelle parole di Bob Mould, cantante e mente creativa degli Husker Du (e scusate se è poco): la rivoluzione comincia a casa propria, preferibilmente davanti allo specchio del bagno.

Quache tempo fa scrissi un post intitolato Sfruttati al dettaglio, in cui narravo della mia afflizione nel dover seguire una trafila professionale insoddisfacente e, soprattutto, moralmente umiliante. Mo', siccome mi sono reso conto che il termine "morale" è non solo estraneo alle categorie cognitive dei più, ma anche oltremodo ostico, mi dovrò sforzare di farvelo capire. Di farvi capire, per essere più precisi, come lo intendo io.

Avete presenti quei film ambientati nel futuro in cui si mostra un'umanità post-atomica che lotta per la sopravvivenza in un mondo senza più regole? Ecco, è così che saremmo costretti a vivere se rimanessimo, per l'appunto, senza regole. Molti credono che sia la legge, con la minaccia della sanzione, a tenere in piedi l'ordine, in quanto rispetto di una serie di regole. Ma se ci riflettiamo vedremo chiaramente che il vivere civile si fonda soprattutto su regole e consuetidini non scritte. Gli esseri umani sono in grado con la stessa coerenza e costanza di infrangere regole che ritengono stupide o scritte male, e di darsene altre senza bisogno di minacciarsi a vicenda affinchè le si rispettino.Quale legge ci obbliga a metterci in fila alle casse di un supermercato? Me la fate leggere? Certo, poi c'è magari il furbo che cerca di infilarsi fra un cliente e l'altro. E il fatto che furbi di questa guisa abbiano preso il sopravvento in Italia e in Europa è, secondo il vostro fesso di riferimento, alquanto preoccupante.

La morale, spero di poter essere compreso dopo l'esempio del supermercato, è quindi nient'altro che la nostra capacità di convivere senza danneggiarci a vicenda e senza dover chiamare i gendarmi ogni tre e quattro. Toglieteci la possibilità di una vita morale , e ci avrete tolto ogni spiraglio di libertà e dignità. Questa è la forma di miseria oggi predominante nel nostro paese. Il proletario dell'Inghilterra vittoriana, per fare un esempio da anglista, era sfruttato e violentato nel corpo; il nuovo proletario è sfruttato e violentato nelle sue capacità di raziocinio; al primo avevano tolto il diritto di campare; a noi, nati nell'abbondanza comprata dal sudore del proletariato classico, stanno togliendo il diritto di vivere. Per quanto si possano contrarre i nostri consumi, non moriremo di fame. Ma non saremo liberi di essere ciò che desideriamo, nè individualmente nè collettivamente. 

Diceva Sant'Agostino che chi cercava Dio non doveva allontanarsi troppo, bastava guardare dentro di sé. E io dico che chi oggi cerca il proletariato, la miseria, lo sfruttamento, non ha bisogno di andare a cercarlo nei sweatshop cinesi o centroamericani; basta guardarsi allo specchio del bagno, come diceva Bob Mould. E dare inizio alla rivoluzione morale che ci richiede questo tempo infame.

sabato 23 agosto 2014

Filosofeggiare nonostante tutto

Carissimi lettori, che siete miei simili e miei fratelli (non vi sto facendo una chiavica aggratis, mi sto sparando la posa con Baudelaire/T.S. Eliot), io ho capito perchè non mi fanno stare quieto. Se vi interessa ve lo dico. Però dovete avere la pazienza di seguirmi in un excursus filosofico da due soldi. Io non so filosofeggiare, ma è assolutamente necessario farlo. Le circostanze, quella cosa che guardata da lontano si chiama "la storia" e vista da vicino si chiama "orrore quotidiano del vivere", mi urlano in testa come una fidanzata contrariata che non possiamo più delegare nè il pensiero, nè l'azione. Le conseguenze sono nefaste. Dunque, procediamo, e speriamo di non fare troppi danni.

Quando ero bambino, pensavo come un bambino. Una cosa del genere dice Saul di Tarso, in una delle sue epistole. Poi è cresciuto e ha messo da parte l'infanzia. Giusto. Per me l'infanzia, in senso intellettuale, è coincisa con il periodo della mia vita in cui, davanti a un qualsiasi fenomeno o evento, mi chiedevo "che cos'è?"  Una volta superato questo stadio, a causa della mia sistematica incapacità di rispondere a quella domanda, ho cominciato a chiedermi "come funziona?" Scattano due riflessioni. Innanzitutto, che va riconosciuto il valore del sapere ammettere l'errore e la sconfiitta; e poi, che la domanda "come funziona" è in un certo senso più evoluta, secondo questo vostro umile servo, della domanda "che cos'è". Perchè? Semplice: perchè chi si pone questo ultimo interrogativo tende a non riuscire a rispondere (è il caso dei saggi, dei filosofi da prendere sul serio); oppure a darsi risposte frettolose e infantili.

Come mai? E qui i teisti mi devono perdonare, ma almeno uno di loro potrebbe aver già capito dove voglio andare a parare. Perchè quello che è si rivela solo ed esclusivamente in quello che accade. Non è a prescindere, per usare un'espressione che mi consenta di non rischiare di chiudere il post senza aver citato neanche una volta uno dei maestri che mi hanno insegnato a ridere. Dunque, è dalla realtà esperibile, da quello che i filosofi con la barba chiamano il divenire, che devono essere evinte le coordinate, diciamo così, dell'essere. "Il sonno della ragione genera mostri!" odo uno scalmanato gridare dal loggione. Sissignore; ma anche far lavorare la ragione su rappresentazioni astruse, senza farla confrontare con un'esperienza quanto è più possibile immediata dei fatti, può generare cose abbastanza sgradevoli. Questo succede, e spesso, quando si cerca con un'interepretazione della realtà di confermare la propria "fede". 

"Come funziona", dicevamo. Maledetti anglosassoni. Maledetti voi e il vostro pragmatismo, il vostro common sense, la vostra naturale tendenza alla tolleranza. Mi avete contagiato e poi mi avete abbandonato in mezzo ai fanatici del "che cos'è". Sono come un vampiro mezzo cecato, vulnerabile alla luce del sole ma incapace di muoversi nelle ombre della notte. Bramo la mozzarella, la pizza, il caffè e di tanto in tanto la tarantella, vestito da Pulcinella balzo sulla scena esclamando un sonoro "uè", ma poi comincio a scorgere i neri vestimenti dei novelli Gesuiti e vorrei provare a ragionare, vorrei intavolare un discorso come se fossi salito su una di quelle pittoresche soapbox che garantiscono anche ai più eccentrici la totale immunità, non già su un palco allestito dalla Santa Inquisizione per un auto da fé di cui sono il main feature.

Potrei adesso buttare lì una frase ad effetto, come ad esempio "avete più paura voi nel pronunciare questa sentenza che io nel riceverla". Ma so benissimo, purtroppo, che i nuovi inquisitori sono atrocemente inconsapevoli della propria brutalità. E qui il post prende una piega seria, mio malgrado. Vi ricordate come vi ho chiamati prima? Non era casuale. L'unica cosa che possiamo sapere dell'essere è ciò che si manifesta nella nostra natura; la quale, con buona pace di alcuni dei miei eventuali lettori, non è un prodotto nè delle circostanze nè delle rappresentazioni che aspirano a cambiarle. Queste cose possono alterare i nostri comportamenti, ma non gli elementi essenziali della nostra natura. Che si rivela nel nostro vissuto, nelle nostre sensazioni, nella nostra felicità o infelicità, appagamento o irrequietudine, piacere o dolore. E allora quando è in gioco la convivenza fra me e mon semblable, mon frere, quel fesso del sottoscritto non si chiede "che cos'è", ma "come funziona". Nella speranza che la si smetta di arderci vivi a vicenda.

venerdì 22 agosto 2014

Le formiche, l'insetticida e gli zingari


Cari epigoni, epigrafi, poligrafici e peristaltici, buonasera. Oggi vi vorrei parlare di come spesso l'essere umano, nella sua infinita meschinità, è ben lieto di emulare il cane della saggezza popolare partenopea, ovvero di mordere sempre il pezzente. Sì, in effetti soo considerazioni abbastanza simili a quelle contenute nel post su Gomorra, la serie, ma qui proverò ad articolare in modo un po' diverso. Partiamo, come tante altre volte, dal mio vissuto personale. "Saranno cose già sentite, o scritte sopra un metro un po' stantio, ma intanto questo è mio", cantava il barbone modenese.

Dunque, c'è una categoria dello spirito che chi vive a Napoli non può assolutamente ignorare: il viecchio sul pullman. Costui ha un'idea estremamente precisa di come eliminare tutti i mali del mondo; idea che riesce brillantemente a far coincidere con l'eliminazione di tutto quanto arrechi fastidio a lui. O a lei, perchè poi c'è anche l'equivalente femminile, la vaiassa onnisciente da barricata. Non lasciatevi ingannare dal suo sermo vulgaris e dalla sua apparente sciatteria: costei ha letto tutto lo scibile umano, e si è in genere laureata alla Sorbona con una tesi sulla fenomenologia husserliana vista da una prospettiva post-femminista e post-coloniale. Dunque, questi luminari del pensiero su gomma allietano talora gli altri passeggeri con dotte disquisizioni su alcune delle cause di disagio sociale urbano. L'esito pressochè universale delle loro indagini è che ci sono troppi stranieri, in particolare neri e zingari. Guardatevi bene, se mai doveste imbattervi in menti di tale caratura, dall'osservare che a Napoli la gente di merda non è mai scarseggiata, e che il disagio sociale in questione i neri e gli zingari lo hanno trovato già bello e apparecchiato. Non sia mai doveste fare questo errore, rischiereste di dover arrivare al capolinea per chiarire la vostra posizione ed evitare conseguenze potenzialmente spiacevoli.

Taglio. Parliamo adesso di formiche. Oggi ne ho dovute eliminare alcune con l'insetticida. Mi è dispiaciuto, perchè mi sono molto simpatiche come animali. Vi assicuro che hanno una società meglio organizzata di qualsiasi società umana, e più morale. Non sto scherzando. Se una formica rifiuta la logica di solidarietà e mutuo soccorso che regge il formicaio, ne viene allontanata. Ecco perchè io ammiro le formiche, e mi dispiace doverle uccidere. Ma il fatto è che quelle mi avevano invaso la stanza, e la convivenza fra l'uomo e la formica presenta svariate controindicazioni. Non potendo persuadere gli operosi insetti a lasciarmi quello spazio, limitando le proprie scorribande al terrazzo, ho dovuto ingaggiare con loro una lotta impari. Perdonatemi, industriose amiche, per quello che vi ho fatto. Perdonatemi, dal paradiso delle mollichelle in cui non dubito che ora vi troviate.

Le formiche non parlano. Non ragionano. Gli esseri umani dovrebbero. Ma poi rischierebbero di scoprire che anche noi siamo formichine, rispetto a quella razza tignosa, quella razza che non muore mai, che nei secoli e nei millenni ha preso tanti nomi diversi e tante diverse collocazioni nelle dinamiche sociali, ma che in sostanza si contraddistingue per una semplice caratteristica: quella di vivere dell'altrui lavoro. Il re, il faraone, il feudatario, l'aristocratico, il proprietario, il padrone, il magnate... quante parole diverse per dire sempre essenzialmente la stessa cosa, e cioè che TU ti spacchi il culo per consentire a LUI di accumulare molto di più di quanto non gli sia necessario a vivere, molto di più di quanto non possa consumare. E agli esseri umani non piace constatare di essere piccoli, indifesi, insignificanti, come tante formichine.

E arriviamo finalmente al punto. Quando un evento disastroso ci colpisce, come ne sono state colpite oggi quelle povere, innocenti formiche, la colpa la diamo non a chi si strafoca i palatoni sani, mentre noi andiamo raccogliendo mollichine; non a chi è cresciuto a dismisura in ricchezza e potere, e all'occorrenza ci schiaccia facendosi meno scrupoli di queli che mi sono fatto io qualche ora fa nell'usare l''insetticida. Nossignore, so' stati i zingari. O i marocchini, o i polacchi, o chi per loro. Insomma, quelli che vengono da altri formicai. Che si tratti di una famiglia sterminata o di un attentato terroristico, la logica è esattamente la stessa. Noi da una parte, loro dall'altra. E il gigante con l'insetticida in mano, grosso com'è, puntualmente ignorato.


mercoledì 20 agosto 2014

La violenza che va contromano


L'11 settembre 2001 è uno di quei momenti in cui tutti ricordano dov'erano e cosa facevano. Io ero a casa a fare una prova di traduzione, per quella che si sarebbe rivelata la più interessante e meglio retribuita collaborazione professionale della mia vita. Si può dire dunque che l'11settembre a me portò fortuna. Ricordo che mia madre, seduta davanti alla TV, mi chiamò per dirmi che c'era stato un attentato a New York. Io guardai per qualche secondo le immagini, e a dirlo adesso sembra che vi stia raccontando una bugia, ma ebbi immediatamente una sensazione strana, come se quella fosse una scena da film, e mi venne subito il sospetto di trovarmi davanti alla Piazza Fontana statunitense. Con il passare del tempo si sono moltiplicate le tesi "complottistiche" su quell'odioso attentato (dire che Nerone appicca il fuoco a Roma non è complottista, chissà per quale motivo, visto che ai nostri governanti non verrebbe mai in mente di uccidere i loro stessi cittadini. Ma gli antichi Romani, si sa, erano depravati), e oggi si può tranquillamente dire che se non ti è mai venuto un dubbio sulla versione ufficiale o sei poco informato o soffri di qualche patologia psichica. Una delle più diffuse, e forse la peggiore di queste patologie, è quellla che porta la gente a pensare che, in un mondo plasmato da millenni di violenza organizzata, disciplinata e puntualmente giustificata e assolta da stuoli di sacerdoti, giuristi, economisti e "intellettuali" d'ogni sorta, è più probabile che la violenza venga da parte  di quattro balordi bigotti. Perchè quando uno è così miserabile e coglione da pensare che questa esecrabile macchina repressiva sia lì per difendere i quattro pidocchi che ha messo insieme industriandosi e ingegnandosi tutta una vita, e non il sistema che consente a quattro lestofanti (che belli questi vocaboli desueti e stucchevoli nel loro moralismo!) di vivere del suo industriarsi e ingegnarsi, è disposto a credere a qualsiasi cosa. E a fare qualsiasi cosa. Pure a sparare ai pezzenti (e aridaje con Eduardo!). Soprattutto a sparare ai pezzenti.

Ma ci vuole la minaccia. Quella è fondamentale. Se io mi convinco che posso convivere pacificamente con te, dopo diventa difficile che io possa accettare la violenza sistematica nei tuoi confronti. Da 2001 ad oggi i professionisti della violenza di buona parte del mondo occidentale si sono prodigati per inculcarci l'idea che i musulmani sono pericolosi per noi. Certo, che lo siano in particolare quelli che loro hanno armato e addestrato è fuor di dubbio. Ma forse anche questo è complottismo. Ed è comprensibile che molti lo giudichino tale. Se devo attraversare una strada e le auto sfrecciano, è naturale che io percepisca un pericolo. Ma - e qui casca il proverbiale asino, cari amici del Bradipo - come faccio a decidere da che parte guardare mentre attraverso? Semplice: io so che in questo paese i veicoli motorizzati tengono la destra, per cui guardo automaticamente a sinistra. E se qualcuno arriva contromano? In quel caso rischio di essere investito. Per questo io, prima di attraversare, guardo sempre da entrambi i lati.

La violenza è tale, cari i miei compagni di elucubrazione, perchè per l'appunto viola alcuni dei diritti fondamentali dell'essere umano (quello all'incolumità, alla libertà di pensiero e di espressione e vi dicendo), non perchè lo fa senza autorizzazioni e carte bollate. Dunque, un terrorista o presunto tale che decapiti un uomo (ammesso e non concesso che la decapitazione non sia l'ennesimo film di indiani e cowboy) commette un crimine atroce, ma non peggiore di chi, con tutti i crismi dell'ufficialità di chi ha un posto nell'Assemblea delle Nazioni Unite, bombarda un centro abitato o spara a sangue freddo a persone disarmate.

La strada che oggi stiamo attraversando tutti è veramente brutta. Le macchine corrono, non rallentano per nessuno e non si fermano neanche quando sentono la botta sul cofano. Si deve guardare da entrambi i lati, sempre. Perchè un pezzo di merda senza coscienza e senza rispetto per niente e nessuno non si fa scrupoli, credetemi, ad andare contromano.

venerdì 15 agosto 2014

Esternalizzare il male


Cari amici del Bradipo, buon Ferragosto. Voi magari siete in spiaggia, o a visitare qualche bella città. Io, dal canto mio, sono a casa, e nel deserto di senso che sono diventati la mia città, il mio paese, e buona parte del mondo, elucubro senza remore e senza scuorno. Tanto i rubinetti della morale e dell'intelletto si sono chiusi, per cui dubito che qualcuno possa offendersi se provo, nel mio piccolo, a strizzare qualche goccia dagli stracci a cui mi ha ridotto il nuovo che avanza da millenni, trasformandosi continuamente per non mostrare quanto è grottescamente decrepito. Questa è una premessa che non dovete dimenticare mai. Se domani tornassimo ad avere, come paese, come continente, come pianeta, una vita intellettuale e morale dignitosa, io mi ritirerei in buon ordine e mi limiterei a parlare di femmine e pallone. Ma fin quando saremo alla mercè dei sacerdoti di questo o quel culto, con i loro aspersori che tanto spesso si trasformano in oggetti contundenti, io continuerò ad arrogarmi il diritto di dare voce alla mia pochezza genuina e disinteressata.

 Dunque, parliamo del male. E quindi, cosa che ormai non dovrebbe sorprendere più nessuno, parliamo di Napoli. Un po' per ragioni legate alla cronaca nera (pensiamo ad esempio alla sanguinosissima faida del 2003), un po' per il problema rifiuti e la sua gestione criminale, e non poco infne per come il sistema mediatico sfrutta questi dati oggettivi, un'equazione si è consolidata nel pigro, pigrissimo cervello dell'italiano medio: Napoli = Camorra. Anzi, Napoli = Gomorra. E Roberto Saviano è Lot, l'unico uomo probo che valga la pena di salvare dall'ira del Signore, se non altro per consentirgli di raccontare la depravazione di quella città del Demonio. E come la racconta! Con quanta alacrità! L'ultimo prodotto della dedizione del Robertino nazionale è la serie televisiva intitolata, ovviamente, Gomorra. Io, anacoreta incallito e fiero del proprio stile di vita stilita, ero riuscito a ignorarla fino a pochi giorni fa. Poi ho ceduto alla pressione dei pari. Ed ora, poichè non mi va di subire in silenzio, affido a questo consunto blog la mia protesta.

Lasciando da parte il fatto che molti degli attori non sanno recitare e che lo sviluppo della trama non è sempre convincente, vorrei concentrarmi su un altro aspetto, che trovo più interessante. Perchè questa serie ha avuto tanto successo? Certo, perchè nasce da un'idea di Roberto Saviano, mi direte. Allora cambiamo la domanda. Perchè l'infinita "gomorreide" inaugurata dal libro nel 2006 non ha ancora esaurito il suo interesse per il pubblico? Risponderò, come al solito, basandomi sulle mie personalissime impressioni; le quali, per ricollegarmi alla premessa fatta all'inizio del post, valgono almeno quanto i vaneggiamenti ritualistici di qualunque fesso autoproclamatosi "persona intelligente". 

In Gomorra, qualche volta, si esagera. Troppa violenza, troppa cattiveria. Non che i criminali da queste parti non siano così violenti e cattivi. Lo sono. Ma lo sono nei momenti appropriati. Non sono sadici o psicopatici, sono persone lucidamente indurite e amorali. Il fatto è che presentare il male slegato da cause razionalizzabili e, soprattutto, sistemiche, consente di identificarlo come qualcosa che viene da fuori, una specie di invasione da respingere. Questa è, da sempre, la concezione liberale della criminalità. Eppure è un fatto che la malavita napoletana, prima dell'avvento della società dei consumi, era ben poca cosa se confrontata a quello che è oggi. Si è arricchita ed è cresciuta in pericolosità e potenza militare con un'altra invasione, quella dell'eroina. E continua a reggere il suo potere sullo spaccio, anche se le droghe che vanno per la maggiore oggi sono altre. Insomma, la "Camorra", termine obsoleto che ci ostiniamo a usare, guadagna stando sul mercato. Le guerre che le multinazionali si fanno a botte di avvocati, spionaggio industriale e via dicendo, i camorristi se le fanno con le armi. Per il resto, sono imprenditori come tutti gli altri, se non fosse che a loro è toccata una fetta del mercato "maledetta".

Abbiamo esternalizzato il male. Lo abbiamo delegato. Spesso si dice che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Ecco, e allora si potrebbe dire anche che i figli della Napoli popolare fanno i lavori che gli italiani di Serie A rifiutano. E, come gli immigrati non vengono certo ringraziati per averti messo i pomodori sulla tavola, le organizzazioni criminali campane, siciliane, calabresi, che con tutti i loro brutti ceffi e la loro grammatica discutibile immettono nell'economia italiana una considerevole liquidità (perchè questo sistema funziona con i capitali, non con i principi morali...), si devono beccare anche il biasimo del telespettatore. Del resto, siamo in pieno territorio liturgico. Io, da eretico ed eremita quale sono, me ne torno sulla mia colonna ad ignorare deliberatamente il mondo, fin quando non si degnerà di ragionare.


mercoledì 13 agosto 2014

Dei film, dei videogiochi e del disordine


Cari amici del Bradipo, pensate a un set cinematografico. La stessa scena può essere ripresa da tante angolazioni, e a seconda di quella che si sceglie l'azione e i dialoghi verranno percepiti in un modo piuttosto che un altro. Ora, nella maggior parte dei casi un film ha un solo regista, una sola intelligenza ordinatrice. Provate a immaginare invece un film con una miriade di registi, che danno disposizioni contraddittorie ai cameramen e agli attori. Da questa metafora vorrei partire per il mio delirio di oggi.

Vi faccio presente, se ce ne fosse ancora bisogno, se qualcuno non lo avesse ancora capito, che questo è un blog di sugggestioni e riflessioni, non di teorie e dottrine compiute e articolate. I film che gira il vostro umile servo sono intesi per niente altro che il suo personale diletto e quello di chi è messo così male da perdere tempo a leggerlo. Perchè io fesso lo sono, ma non abbastanza da non capire che la telecamera non la piazzo nè io nè voi, e il copione lo scrivono ben altre intelligenze, per andare incontro ai desideri di ben altri produttori.

Eppure siamo creature morali, che hanno bisogno di stablire cosa è giusto e cosa è sbagliato, pena la guerra costante e senza quartiere di tutti contro tutti. Abbiamo bisogno di norme per vivere senza scannarci, ma ci scanniamo per definire le norme. Che poi, in molti casi, non sono altro che il risultato diretto di inquadrature, angolazioni, punti di vista.

Un paio di giorni fa, rivedendo il processo "popolare" a Roberto Peci, ho pensato a questa contraddizione. E ho pensato anche, in un misto di incredulità, tristezza e insofferenza, a quanto fosse diverso il film che giravano i gruppi dediti alla lotta armata da quello a cui partecipavano la stragrande maggioranza dei lavoratori di questo paese. Il bisogno di mettere "ordine", di realizzare compiutamente una determinata visione (non ci interessa valutarla adesso) aveva chiaramente preso il sopravvento su qualsiasi ipotesi di trasformazione politica. Probabilmente perchè i registi di quel drammatico film erano già inconsciamente o comunque inconfessatamente arrivati alla conclusione che nessun cambiamento era ipotizzabile.

E saltiamo adesso di palo in frasca, seguendo queste personalissime, sgangherate evoluzioni mentali, questa telecamera senza più controllo che spazia su tutto il fronte. Parliamo dei videogiochi "violenti". Cioè di tutti quei "vargàmes" a cui il Pazzaglia rapinato in Così parlò Bellavista sembra dare la colpa della decadenza morale che ha reso Napoli così violenta. Questo è un atteggiamento tristemente comune; del resto, abituuati come siamo a delegare il potere, perchè non dovremmo delegare anche le colpe? Negli anni Ottanta Ozzy Osbourne dovette difendersi dall'accusa di aver spinto un adolescente al suicidio con la sua musica. Non sto scherzando, il sistema giudiziario americano ha davvero speso dei soldi per questa immane cazzata. Per me quei videogiochi hanno invece una funzione estremamente positiva. Consentono alle persone di giocare a fare dio in un ambiente controllato, senza conseguenze. Consentono di mettere ordine. Mettono il Bene da una parte e il Male dall'altra, crivellando quest'ultimo di colpi. Quando questa logica esce dai film e dai videogiochi, perde la sua efficacia. E la perde perchè il Bene e il Male non esistono, esistono il bene e il male, e sono concetti interamente relazionali. Nel momento in cui sono identificati con l'ordine e il disordine, si rischia di non riuscire più a distinguerli.

Si rischia di finire a spararsi addosso, come se un proiettile potesse essere foriero di giustizia. Si finisce a lanciare molotov, come se dal fuoco potesse venire fuori chissà quale palingenesi, e non solo cenere. Si pretende di ricondurre tutto alll'unità attraverso la forza disgregatrice. Vabbè, basta scrivere fesserie. Mi metto a giocare a un vargàmes. Entro in quel simpatico, accattivante mondo in cui io sono il Bene e il mio nemico è il Male, e gli posso scaricare un arsenale addosso nell'assoluta certezza di non fare violenza a nessuno.

venerdì 8 agosto 2014

Degli uomini, degli dei e del ragioniere Casoria


Cari amici del Bradipo, sono stato in dubbio se scrivere questo post o no. Mi sono macerato nel dubbio, fra una zuppa di ceci e pane raffermo (la cucina povera ci salverà nell'era dell'eterna austerità) e un pisolino pomeridiano; infine ho deciso di scriverlo, perchè in definitiva qualcuno si diverte a leggermi, e forse - permettetemi la presunzione - trova rinfrancante essere esposto a idee magari sbagliate, magari sciocche, ma non dettate nè dall'egoismo nè dal narcisismo. Questo è l'angolo dei fessi. Se vi riconoscete tali, avete la mia stima. Prendete una sedia e unitevi a questa nutrita assemblea di gente umile ma onesta.

Qualche volta mi capita di parlare con persone che, per loro fortuna, non hanno avuto modo di constatare fino in fondo di come siamo completamente in balia del ragioniere Casoria; fuor di metafora, non hanno toccato con mano, non hanno provato sulla loro pelle (e come è difficile parlare senza figure retoriche...) la degenerazione criminale del capitalismo italiano. Nel leggere questa ultima frase qualcuno osserverà che il capitalismo è un sistema criminale a prescindere; sì, va bene, ma io parlo di un sistema in cui le dinamiche economiche e lavorative sono ormai in irriducibile antitesi con le stesse leggi dello Stato, e il lavoro, che sia autonomo o dipendente ormai fa poca differenza, è calpestato sistematicamente nella sua dignità, con tutte le conseguenze che possiamo facilmente constatare, dalla disoccupazione dilagante alla riduzione drastica del potere d'acquisto, passando per la distruzione del nostro sistema produttivo e lo smantellamento progressivo ma inesorabile dei servizi pubblici. A quel punto la persona che mi ascolta narrare talune mie vicissitudini si meraviglia, e mi chiede come è possibile che si sia arrivati a questo, e come se ne può uscire secondo me. Mo', non è che io sono in grado, da solo, di portare la specie umana fuori da una delle epoche forse più buie di sempre. Però, se dando il mio umilissimo contributo di riflessioni bislacche, faccio passare dieci minuti piacevoli a qualcuno, mi pare che il mio tempo non sarà stato speso tanto male.

Dunque, parlavo di riflessioni "bislacche". E sì, perchè io ho tutta una serie di idee "originali", che poi in altre parti del mondo sono patrimonio comune, ma in Italia sono limitate a pochi, pochissimi "eccentrici". L'italiano in genere ha un approccio normativo all'analisi dei problemi. Questo è il motivo, secondo il mio umilissimo parere, per cui spesso non è in grado di comprendere i momenti di transizione. Ragiona in termini di "giusto" e "sbagliato", "esatto" e "inesatto", è insomma legato all'idea di una intelligenza ordinante, piuttosto che a quella di una mente come "facoltà passiva", che riceve impressioni dall'esperienza e che le organizza secondo forme precostituite. Entrambi gli aspetti fanno parte dell'esperienza umana, non si dà l'uno senza l'altro, e trovare un equilibrio fra i due è difficile. Parliamo terra terra, come si conviene ai fessi. Noi dobbiamo distinguere quello che è giusto da quello che è sbagliato, ma non lo possiamo fare a priori; dobbiamo sforzarci, in ogni situazione, di pesare i pro e i contro, che poi si traducono in piacere o dolore, benessere o miseria, libertà o schiavitù per esseri umani in carne ed ossa. La maggior somma di felicità per il maggior numero di persone: questo è il bene, per il vostro fesso di riferimento.

Resta il fatto che senza la Legge l'uomo è perso, almeno allo stato attuale della sua evoluzione morale. Perciò io ho sempre un certo timore di chi mi parla di laicità. Sono quelli che venerano un dio così ubiquo nella realtà che viviamo, così preponderante nelle nostre scelte, così dato per scontato da risultare invisibile, a evocare sempre la laicità. Il punto è che nella divinità l'uomo venera in realtà se stesso; ma siccome non esiste l'Uomo, bensì concezioni dell'uomo che di volta in volta diventano egemoni non per qualità intrinseche, ma perché portate avanti con le buone e con le cattive da chi ha più potere in una società, la Legge sarà sempre il cane da guardia della disuguaglianza, il Cerbero che si frappone fra noi e il progresso sociale, politico, economico, morale. E non sto parlando della legge dello Stato. Questa, mi perdonino lor signori, è una semplificazione. Ogni volta che diciamo "questo è giusto e questo è sbagliato" in modo acritico e frettoloso, io sono convinto che noi ci stiamo schierando con il privilegio, con l'autorità, con la sopraffazione, con il mai abbastanzza menzionato ragioniere Casoria. 

Come se ne esce? Questa era la domanda. Ecco, visto che la zuppa di ceci non fa il filosofo, smetto di elucubrare (in effetti rielaborare il pensiero, magari non ben compreso, di pensatori che non citerò, per i motivi su esposti) e torno alla semplicità che mi si addice. Se ne esce insieme. Se proprio abbiamo necessità di una massima che ci guidi, che sia quella di cui sopra: la maggior somma di felicità per il maggior numero di persone. Il che significa mediare, fare compromessi, ascoltare altri punti di vista. Se impariamo a vivere così, arriverà un giorno in cui sarà impossbile distinguere gli uomini dagli dèi. E in quel mondo non ci sarà più posto per il ragioniere Casoria.

martedì 5 agosto 2014

La dittatura dell'onestà


Cari amici del Bradipo, dovete sapere che la vita mi ha somministrato potenti dosi di amarezza e disillusione, soprattutto di recente. Mi paragonerei al protagonista di un tango di Gardel, se non fosse per il timore di essere tirato in ballo. E io, cari amici, non so ballare, se per ballare non intendiamo imitare, dopo aver ingerito un certo numero di pinte di birra, un orso zoppo morso da una tarantola. Per questa ed altre ragioni a volte mi è sembrato di essere un inglese nato nel paese sbagliato. Ma sto divagando. Il punto è che la vita mi ha castigato e mi ha insegnato il suo credo amaro. E lo ha fatto, cosa che non dovrebbe sorprenderci affatto, soprattutto nella dimensione lavorativa. 

Il lavoro, oggi, in Italia, è motivo di cruccio e preoccupazioni per un numero crescente di persone. Io ne faccio parte. Questa è la premessa per spiegarvi il motivo per cui ho tanto tempo libero per pensare (concetto su cui torneremo) e per giustificare la centralità quasi ossessiva del lavoro nelle mie oziose riflessioni. Ho letto da qualche parte che un uomo pensa al sesso non so quante centinaia di volte in una giornata. Io no. Io penso con frequenza e intensità maniacali al lavoro.

Questo, nonostante i miei tentativi di evitarlo, sarà un post pesante. Si capisce già benissimo. Se volete andare avanti con la lettura, siatene consapevoli. Io vi ammorberò. Dunque, il lavoro. Io sono un lavoratore, o aspirante tale. Inoltre, sono un moralista. Per molti questo è un difetto, io lo rivendico come virtù. Anche su questo torneremo. In ultimo, io sono uno che si fissa sulle cose. Quando intravedo un barlume di verità in qualcosa, me ne innamoro. Per questo mi sono innamorato di un capolavoro di un certo cinema apparentemente d'intrattenimento che si faceva in Italia negli anni Cinquanta: La banda degli onesti. Io credo che la lotta fra ciò che rappresentano Buonocore, Cardone e Lo Turco da una parte, e il ragioniere Casoria dall'altra, sia una straordinaria allegoria della vita pubblica di questo paese, ed entro certi limiti di tutto il mondo.

Economia politica per semi-analfabeti (fatta da un semi-analfabeta). A cosa serve il denaro, nelle nostre vite quotidiane? A permetterci di acquistare i prodotti del lavoro. E come ottiene il denaro, un lavoratore? Lavorando e producendo a sua volta. Dunque, il denaro è una forma di mediazione fra produttori. Ma non è solo quello. E qui entra in gioco il grandissimo film di cui sopra. Il denaro è credito, con la rispettiva contropartita del debito. Se io Buonocore entro in una tabaccheria con una carta da diecimila contraffatta, che dunque non è stata comprata dal lavoro di nessuno, il tabaccaio mi dà lo stesso la saponetta Palmolive (a patto naturalmente che non si accorga della falsificazione). Se il ragioniere Casoria trova un portiere compiacente, si mette in tasca l'equivalente di otto quintali di carbone. Il denaro, come diceva l'arabo pazzo circa la proprietà, è al contempo libertà e furto.

E veniamo al moralismo. Il ragioniere Casoria è un nostro nemico, indubbiamente. Ma fargli la guerra per sostituirsi a lui non è la soluzione. Impadronirsi delle matrici e della carta filigranata (da non confondersi mai con il papier higyénique) non risolve niente. La soluzione è la dittatura dell'onestà. O la dittatura del lavoro, è la stessa cosa. 

Torniamo al pensare, attività degli oziosi. Il pensiero produce ipotesi, possibilità da esplorare. Ma non produce cambiamenti nella realtà sensibile, fino a quando non è tradotto in azione individuale o collettiva, consapevole o meno. E veniamo al passaggio più difficile di questo ginepraio logico in cui mi sono scientemente cacciato come il deficiente che sono. Adesso dovrei tirare le fila del discorso, e possibilmente chiudere in bello stile il post. Mi preparo all'ennesimo fallimento della mia vita ma ci provo, hai visto mai...

Il pensiero politico è pensiero eminentemente morale. Alcuni di voi sono appena trasaliti, lo so. E chi se ne frega. Il pensiero politico non serve a una mazza se non si traduce in agire consapevole, e quindi è un'attività morale. Oggi il ragioniere Casoria spadroneggia. Da un momento all'altro ci piomba in casa un Memmo Carotenuto con la sua signora e si lamenta della puzza di broccoletti. O dichiariamo guerra ai ladri, o ci fottiamo. Ed è una guerra che si combatte, cari i miei loro, solo con le armi dell'onestà. O del lavooro, che è la stessa cosa.

sabato 2 agosto 2014

Lo sporco Harry


Cari lettori, dovete sapere che quando il vostro umile servo era un meraviglioso pargolo dalle fattezze di cherubino nelle case degli italiani c'era in genere un solo apparecchio televisivo, e qualche volta neanche quello. La sera si guardava tutti insieme il film delle 20.30, e non capitava raramente che la famiglia litigasse per decidere su quale canale sintonizzarsi. Il Cavaliere aveva già fatto il suo roboante ingresso del mondo dell'intrattenimento catodico, aggiungendo alle tre reti Rai prima Canale 5, poi Retequattro, e infine Italia 1. Se la memoria non m'inganna, fu quello l'ordine in cui tre nuove reti furono offerte al pubblico italiano, con una programmazione innovativa rispetto alla TV di Stato. Una delle caratteristiche che emersero subito fu la predilezione delle reti commerciali per i prodotti statunitensi, sia cinematografici che televisivi. E, soprattutto, la scioltezza con cui venivano messi insieme i palinsesti. Mentre la televisione pubblica (che in realtà era, allora come oggi, dei partiti) seguiva chiare linee ideologiche nella scelta dei contenuti tasmessi, e si faceva scrupolo di proporre prodotti di dubbio valore culturale, Canale 5 e le sue sorelle mandavano in onda qualsiasi cosa che promettesse audience.

Era l'Italia dei primi anni Ottanta, l'Italia che aveva sconfitto da pochissimo le BR e la lotta armata, l'Italia che voleva bene a Berlinguer, con un presidente partigiano e il titolo di campione del mondo in bacheca. L'economia era in netta ripresa dopo la lunga depressione dei Settanta, si respirava ottimismo e voglia di evasione. D'altro canto, rimanevamo i bigotti di sempre, e il minimo diverbio rischiava sempre di trasformarsi in una guerra di religione. Uno di questi ricorrenti diverbi, frequente in casa mia a ora di cena, riguardava il cinema americano. Secondo mia madre registi come John Ford e Howard Hawks erano "fascisti", in quanto dal loro cinema emergeva una visione della vita che ella, ignara della cultura anglosassone e ad essa punto interessata, traduceva con una disinvoltura da Babelfish in "fascismo". Mio padre, che amava quei film e non ci vedeva quello che ci vedeva la sua dolce metà, si faceva comunque trascinare sullo spinoso terreno dell'ideologia, della Storia e della politica, e così ben presto si finiva a litigare sull'imperialismo statunitense e sulla limitatissima sovranità del nostro povero paese. Io, bimbo dalle rubizze gote, ho appreso di eventi come la strage di Portella della Ginestra e la bomba di Piazza Fontana a tavola, in tenzoni dialettiche che partivano dai sentieri Comanche e finivano sempre, per sinistra fatalità, dalle parti di via Fani o via Gradoli.

Ricordo una sera in cui uno dei canali privati dava un film di Callaghan, mi pare Ispettore Callaghan, il caso Skorpio è tuo. Io, naturalmente, amavo Dirty Harry. Ma l'Italia che amava Berlinguer e che esultava per la vittoria della democrazia sulle forze del disordine e dell'avventurismo non poteva apprezzarlo. Non poteva capire che Callaghan è un eroe anglosassone, germanico, calato in una realtà contemporanea, con annessi e connessi. Lui è un individuo solo, che da solo deve portare il peso di un ineludibile imperativo morale. Quei film ci chiedono di identificarci con la sua condizione, non con la sua visione del mondo. E questo perchè Callaghan non è un animale politico; ripeto, è un uomo condannato alla solitudine. Ma per mia madre, saldamente convinta della assoluta supremazia della cultura italiana come tutte le insegnanti di italiano della sua generazione, era naturale riportare tutto a categorie a lei congeniali. Dunque, Callaghan era fascista. Fortunatamente, al momento del voto, eravamo in tre contro una. Dirty Harry l'ebbe vinta. Per fortuna, aggiungo. Forza e violenza sono concetti problematici, e io penso che per un bambino sia più educativo un film di Callaghan che non mille edificanti parabole in elogio di quella "democrazia" che da allora ad oggi ha continuato a strizzarci le palle in modo così graduale che non ce ne siamo nemmeno accorti, e ci ha lasciato ormai senza un paio di coglioni servibili, e senza prospettive.

Non dico che i  nostri problemi si debbano risolvere con una 44 Magnun, non fraintendetemi. Fareste l'errore di mia madre. Sostengo che sia necessario distinguere fra la violenza e la forza, fra l'aggressione e l'autodifesa, fra l'imporre agli altri il proprio arbitrio e lottare affinché gli altri non impongano il loro a noi. Il mondo non è un luogo benevolo e ben ordinato. Non lo è mai stato, e forse mai lo sarà completamente. Il mondo è sporco. L'essere umano mente, ruba, inquina, stupra, uccide, e trova anche il modo di fasi dare ragione da chi non sa come reagire, o ha paura di farlo. E chi prova a fare pulizia rischia di sporcarsi. Come quell'integerrimo, cazzutissimo "fascista" di Dirty Harry. E allora io non lo biasimo se alla fine della pellicola in questione, in un gesto di amara ribellione che farebbe accapponare la pelle ai Rodotà e agli Zagrebelsky, getta in acqua un distintivo che non rappresenta più niente. Anche quello, cari amici del Bradipo, è fare pulizia.