Cari amici, come è andato il Natale? Avete mangiato come tanti patrizi romani? Avete giocato a tombola, mettendo la dovuta enfasi su tutti i numeri più scostumati, fra i quali non possiamo mancare di citare 6, "chella ca guarda 'nterra", 29, "o pate d'e ccriature" e 71, "omme 'e mmerda"? Avete seriamente danneggiato il tavolo buono con un martello da fabbro nel vano tentativo di alterare l'irriducibile integrità del torrone? Bene, adesso io vi ammorbo l'anima. Mettetevi comodi.
Il mio Natale è stato del tutto ordinario, sotto quasi tutti gli aspetti. Anche io ho partecipato a tavolate con parenti, ho fatto e ricevuto regali, ho oziato mentre le lucine dell'albero lampeggiavano gaie e placide, e il capitone viveva una seconda vita nel mio apparato digerente. Un Natale ordinario, dicevo, sotto quasi tutti gli aspetti, meno uno: io sarei dovuto ripartire da Napoli per Genova, la città in cui mi sono trasferito per lavorare. La città in cui, diciamola com'è, sono emigrato.
Non che io voglia paragonare la mia condizione a quella del personaggio della canzone da cui prende spunto e titolo questo post, ci mancherebbe; la mia è un'emigrazione deluxe. Non vivo in un paese straniero, non faccio un lavoro duro né usurante, non sono costretto a mandare buona parte del mio stipendio a casa. Eppure non posso fare a meno di pensare, tanto più in questo momento dell'anno, che se avessi avuto la possibilità di costruirmi un futuro nella città in cui sono nato e cresciuto, sarebbe stato meglio.
Il migrante, qualunque sia il suo status, non si sposta per viaggiare, per conoscere, come ripeteva invano Massimo Troisi in Ricomincio da tre. Il migrante va dove lo vuole il mercato del lavoro, esattamente come qualsiasi merce va laddove sia richiesta. Non c'è assolutamente niente di bello in questo. Un certo tipo di retorica da manifesto della Benetton, quella esaltazione di un melting pot che serve a forgiare solo sfruttamento, e che purtroppo la nostra "sinistra" parlamentare sparge a piene mani su uno dei fenomeni più tragici e preoccupanti del mondo contemporaneo, non è solo fuorviante, ma anche ferocemente ipocrita.
Chiamatemi reazionario, se vi fa piacere. Io affermo senza mezzi termini di vagheggiare un mondo becero e leghista in cui ciascuno se ne resta a casa propria, a meno che non abbia motivi precisi per volersi spostare. Voglio che il senegalese abbia da lavorare in Senegal, anziché affrontare un viaggio che ne mette a repentaglio la vita per far nascere un sorriso sulle labbra di qualche radical chic, e gonfiare il conto in banca di qualche canaglia nostrana. Voglio che il napoletano viaggi veramente per conoscere posti nuovi, tornando alla fine nella città prospera e civile che meriterebbe. Voglio che i padroni smettano di ricattarci con una povertà e una disperazione d'importazione. Perché, al netto delle favolette edificanti per "sinistrati", questo è il migrante: carne 'e maciello. E chi sventola i fazzoletti e batte le mani davanti ai bastimenti che ce lo portano, al macello, è per definizione un cannibale.