mercoledì 30 dicembre 2015

Partire dal traguardo

Cari amici, da un po' non scrivevo. Poiché l'anno sta per finire, credo sia importante apporre il mio suggello di orrore a questo 2015 che, come già il suo predecessore e come sarà certamente per il suo successore, ha fatto schifo. Ormai non è più lecito aspettarsi del bene dalla vita, e sapete perché? Perché la vita è finita. Siamo zombie che si aggirano in un deserto morale e intellettuale, in cui gli impietosi sacerdoti del potere si sono impadroniti di tutto quanto è ancora fertile e fonte di nutrimento. E, stando così le cose, ci imboccano sotto mentite spoglie cucchiaiate di omogeneizzato, per farci rimanere nello stato infantile nel quale, palesemente, ci troviamo.

Poco fa leggevo su Facebook un commento fatto da un amico appartenente a quella nutrita schiera di militanti della sinistra salvinofoba e politically correct. Era un augurio al contrario fatto a chi non accoglie a braccia aperte, senza condizioni né remore, tutti coloro che intendano stabilirsi in questo paese, a prescindere da qualsiasi considerazione di carattere socio-economico, in base a cui si rischierebbe di dover concludere che la solidarietà non è solo un valore astratto, ma una prassi condizionata da molti fattori. Suppongo che queste esitazioni ad aprire il mio cuore e il mio conto Bancoposta (la scelta dei campioni!) a chi soffre mi collochino ipso facto nella schiera dei gretti piccolo-borghesi fascio-leghisti contro cui un esercito di polacchine indignate protesta a gran voce, intonando all'unisono un canto ricolmo di amore per l'Umanità e fair play
Un feticcio piccolo-boghese e fascio-leghista: la carta Bancoposta

A me piace il pensiero laterale. Quando vedo Peppone e Don Camillo affrontarsi nella piazza del paese, penso immediatamente che ci debba essere una terza opzione. Sarà che non ho la struttura fisica per fare a cazzotti. Sarà anche, magari, che le esperienze fatte mi stimolano a modificare il modo di vedere la realtà, man mano che le pecche e le inadeguatezze della mia ideologia vengono a galla. Dopo un anno e mezzo vissuto nel centro storico di Genova, non sono più disposto a tollerare discorsi retorici sul tema dell'immigrazione. Salvini ha torto, e le polacchine hanno torto, perché né Salvini né le polacchine sono in grado di dare ragione della complessità che ho avuto modo di constatare in prima persona in un luogo in cui gli immigrati, in gran parte irregolari, costituiscono una fetta consistente della popolazione.

Ma, e veniamo al punto, se il mio pensiero si modifica, si evolve, se le mie prospettive cambiano, è perché io cerco un punto di partenza, non di arrivo. L'identità filosofico-politica è, per come la vedo io, un affaccio sul mondo, non una cartolina o un poster; perché quando il mio viaggio mi porta in quegli stessi luoghi e me li mostra diversi dall'iconografia imperante, alla quale è considerata quasi una caduta di stile opporre un "ma in realtà", io non mi sento di nascondere la verità dietro la cartolina. Io so che il traguardo non è la costruzione del mio io, ma di un mondo decente. Dice, e allora la tua identità? Ah, che bello aver confessato al mondo di essere un fesso! Auguri di un felice 2016 a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, che abbiano un lavoro o che lo debbano ancora trovare. Con gli altri, io non ho niente da spartire.

martedì 1 dicembre 2015

Casa



Ho scoperto tardi il rugby, avevo già trent'anni. Uno dei primi ricordi che ho del Sei Nazioni è lo stadio di Murrayfield che canta Flower of Scotland, inno non ufficiale della Scozia. Questa canzone celebra la battaglia di Bannockburn, in cui gli scozzesi, guidati dal leggendario Robert Bruce, si guadagnarono sul campo il diritto all'indipendenza dall'Inghilterra. Ho un ricordo indelebile di quel momento: ottantamila persone la cantavano perfettamente all'unisono, senza sbagliare le parole, man, woman and child, come direbbero a Orta di Atella. 

In quinta stiamo affrontando il Modernismo, in particolare Joyce e la Woolf. Costoro, come saprete (e se non lo sapete ve lo dice lo zio Bradipo), saltavano di palo in frasca. Apparentemente. Io, nel mio piccolo, faccio lo stesso.

Oggi sono andato a vedere un appartamento, in quanto presto lascerò l'anfratto che ho in affitto (l'allitterazione è voluta, perbacco!) in quel meraviglioso letamaio che è Piazza San Luca, nel centro storico di Genova. Appena tornato dalla ordinaria via Canevari nel mio oscuro budello, sono stato preso da una ineffabile tristezza, degna quanto meno di una signora Dalloway, se non di un Leopold Bloom. Appena salito a casa, ho avuto modo di udire la melodiosa e sonora voce del solito balordo. E questo ha scatenato nel mio subconscio qualcosa.

Il concetto di casa è complesso. Io sono andato a vedere quattro mura in cui dormire, mangiare e preparare le lezioni o correggere le verifiche. Ma una casa è molto, molto di più. Senza una casa comune, siamo tutti stranieri a noi stessi e al nostro prossimo. Ancora più stranieri del malnato che ha innescato, con il suo sgraziato e probabilmente adirato gridare in arabo, la mia joycianissima epifania. 

Un dì, se non andremo sempre fuggendo, parafasando Gigione (era Gigione, vero?), troveremo anche noi una patria, calpestata e mal ridotta, ma miracolosamente viva. Non un coacervo di retorica e xenofobia, ma una casa da abitare insieme, da buoni vicini. Scavando scavando, forse anche noi ritroveremo il fiore sepolto nel fango del nostro essere italiani, e impareremo a cantare all'unisono di come ci siamo finalmente ritrovati in una casa bellissima, accogliente e pulita.

sabato 28 novembre 2015

Una brutta fine

Il signore che vedete nella foto è Francis Fukuyama. Nel 1992 pubblicò un libro dal titolo The End of History, "la fine della Storia". Il libro espandeva concetti già esposti in un articolo di qualche anno prima, nel quale si suonava una marcia trionfale per la "American way of life" e si infieriva sul nemico agonizzante. La Storia era finita, o stava per finire. Si era arrivati al capolinea, si era visto tutto, nulla rimaneva da conquistare. L'essere umano, se non perfetto, non era comunque più perfettibile, perchè non esisteva più la spinta necessaria per mettere in moto cambiamenti significativi. Marx si era sbagliato: il capitalismo era sopravvissuto, e alla grande. Presto avrebbe portato benessere in ogni angolino del globo ancora non raggiunto. E questo perchè per Fukuyama la democrazia, intesa come liberaldemocrazia borghese, vale più di un piatto a tavola. 
Farneticazioni, naturalmente. Chiunque abbia mai avuto il problema di mettere il piatto a tavola capisce bene come il bisogno sia gerarchicamente superordinato rispetto al desiderio. Per esempio, tanti giovani oggi lavorano in quelle aberrazioni morali che sono i call centre; il desiderio di libertà li porterebbe altrove, il bisogno li inchioda alla loro postazione. Dunque, o traiamo la conclusione che la Storia si chiude per Fukuyama con il banchetto di pochi a fronte di un resto del mondo che muore di fame, o rimettiamo in discussione le (involontariamente) sacrosante parole di Malthus: non cè posto per tutti al grande banchetto della Natura. Non c'è posto per chi consuma il suo, il mio e il vostro.
Ma Fukuyama, è evidente, ha vinto.  Ce ne accorgiamo dalle dichiarazioni di molti esponenti della nostra "classe dirigente". Quelli che ci chiamano "choosy", "sfigati", "mammoni", che ci danno dei fannulloni e ci esortano a terminare gli studi in fretta, e correre a farci sfruttare come schiavi nell'antico Egitto. Ce ne accorgiamo dal fatto che, nell'epicentro della American way of life, la gente fa letteralmente a botte per un televisore in saldi. Ce ne accorgiamo, infine, dal livello di abietto servilismo raggiunto da buona parte dei nostri "intellettuali" e "giornalisti", che risponde alla tragica evidenza che la Storia non è AFFATTO finita con letture da sottoproletariato analfabeta, se non con forme di malcelato razzismo.
E me ne accorgo io, misero e tapino, quando faccio lezione. L'assoluta incapacità dei miei alunni di collegare quei quattro eventi e fenomeni a cui si fa riferimento nell'imancabile historical background mi conferma che questi poveracci sono stati privati degli strumenti per capire da dove viene l'orrore in cui li fanno vivere. La mia sfida personale, quest'anno, è di far capire a qualcuno, fosse anche una sola persona, che sangue della colonna sono state le enclosures nell'Inghilterra della prima età moderna, e quanto siano tristemente attuali. Dare a qualcuno la possibilità di capire che il modus pensandi feroce di gente come Poletti, come Martone, come la Fornero, è atrocemente vicino a quello dei Puritani di 400 anni fa che spiegavano con la predestinazione alla dannazione la causa di ogni male sociale.
No, non credo che questa sia la fine. La Storia non è finita. Un'opera così grandiosa, nel bene e nel male, non può avere una fine di merda come questa. Noi, se non ci diamo un svegliata, sì.

lunedì 16 novembre 2015

Perchè siamo superiori


Ebbene sì, scrivo questo post per affermare e celebrare la superiorità di una cultura sulle altre: la cultura dell'uomo. Che vuol dire? Vuol dire che, come sostenevano Protagora e il professor Bellavista, l'uomo è la misura di tutte le cose, ed è dunque in base alla loro utilità o desiderabilità in rapporto all'uomo che esse vanno giudicate. L'uomo è il metro di giudizio, non le cose.

Non il denaro, non le merci, non la proprietà, e nemmeno i libri, se pretendono di innalzarsi con la forza sopra il nostro libero giudizio. Per questo mi ritengo indiscutibilmente superiore rispetto a un fanatico che si fa saltare in aria in nome di una guerra santa. Perchè, quando leggo un libro, ci vado cercando dentro me stesso e il mondo che conosco, non dio. Perchè mi fanno ridere Totò e Troisi, ma anche i fratelli Marx e i Monty Python. Perchè Dickens e Dostojevskij non mi sono estranei. Perchè riempio la mia prosa di allitterazioni e sogghigno fra me e me come un bambino discolo, e me ne beo. Perchè la scorsa settimana ho aiutato due turisti francesi a comprare della focaccia, e ho anche proferito un paio di parole del loro oscuro idioma, nonostante aggiungano lo zucchero al vino e pretendano di affermare che è migliore del nostro.

Sì, sono sicuramente migliore di uno qualsiasi di quei fanatici che hanno seminato il terrore a Parigi nella notte fra venerdì e sabato. Sono, molto semplicemente, di più. Ma, by the same token, come dicono a Guardia Sanframondi, sono anche meglio di un creazionista dell'Alabama e di un corporate fascist o tecnocrate tedesco. Sono meglio di un medico obiettore della provincia di Perugia, meglio di un sivigliano che aspetta la Semana Santa per flagellarsi. Sono meglio di loro perchè stamattina ho imparato a fare le melanzane a funghetto, poi ho preparato le lezioni di domani, ho strimpellato un paio di canzoni alla chitarra e ho scritto questo. Le mie giornate sono dedicate all'uomo, non alle cose. Per questo sono superiore. Se qualcosa sopravviverà alla follia che stanno innescando i fanatici delle cose, sarà merito nostro, di Totò, dei fratelli Marx, delle melanzane a funghetto e di tutto quanto ruota intorno all'uomo e lo arricchisce veramente. Se, invece, dovessimo morire tutti, che vi devo dire? Voglio morire mangiando le melanzane a funghetto. Credo nell'uomo, e credo nelle melanzane a funghetto. Non ho bisogno di credere in altro.

domenica 1 novembre 2015

La vita vera


Qualche giorno fa ho interrogate due mie alunne. Avevano saltato la verifica, e io ho l'ingrato quanto noioso compito di valutare i fanciulli assegnando loro un valore da 1 a 10. Al fine di evitare che qualche genitore protestasse perchè alla sua figliola non era stato assegnato un numero di gara, ho dovuto chiamarle alla cattedra, eccitando in costoro una vistosa sudorazione e, con tutta probabilità, una accelerazione del tutto fuori luogo del battito cardiaco.

La buona notizia è che una delle "mute", nutrita categoria di alunni e alunne che non aprono bocca durante le mie lezioni neanche sotto minaccia di morte, era preparata. Studiano nell'ombra, a mia insaputa. Ci tengono. La cattiva notizia è che l'altra, una esponente di primo piano dei "suricati", ovvero di quegli alunni e quelle alunne che non perdono una virgola del mio eloquio, mantenendo per tutta la durata della lezione un livello di attenzione che garantirebbe loro la sopravvivenza allo stato brado nella savana, ha fatto fetecchia.  La ragione della disfatta è da attribuire, a detta della signorina in questione, alla sua incapacità di parlare in inglese di letteratura. Mi garantiva però, miss Serengeti, che quando si tratta di vita vera se la cava benissimo. Ad esempio, in un centro commerciale non ha problemi. Le scarpe e le borse sono vita reale, l'opera di Oscar Wilde no.

Il fatto, amici miei, è serio. Se, in una quinta superiore, una delle alunne più attente e interessate pensa davvero che le Hogan siano più "vere" di The importance of being earnest, dobbiamo fermarci a ragionare. Non è per timidezza, non è per insicurezza che restano in silenzio a fissarti come se fossi pazzo; lo fanno perchè non sono capaci di altro. Non è imbarazzo che provano quando ti sforzi di tirarli dentro la lezione; è straniamento. Perchè vuoi che parli io? Chi sono io per parlare al posto tuo? Ma, molto più semplicemente, chi sono io? Che cosa vuol dire essere IO? Io, muto o suricato che sia, so solo il mio nome, il mio cognome, la classe in cui mi avete messo e quattro o cinque nozioncine che mi avete, chissà come, cacciato in testa. E non vedo l'ora di uscire da questo posto, specialmente adesso che questo terrone semicalvo e completamente invasato ha cominciato a destabilizzarmi con le sue strane idee sullo studio e sulla scuola. Sarà una lunga, penosa mattinata, ma alla fine l'ultima campanella suonerà il "liberi tutti" e uscirò da qui, per tornare alla vita vera. Quella che si fa capire, che non mi pone problemi, in cui ogni cosa ha un solo significato, chiaramente rivelato una volta per tutte. Anche io. 

sabato 10 ottobre 2015

Per qualche mollichella

Non si parla d'altro, da qualche giorno, delle dimissioni da sindaco di Roma di Ignazio Marino. Secondo molti, tanto fra gli opinion makers (leggi "gli imbecilli a cui hanno affidato uno spazio per comunicare con il pubblico") quanto fra i cittadini comuni, si tratterebbe di un caso di sciacallaggio politico. In fondo, Marino sarebbe finito nell'occhio del ciclone per qualche mollichella, cifre irrisorie rispetto a quelle che siamo abituati a scoprire sottratte ad enti pubblici o finanziati in qualche modo da noi contribuenti. 
 
Ora, a me non interessa dibattere sulla colpevolezza o meno di questo signore, che è tutta da provare, nè sulla venialità o meno delle spese indebitamente messe in nota. Ci metto poco a dirvi la mia: Ignazio Marino è uomo del PD, non viene da una lista civica e non è un signor nessuno. Se è vittima, è vittima di giochi di potere che sono il pane quotidiano dei potenti come lui. E a chi mi dice che era stato legittimato da una votazione, rispondo che andrebbe fatto un lungo, approfondito discorso su come la democrazia non possa essere ridotta a un televoto, e che i processi di selezione dei candidati, tanto a livello locale che nazionale, non hanno proprio niente di democratico, perchè lasciano tagliata fuori la massima parte dei cittadini.
 
Ma è un altro l'aspetto su cui vorrei soffermarmi. Sì, ammettiamo pure che siano mollichelle quelle per cui si è scatenato un moralismo che da parte di molti è certamente ipocrita nei confronti di Marino. Ammettiamolo pure. La domanda che io mi sto ponendo da giorni è questa: e non è per quattro mollichelle che tante persone comuni, appartenenti al ceto medio, condannate a lavorare per vivere (a differenza dell'aristocrazia borghese che esprime gente come Marino) lisciano il pelo ai potenti e li emulano nell'ethos, nel linguaggio, nel modo di argomentare, con risultati fra il rivoltante e il grottesco? Non è nella speranza di racimolare qualche mollichella che gente il cui modello Unico gronda lacrime come una Madonna dei miracoli sposa la causa degli optimi, di persone che li disprezzano e non li considerano degni di una frazione di secondo della loro attenzione?
 
Qualcuno penserà che sia populista questa posizione. Qualcuno, più lucido o forse più imtellettualmente onesto, penserà che essere orgogliosi di svegliarsi ogni mattina e andare a lavorare per due mollichelle sia ridicolo. Quando è così, bisogna avere il coraggio e la coerenza di arrivare alle conclusioni ultime: e cioè che non ha alcuna importanza se rubano 100 euro o 100.000, perché noi, i lavoratori, abbiamo già perso. Abbiamo perso il senso di comunanza e solidarietà che ci sembrava un tempo conseguenza ovvia di un destino comune. Ci hanno buttato qualche mollichella e ci siamo dispersi, nel tentativo disperato di raccoglierle. Ecco, in questo trovo un punto di contatto fra noi inferiori, noi sottoposti, e il notabile Marino: come lui, ci siamo fatti fottere per qualche mollichella. 

lunedì 28 settembre 2015

Pinocchio e i Carabinieri


Cari amici del Bradipo, buongiorno. Sapete, ci sono ancora, fra i miei amici e conoscenti, molti che non mi hanno ancora dato del fascista; e, se la sinistra oggi è quella che vuole far sposare gli omosessuali ed eliminare le "discriminazioni di genere" dal linguaggio, riempiendo la nostra bella lingua di asterischi e altre manifestazioni di fulgida idiozia, io pretendo di essere chiamato fascista. Provvediamo, dunque.

Poco più di un anno fa, a Napoli, un ragazzo di sedici anni perse la vita al termine di una rocambolesca fuga in scooter da un posto di blocco dei Carabinieri. L'indignazione fu immediata, e questo è comprensibile; un po' comprensibile fu per me, e continua ad esserlo, l'ostilità subito rivolta dalla sinistra cosiddetta antagonista, ma anche (seppure in forme un po' meno crasse) da parte del mondo "progressista" nei confronti del carabiniere che aveva fatto partire il colpo. Che si fosse trattato di una esecuzione in piena regola non era per molti un semplice, tremendo sospetto; era una certezza.

Qualche giorno fa un agente di polizia è rimasto gravemente ferito a Napoli. Insieme a un collega, stava cercando di cogliere sul fatto una banda di estorsori, a seguito di una denuncia da parte di un commerciante taglieggiato. In altre parole, stava facendo il lavoro per cui è pagato dal contribuente italiano. Scambiato evidentemente per un sicario (in questo momento Napoli, per chi non lo sapesse, è devastata da una guerra fra clan), è stato fatto oggetto di un fuoco ravvicinato al quale è sopravvissuto per miracolo, ed ora versa in condizioni definite gravi.

Bene, come era facilissimo prevedere, il grave ferimento di Nicola Barbato non ha suscitato nemmeno la metà del clamore che suscitò la morte di Davide Bifulco. Questo fatto a molti sembrerà ovvio. L'idea che io vorrei esprimere sembrerà assurda a molti come sembra ovvia a me. Ma qui ci vuole pazienza, perchè se vado dritto al punto non ci intendiamo.

Immaginate un paese popolato da milioni di Pinocchio. Non dovrebbe esservi difficile, perchè stiamo andando a vele spiegate in quella direzione. Siamo saturi di persone bugiarde, inaffidabili, irresponsabili e prive di rispetto per se stesse e per gli altri. Pinocchio è un burattino: non è in grado di essere libero. Anzi, peggio: crede pure di esserlo, senza che ve ne siano le premesse. Un paese popolato da milioni di Pinocchio è un paese in cui il Pinocchio più forte, più furbo, meglio attrezzato, schiaccerà sempre il Pinocchio più debole, più ingenuo, quello che parte da una posizione sociale meno favorevole. Per questo sono, ahimé, necessari i Carabinieri.

Se Pinocchio si vuole affrancare dai Carabinieri, dal grillo parlante e da tutti gli altri seccatori che lo privano della sua autonomia di pensiero e di azione, deve fare un passaggio concettualmente semplice quanto praticamente difficile: deve rendersi conto dell'esistenza degli altri, e che ognuno di quelli è un essere vivente esattamente come lui, con dei bisogni, delle aspirazioni, dei diritti. Questa reciprocità, quando e se dovesse essere completa, metterà a tacere le armi e renderà superflue divise e manette. Ma nel frattempo, chiunque auspichi che Pinocchio diventi un bambino in carne e ossa, e smetta di essere un burattino, dovrebbe sforzarsi di provare repulsione per il sopruso, e rispetto per il lavoro.

mercoledì 16 settembre 2015

Un dato costitutivo



Secondo la signora Bindi, la camorra è un dato costitutivo di Napoli. Non è nel suo DNA, come avevano erroneamente riportato alcune fonti. Ne è un dato costitutivo. Un po' come dire che il peperone ripieno si fa con le melanzane, ma uno volendo ci può mettere pure i cocozzielli, eh, mica lo arrestano. Però, certo, il peperone ripieno, o 'mbuttunato, come si dice a Gomorra, si fa da chissà quanto tempo con le mulignane. Serviranno molto tempo e grandi sforzi per cambiare questo dato costitutivo.

Mettiamo subito in chiaro una cosa: non è che io mi offendo perché una vecchia bizzoca ha parlato male della mia città. Voi dovete pensare alla signora Bindi un po' come alla mamma di Cardone: quando non c'è la novena, che deve fare? Dove la mettiamo a sbariare? Il problema è che questa donna, fra una novena e l'altra, è stata messa a combattere la criminalità organizzata. E questo, cari amici a cui voglio bene - non ve lo scordate mai - come se foste dei bimbi normali, è un altro dato costitutivo.

Vi ricordate quando abbiamo parlato dell'albino della funicolare? Quello che non è non un tossico e non un ladro? Ecco, per trovare napoletani onesti non c'è bisogno di andare al Vomero, come in un servizio di non ricordo quale telegiornale Mediaset. Li trovi in qualsiasi milieu sociale, pure int'e ssaittelle, come si dice da noi. E se pensi che salire sopra al Vomero ti dia la garanzia di essere circondato solo ed esclusivamente da persone oneste, senti il consiglio di un fesso, e ricordati che l'abito non fa il monaco. Eh sì, perché il criminale non è solo quello che fa i "pacchi", lo scartiloffio, all'angolo di strada, ma anche quello che truffa dietro una scrivania; e se qualcuno ti deruba con la pistola in pugno, qualcun altro lo fa con la penna; e certi prodotti finanziari che hanno contribuito a scavare il baratro economico in cui ci troviamo non erano meno tossici dei rifiuti atterrati dal famigerato clan dei casalesi.

E andiamo a concludere, perché se Joyce ha fatto la uallera alla pizzaiola a me con l'Ulisse, figuriamoci quali risultati nefasti posso ottenere io nel dilungarmi. La "camorra", mannaggia tutte cose, è la parola jolly per metterlo in culo a chi vorrebbe uscire dalle suddette saittelle, con le buone o con le cattive. 'O cane ca mozzeca sempe 'o stracciato, che con i suoi cenci offende i signori vestiti bene e con la laurea appesa in faccia al muro, quelli che fra le grida di indignazione sacrosanta ma ingenua creano i dati costitutivi, le saittelle e i morti uccisi.

 

venerdì 11 settembre 2015

Fascismo 2.0


Cari lettori, a volte mi sento proprio vetusto e fuori dal mondo, per la semplice ragione che questo mondo, nel rifiutarsi ostinatamente di essere ragionevole, mi estromette. Abbiamo già riflettuto, di recente, su come il genere umano, nella sua pochezza e soprattutto nella sua preoccupante carenza di autonomia di pensiero e giudizio, riesca a travisare tutto il travisabile. A beneficio di chi? A beneficio di coloro che architettano il travisamento, che poi sono, detto in parole povere, i padroni del mondo. Oggi è 11 settembre, e posso citare due semplici fatti a sostegno della tesi appena esposta: il primo è il fatto che quella che è senza alcun dubbio la peggiore delle due grandi tragedie consumatesi in questa data (l'11 settembre 1973, data dell'inizio del colpo di stato del generale Pinochet) è quasi del tutto ignota alle masse incolte; il secondo fatto è che l'11 settembre che invece tutti conoscono, quello statunitense, è tuttora privo di una ricostruzione plausibile che metta tutti d'accordo, e che miliardi di persone in tutto il mondo siano convinte che un pugno di dilettanti del terrore abbia messo in ginocchio la prima potenza militare del mondo. 

Eppure non c'è, forse, da essere così pessimisti. L'umanità si evolve, seppure nella direzione meno incoraggiante che si possa immaginare. Il fascismo storico si serviva di manganelli e olio di ricino, e con i suoi metodi di palese prevaricazione creava malcontento e dissenso; quello odierno si è così perfezionato nella prepotenza da riuscire a instaurare una forma di dominio praticamente irreversibile: non reprimo il tuo dissenso, ti impedisco di generarlo. Creo, attraverso le nuove tecnologie, l'illusione di un dibattito libero e aperto, ma sto bene attento a limitare al massimo, in questo mare magnum di informazioni, l'accesso a quelle veramente critiche, quelle che potrebbero generare maggiore consapevolezza dei sottili meccanismi di oppressione che ho messo in piedi. E ti organizzo un bello spettacolo di marionette, in cui la libertà di pensiero si degrada a quella di scegliere se fare il tipo per Arlecchino o per Pulcinella. I veri conflitti, se posso, te li nascondo; se non posso nasconderteli, te li inquadro nel contesto del teatrino al quale farò di tutto per farti appassionare.

Pensiamo alle due fazioni in cui si è spaccata l'Italia dalla seconda metà degli anni Novanta, generando una rivalità che non è ancora del tutto esaurita: il berlusconismo e l'antiberlusconismo. Il problema dei problemi era diventato la collocazione dell'organo riproduttivo di Silvio Berlusconi, seguito a breve giro dall'evasione fiscale di Silvio Berlusconi e dalle mille magagne di cui, più o meno come qualsiasi altro imprenditore italiano di alto livello, si era reso colpevole negli anni. Nel frattempo governi di centro-destra e centro-sinistra si alternavano, licenziando leggi e decreti sostanzialmente equivalenti nell'indirizzo politico, sebbene marcatamente differenti nel linguaggio. Ma, parafrasando il megadirettore di fantozziana memoria, è tutta questione di intendersi: tu dici CIE, io dico CPT; tu dici clandestini, io dico migranti, ma alla fine la pensiamo essenzialmente allo stesso modo. Entrambi abbiamo intenzione di depotenziare lo stato sociale, tagliare la sanità e la scuola, ledere i diritti dei lavoratori. Entrambi siamo in effetti portatori di una visione antisociale del mondo e dello stato.  

Per questo mi sento vetusto, amici miei. Perchè sono già spacciato. Il resto della mia vita lo passerò, fatalmente, sotto il giogo di questo fascismo raffinatissimo che non mi darà quartiere, che mi aggredirà in mille forme diverse, veicolato ora da questo, ora da quello dei miei simili. Sarà nel comportamento dei miei alunni, nei commenti che sento per strada quando vado a fare la spesa, nelle opinioni (che fastidio mi procura solo la parola...) degli amici con cui vado a fare l'aperitivo, nelle conversazioni in uno scompartimento di treno. E, soprattutto, sarà nei social network, nelle chat di Whatsapp, in quella strana versione di 1984 apparentemente scritta da Maria De Filippi che è diventata la dimensione pubblica della vita. La soluzione sarebbe chiudermi in casa a leggere l'opera omnia di Charles Dickens e riguardare tutte le puntate di Only Fools and Horses e del Flying Circus fino a conoscere ogni battuta a memoria. Purtroppo, ahimè, non posso. Sarò vittima degli sgherri del regime. Perchè quegli sgherri, perdindirindina, siamo tutti noi.

giovedì 10 settembre 2015

La dittatura di Mario Merola

Ultimamente ho avuto modo di riflettere su una delle principali ragioni per cui questo paese è finito nel cesso, forse la principale in assoluto. Sì, ho riflettuto. Adesso fatevi bene i vostri conti, e se continuate a leggere non potrete cetro dire che non ve la siete cercata. Un po' di tempo fa scrissi un post intitolato La dittatura dell'opinione, in cui criticavo la tendenza di una certa sinistra (l'unica, purtroppo, ad essere numericamente rilevante in Italia) a trattare i punti di vista come prodotti di consumo. Personalmente credo che i punti di vista siano tutti legittimi, fino al momento in cui non si dimostrano errati. A quel punto qualsiasi essere che ambisca a definirsi dotato di moralità ha il preciso dovere di abbandonare il proprio punto di vista e aderire a quello che gli si è dimostrato più valido, fino a quando non ne emerga un terzo che risulti più valido dei due precedenti. E così via, fino a che la specie umana non si sarà levata dalla faccia lo scuorno di millenni di imbarazzanti quanto perniciose sviste.
 
E questo fa, senza il minimo problema, chiunque si renda conto che le idee non sono qualcosa che si debba possedere. E questo deve fare, nel modo più assoluto e tassativo, chiunque dica di volere un mondo più giusto. Perchè su questo pianeta, amici miei, non c'è posto per tutti. La tolleranza è un valore finchè è reciproca. Ma chi fonda la propria esistenza, come individuo o come gruppo, sulla distruzione di quella altrui non può e non deve essere tollerato. Urge una dittatura di Mario Merola, non è più procrastinabile l'avvento di un Regno del Terrore della mana smerza, che proceda a paccariare l'errore, l'inganno, il sopruso, per stabilire il lecito e l'illecito. Perchè dietro le opinioni ci sono montagne di arbitrio, di violenza, di asservimento.
 
Non so quanto possiamo resistere senza un Mario Merola collettivo che aggredisca con blasfemo furore l'idiozia dei nostri mezzi di informazione, che scaraventi per aria il bau-bau che si è fatto di Matteo Salvini, additando alle insipide genti ciò che nasconde quella buffa sagoma, ovvero un ordine mondiale che non so dire se sia più iniquo o pericoloso. Siamo persi senza questo omaccione rozzo, ignorante, incapace di raffinate analisi ma capacissimo di vedere la ragione e il torto nella vita vissuta. E avete voglia a deriderlo per i congiuntivi che sbaglia e gli eccessi di modulazione nella sua tecnica canora: lui ha ragione e voi avete torto.

lunedì 7 settembre 2015

Trasfusioni di idiozia


Cari amici del Bradipo, l'estate sta finendo. Tra poco ricominceranno a piovere le convocazioni delle scuole, che mi contenderanno come è giusto contendersi un giovanotto brillante e lavoratore, e chi mi fa il pernacchio è fetente. Tra poco non avrò più tanto tempo per scrivere, perché sarò travolto dai mille impegni e dalle mille problematiche che riempiono la giornata di un docente di scuola superiore, fosse solo per macerarsi nel dubbio di come provare a salvare gli infelici che gli hanno affidato. Approfittiamo di questi ultimi scampoli di ozio per scrivere qualche altra scempiaggine.

Ieri parlavamo di come la maggior parte degli utenti di Internet, e soprattutto dei social network, non abbia capito o non abbia voluto sviluppare nella prassi le potenzialità positive del mezzo; quelle negative, invece, vengono sistematicamente esplorate e sfruttate. Quando mi iscrissi a Facebook, nel 2007, gli utenti erano relativamente pochi e condividevano contenuti personali (foto, video, blog) o notizie. Oggi, ogni volta che entro nel social network, mi sembra di essere nella sala d'attesa del dentista. Sì, perché nelle sale d'attesa del dentista non mancano mai i rotocalchi di pettegolezzi ai quali ormai Facebook e i suoi fratelli somigliano tanto. Notizie non verificate, foto ritoccate, chiacchiere da bar, pregiudizi di destra e di sinistra. Ed è questa, amici miei, la grandissima vittoria riportata dai professionisti della comunicazione. I quali, come è naturale, si vendono a chi ha soldi per pagarli. Non esiste più nessuna possibilità di reale cambiamento sociale, politico, economico. Esistono chiese, sette, coacervi di identità affini che si attraggono per paura di essere sole, di essere niente. Il logos è finito, o è reliquia custodita gelosamente, si spera, da pochi eletti. E coloro che si credono e si dicono intellettuali sono i peggiori. Non c'è differenza, al di là delle eventuali supercazzole, fra il becero livore del salviniano o del neofascista e il buonismo aeriforme del sinistrato laureato e informato. Quest'ultimo non riesce a far altro che sbraitare e trasudare inane moralismo  di fronte alla deriva politica e morale del suo naturale uditorio, le masse di lavoratori e marginali bisognosi di soluzioni, non certo di liturgie.

Alla fine tutti, ma proprio tutti, subiscono credendo di essere protagonisti in prima persona. La vostra identità, le vostre priorità, perfino le vostre emozioni rispetto a quella parodia di vita pubblica che sono diventati i social... vi stanno sparando tutto in vena. Perché non mi metto nel novero di quelli che subiscono? Perché penso di essere meglio di voi? Lungi da me. Semmai, io sono peggio. Però io, se proprio mi devo fare un complimento, cerco di guardare le cose per quello che sono. E mi sono convinto che nessuna liturgia, nessuna appartenenza, nessuna interpretazione precotta della realtà che mi circonda cambierà di una virgola il fatto che fra due o tre settimane io ricomincerò a lavorare, da precario, in una scuola sempre più penosa, mirabile espressione e organo di riproduzione di una società sempre più imbecille, egotista e fregnona.

domenica 6 settembre 2015

Un cuore grande, due spalle fragili


Cari amici, è con amarezza che sono costretto a fare la seguente constatazione: l'idiozia umana è in grado di sviluppare al massimo tutte le potenzialità negative di una qualsiasi innovazione, e minimizzare quelle positive. Così è stato, purtroppo, anche con Internet. Quello che poteva essere uno straordinario strumento di comunicazione orizzontale si è trasformato non solo in un ricettacolo di povertà intellettuale e pressappochismo, ma anche di povertà intellettuale e pressappochismo prevalentemente verticali. Negli ultimi giorni ha spopolato sui social network l'immagine di un bambino siriano privo di vita sul bagnasciuga. Ne è seguita un'indignazione che si spiega solo con secoli di cultura cattolica, e non me ne vogliano gli amici credenti. Ci si indignava, ma genericamente. Contro chi? Boh! Vergogna!!! Ma chi è che deve vergognarsi? Ah, ecco: i razzisti. Quelli che non vogliono accogliere i migranti. 

Allora, io ve l'ho detto svariate volte che sono nato per rompere le scatole e sfrocoliare la gente con i miei punti di vista originali. E quindi adesso, come se niente fosse, mi metto a ragionare senza vergogna e senza finte indignazioni. Non è normale, non è fisiologico che maree di uomini, donne e bambini fuggano da un paese o da una determinata area geografica. Questo è ovvio. Eppure sta cominciando a farsi strada, nel campionario dei nostri luoghi comuni, la subdola frase "scappano dalla guerra". Da quale guerra? Aylan, bambino siriano della foto in questione, scappava da Kobane, città del Kurdistan siriano stretta fra l'Isis a sud e un governo tradizionalmente ostile ai Curdi, nonché testa di ponte della Nato nel Vicino Oriente, a nord. Dunque, i problemi di Aylan si chiamavano "fondamentalismo islamico finanziato e fomentato da GB e USA insieme alle monarchie del Golfo" e "ostilità del governo turco". Eppure, dal sempre colmo cilindro dell'idiozia i nostri giornalai hanno lestamente tirato fuori Al Assad e Salvini, strana coppia che però risulta perfetta per l'occasione. Chiunque sia critico dell'ordine mondiale sciagurato e antisociale che si sta costruendo sull'asse Washington-Berlino-Londra è un bersaglio legittimo e opportuno. Il Vicino Oriente va destabilizzato, va diviso, è necessario per impedire che alzi la testa come fecero negli anni Settanta, lasciandoci letteralmente a piedi. I migranti in Europa devono arrivare in massa, è necessario ad aumentare la competizione sul mercato del lavoro e distruggere quello che resta del welfare state, nella realtà e nella nostra concezione del vivere sociale.

Ora in Europa c'è  una corsa alla solidarietà, commovente e lodevole. E quanto più è nobile lo slancio dei comuni cittadini che dimostrano umanità e affetto alle vittime di una guerra targata USA-UE, tanto più gli architetti di questo ordine mondiale disastroso si sentiranno esautorati dall'agire per porre fine alla tragedia. Arriveremo a considerare normale l'esodo di un popolo dalla terra che gli appartiene di diritto e nella quale nessun Salvini lo costringeva a restare sotto la pace antidemocratica del perfido Assad. Gli Aylan si moltiplicheranno e passeranno di moda, soppiantati da altri stimoli all'indignazione calati su di noi dai think tank della comunicazione massmediatica. L'impatto dei flussi migratori farà salire la popolarità del tanto odiato, ma tanto utile Salvini, e la catena dell'indignazione si alimenterà di nuovi oltraggi alla nostra umanità. E ci troveremo sulle spalle, già debilitate da cinque lustri di barbarie neoliberista, il peso di un mondo tutto sbagliato. Chissà per quanto reggerà, sotto quel peso, il nostro grande cuore.

sabato 29 agosto 2015

Non un tossico e non un ladro

Tra poco fa un anno che sono andato via da Napoli e devo dire che, pur trattandosi di un luogo comune, è assolutamente vero che la mia è una città unica. Il che non vuol dire che non lo sia anche Genova, a modo suo. Forse in un paese come il nostro, con una storia così straordinaria, è normale che ogni città lo sia. Una delle cose che rendono unica Napoli è, a mio modesto avviso, il modo di relazionarsi dei suoi venditori ambulanti. A Napoli, quando qualcuno cerca di venderti qualcosa per strada, è quasi come andare al teatro gratis.
Un altro elemento che contribuisce a creare l'unicità di cui parlo è l'abbondanza di funicolari che contraddistingue la capitale morale del Meridione. Qualsiasi napoletano avrà certamente tanti ricordi, belli e brutti, legati a questo mezzo di trasporto. Anche io ne ho, ed uno di questi mi è tornato in mente poco fa, leggendo un commento su Facebook. Davanti all'ennesima giustificazione della criminalità organizzata con la motivazione dello stato assente e della miseria, mi sono ricordato dell'albino della funicolare. Mi pare che frequentasse prevalentemente quella di Chiaia, ma posso sbagliarmi. Anche quando ero ancora a Napoli, non lo vedevo da anni. Ad ogni modo, questo albino saliva sulla funicolare con un grosso borsone pieno di articoli per la casa e recitava un monologo che faceva più o meno così: 
                                                               
Signore e signori, buongiorno/buonasera. Non vi preoccupate, non sono non un tossico e non un ladro. Voi lo sapete, chi è albino come me non è che ci vede tanto bene, e faccio questo per campare veramente onestamente. Tengo le mollette per i panni, l'accendino, il tagliapizza, le bustine per il frigorifico (ecc. ecc.)

Qualcuno gli comprava qualcosa, o perché gli serviva davvero, o per aiutarlo. Io, pur non essendo fumatore, gli ho comprato negli anni svariati accendini. Chissà che fine ha fatto l'albino che non era nè un tossico nè un ladro. Certo che, con o senza di lui, gli ambulanti non sono mai venuti a mancare a Napoli. Chi vende l'accendino, chi il bloc notes, chi i calzini... Un esercito di miserabili che si carica i borsoni in spalla e si umilia davanti agli avvocati, ai notai, ai proprietari di negozi e di appartamenti del Vomero per campare veramente onestamente. Non so se sia meglio l'albino della funicolare o un boss di quelli che negli ultimi mesi si stanno facendo la guerra al centro storico di Napoli; se sia meglio abbassare la testa davanti alla "gente per bene", quella schifezza di borghesia che è la più autentica rovina di Napoli, o tenere la testa ben alta, imitandoli però nella sostanza con la propria assoluta mancanza di rispetto nei confronti della collettività. So solo una cosa: che anche i miserabili una scelta ce l'hanno. E che io ricorderò sempre con nostalgia non certo le facce da pitbull feroce che hanno costellato le mie tante serate al centro storico, ma quella pallida e quasi spaurita, con quegli occhietti miopi da criceto, dell'albino che non era "non un tossico e non un ladro".

venerdì 28 agosto 2015

Il vero razzismo


Per un po' mi sono trattenuto dallo scrivere questo post. Pensavo, a che pro scatenare un flame inutile, nella quasi assoluta certezza di essere frainteso dalle genti, o perlomeno dalla massima parte di esse? Poi però scatta l'insofferenza, e il bisogno di andare a sfrocoliare la mazzarella di S. Giuseppe, atteggiamento senza il quale sono certo che saremmo ancora nelle palafitte, o peggio. E, infine, c'è da considerare che questo è ormai diventato un blog di difesa personale. Io qui butto mazzate alla cecata, come amano dire a Milton Keynes. Se vi sta bene, mi leggete. Se non vi sta bene, mi darete in cuor vostro dell'imbecille e/o quant'altro, e vi allontanerete inorriditi da questo spazio molto poco educato.

Ieri camminavo per via Luccoli, elegante strada del centro storico di Genova. Mo', voi forse sapete che questa è la capitale mondiale dei vecchi; se non lo sapete, ve lo dico io. E, sarà che con Genova ho avuto un buon impatto, avendomi questa città salvato da un destino ingrato di disoccupazione/sottoccupazione/peluria di mezzi, ma a me il vecchio ligure pare quasi sempre bello e aggarbato. Il ligure, quando è signore, è signore assai. Ci saranno poi sicuramente i vecchi scostumati, sgraziati e lazzari (cadrei nella trappola del razzismo di cui parleremo in questo post se lo negassi), ma fortunatamente io non li incontro mai. Dicevo, ero a via Luccoli e, passando davanti a due signore anziane che, mi dovete credere, trasudavano signorilità, ho afferrato qualche parola della loro conversazione. Una diceva all'altra di essere ultimamente diventata razzista, cosa che non si sarebbe mai aspettata. Io, che abito nell'epicentro dello squallore del centro storico, a pochi passi dalla succitata via Luccoli, posso facilmente indovinare cosa ha spinto quella signora amabile e aggarbata a diventare razzista. Sarebbe facile, per chi conosce la topografia della città e ragiona per facili stereotipi, scagliarsi contro la vecchiaccia borghese e reazionaria, che sicuramente avrà il guardaroba pieno di pellicce e i cassetti pieni di gioielli, in disprezzo della sofferenza dei poveri mustelidi uccisi e dei disgraziati minatori sudafricani sfruttati per farla elegante e signorile. Ma vi assicuro che i radical chic di cui questo centro storico abbonda, in massima parte non vengono certo dalla Valpolcevera e non si sono mai seduti a un tavolo per fare i conti e quadrare il bilancio familiare. 

E, allora, qual è il punto? Dove voglio arrivare? Provo a spiegarmi. Però mi dovete seguire, perché se vado diretto all'obbiettivo il rischio di essere frainteso aumenta. Mi dovete seguire fiduciosi, e senza la spocchia di chi legge solo per trovare il punto e virgola da criticare. 

Vi sarà capitato, se siete napoletani (e molti di voi lo sono, non negate), di trovarvi di fronte a settentrionali che lodavano l'inventiva, il senso dell'umorismo, l'arte dell'arrangiarsi del partenopeo. Vi è capitato o no? Dite la verità! Ecco, quelli sono gli stessi che poi si lamentano del napoletano delinquente, maleducato e via dicendo. Il problema sta nel modo in cui si sovrappongono insiemi che non andrebbero sovrapposti. Il napoletano può essere simpatico e originale come può essere violento e disonesto. Probabilmente una delle due cose escluderà l'altra. La contrapposizione da fare, in questo caso non è meridionale-settentrionale, ma persona onesta-delinquente. Il fatto è che qui a Genova, per molti anni, c'è stata una fiorente criminalità napoletana. I cosiddetti "napoletani di via Prè". Non gli spacciatori, i contrabbandieri, i ruffiani di via Prè. Nossignore. I napoletani

Oggi, nella zona di Via S. Luca, nella quale ho avuto la sfortuna di venire ad abitare, c'è una fiorente criminalità centro-africana. Pur non essendo napoletani, si fidano di fare una quantità di tarantelle ragguardevole. Spacciano droga (quella infame, non quella per fare la sigaretta simpatica), derubano, imbrogliano, ti imparoleano e alla fine della giostra restano con i tuoi venti euro in mano e ti mandano via con un calcio in culo. Praticamente dei napoletani. Al supermercato di fronte casa, pressoché circondato dal percolato umano di cui sopra, due ragazzi di colore provenienti quasi certamente dalla stessa zona dell'Africa scaricano merce dalla mattina alla sera. La signora di via Luccoli però, quando pensa ai neri, non pensa a loro, che sono praticamente italiani. Pensa a quegli altri, a quelli praticamente napoletani.

E adesso credo di poter dare l'affondo, perchè se non avete capito ancora siete di ferro, come dicono nel Lanarkshire orientale. Non esistono "i migranti", se non quando salgono su quei terrificanti barconi che non ci si spiega come facciano a galleggiare. Appena mettono il piede a terra, se non siamo dei completi imbecilli, dovremmo pensare a loro nello stesso modo in cui pensiamo ai napoletani. Ce sta 'o bbuono e ce sta 'o malamente. Il vero razzismo è metterli tutti insieme. Hanno già fatto un viaggio infernale nella stessa barca. Una volta scesi, per carità , non ce li rimettiamo. 

sabato 22 agosto 2015

Mundo perroflauta

Cari lettori, buon pomeriggio. Oggi ricomincia il campionato di Serie A, per cui immagino che molti di voi avranno di meglio da fare che non leggere le mie elucubrazioni da quattro soldi. Ma siccome sono, come ben sapete, affetto da narcisismo patologico, e scrivo innanzitutto per me stesso, here goes, come dicono a Mercato S. Severino. 

Cominciamo dallo spiegare il lessema "perroflauta", un neologismo del castigliano del quale mi sono innamorato al primo ascolto. Si ottiene fondendo "perro", ovvero "cane", e "flauta", che come avrete intuito vuol dire "flauto". Si tratta dell'hippie 2.0, una sorta di samurai della deboscia e del sudore ascellare che vive nelle nostre città, cibandosi del prodotto dell'altrui lavoro. Quale sia il mio atteggiamento rispetto a questa categoria umana l'avrete capito già dalla descrizione che ne ho fatto. Va aggiunta una postilla: il perroflauta, more often than not, come si dice a Terzigno, si riconosce in ideologie politiche di sinistra, o presunte tali.

Di fronte a casa mia, in particolare, c'è un edificio occupato da perroflautas e adibito a maniero dell'inanità, nelle forme a loro più congeniali. E' importante capire che l'ozio del perroflauta non è semplice pigrizia, tende a un fine ben preciso: quello di distiguersi, in tutto e per tutto, da genitori schifosamente "borghesi" che lo hanno nutrito, lo hanno vestito, lo hanno fatto studiare, preparandolo a diventare come loro. E quindi, secondo uno schema semplice ma efficace: il borghese si taglia i capelli? Io me li faccio crescere; il borghese si veste in un modo, io in un altro, il borghese lavora per fare soldi, io faccio lavoretti col vimini quando ne ho voglia e così via

Perché vi parlo di questo? Per un semplice sfogo da vecchio intollerante e rancoroso? No, non solo. Ve ne parlo perché mi accorgo che il mondo è sempre più perroflauta, e che questo perroflautismo fagocita ogni possibilità di reale, autentica liberazione. Se tu, dopo aver disegnato A cerchiate su ogni porta e su ogni muro del tuo squat, realizzi ogni tua vocazione e ambizione attraverso uno stile, una forma che lascia inalterata la sostanza dei rapporti sociali - che sono essenzialmente rapporti di produzione, e quindi afferenti alla sfera del lavoro -  sei di fatto un conservatore. E il tragico fraintendimento in base al quale passi per un rivoluzionario non fa che danneggiare la causa a cui i simboli di cui ti ammanti alludono.

Ti vedo, amico perroflauta, aggirarti per il supermercato di fronte casa, con il tuo cane e i tuoi dreadlock, in breve in uniforme da perroflauta. E tu, li vedi le donne e gli uomini che lavorano lì, per un salario probabilmente miserrimo? Riempiono scaffali, scaricano pedane di generi alimentari, battono articoli alla cassa. Quelli più sfortunati sono nel retrobottega del panificio annesso al supermercato, sfornano focaccia a ciclo continuo, li vedi fare capolino ogni tanto solo per rifornire il bancone. Sono sudati, stravolti dal caldo e dalla fatica. Hanno bisogno di aiuto. Hanno bisogno di un nuovo ordine, quello a cui allude la lettera O che cerchia la A nel simbolo che hai dipinto sulle tue porte, sui tuoi muri, sulla tua saracinesca. 

Ma perché insisto a prendermela con te. Come dicevo prima, il perroflautismo è di moda, se non nelle apparenze esteriori nella sostanza. Collocarsi nel proprio spazio per definire la propria identità, e al diavolo gli altri. La nuova Sinistra sembra essere questo. Apathie dans l'ordre. E allora, cosa resta da dire? Bau...

giovedì 20 agosto 2015

La vera merdaccia



Buonasera a lor signori. Stasera, sempre se avete ancora il masochismo di leggermi, vi tocca una giaculatoria da anziano intollerante. Ormai si tratta di una modalità sempre più usuale per il sottoscritto, che trova ormai insostenibilmente difficile e penoso destreggiarsi in un mondo egemonizzato dall'idiozia e dall'egoismo più bieco. Qualcuno di voi forse saprà che la PEC (Posta Elettronica Certificata) non è più offerta come servizio gratuito. Ce l'hanno imposta, ci hanno lasciati abituare al suo utilizzo, ed ora la privatizzano. Si chiama captive demand. Il capitalismo 2.0 funziona così.

E va bene, mi piego al volere di Sua Maestà il belino che vola basso, e accetto la mia sorte. Stipulo un contratto online con le Poste Italiane, ed è qui che l'ineluttabile necessità di bestemmiare mi aspetta al varco: qualcuno dalla suddetta "azienda" mi risponde che il documento da me inviato non è completo, in quanto mancherebbe il retro. Ora, se la persona in questione avesse avuto il tempo o la perizia di approfondire la faccenda, si sarebbe accorto che il retro della C.I. c'è eccome; bastava voltare pagina sul documento PDF creato dalla simpatica da imbranata tabaccaia che mi ha scansionato il documento. Ma forse si trattava di uno sforzo eccessivo, o magari una simile soluzione andava oltre gli orizzonti informatici della personcina in questione. 

Perché te la prendi tanto, penserete. Perché sono veramente tanto, ma tanto incazzato con il mio paese. Con la sua ipocrisia, la sua pretesa di fraintendere e dare valore di legge universale al fraintendimento. Guardatevi bene quel video, e poi soffermatevi sulla seguente affermazione: in questo sciagurato paese ha vinto Calboni. Ha avuto tutti, ma proprio tutti dalla sua parte, per motivi diversi. Per questo quelli che dicono di voler aiutare questo paese fanno in genere di tutto per sabotarlo. Siamo in Calbonicrazia. La dittatura dei fanfaroni, dei fannulloni, dei bugiardi, degli avventurieri. Di chi si procura, con mezzi più o meno illeciti, ma mai del tutto onesti e trasparenti, un po' di benessere, e fa tutto quanto sia in suo potere non solo per conservarlo, ma anche e soprattutto per usarlo contro di te. Per te, che alla fine dei giochi ti ritrovi cucito addosso l'epiteto di merdaccia. E allora che si sappia, una volta per tutti, che la vera merdaccia è lui. 


sabato 8 agosto 2015

La fine del lavoro?


Sempre più spesso, miei cari iniziati, leggo di questo concetto. Stuoli di aspiranti giovin signori, stanchi di doversi sottomettere a ineffabili supplizi e disumane fatiche per assicurarsi la sussistenza, anelano alla condizione di fancazzisti, inquilini di un Eden comprato a caro prezzo, dopo anni di sveglia alle sette e fantozziache routine per non arrivare tardi sul luogo del proprio sfruttamento. Comprensibile, certo. Ma possibile?
 
Credo che si rischi di rimanere vittime di una cattiva interpretazione di concetti non ben compresi. Il fatto che il lavoro si stia trasformando sotto tanti aspetti non significa certo che stia sparendo, nè che possa diventare superfluo. Ma, prima di inerpicarci in un'analisi (come al solito poco informata e da quattro soldi) dovremmo un attimo intenderci sul significato di "lavoro". Nella visione comune, il lavoro è tradizionalmente associato alla sudditanza, alla fatica, alla sofferenza; queste sono caratteristiche accidentali, non sostanziali, del lavoro. Il fatto che esso si svolga secondo logiche violente e distruttive è anch'esso accidentale. L'aspetto sostanziale del lavoro è l'esercizio di uno sforzo per raggiungere un risultato ritenuto utile o comunque desiderabile da chi lo compie.
 
Io, per esempio, oggi mi sono impegnato in una registrazione di un brano musicale. Non ho sofferto, non sono stato angariato da nessuno, ma mi sono stancato. Non ho cazzeggiato, mi ci sono messo d'impegno. Ho lavorato. Il lavoro, TUTTO il lavoro, potrebbe e dovrebbe essere questo: impegnarsi per fare qualcosa che ci interessa per la sua utilità o per la sua bellezza. 
 
Oggi, purtroppo, il lavoro non è così. E se alcuni strati della società si vedono progressivamente messi ai margini di quel mondo, in virtù di meccanismi complessi che non è questa la sede per affrontare, in Puglia la gente muore di stenti mentre raccoglie pomodori. Per loro, evidentemente, il lavoro non è finito. Come non è finito per gli operai che assemblano i nostri smartphone, e che in alcune fabbriche avevano cominciato a suicidarsi uno dopo l'altro, fin quando non gli hanno messo reti protettive per vietargli anche la morte. Non è finito per gli addetti del mio supermercato di fiducia, che non smettono mai di riempire scaffali e battere prezzi, e non è finito per il ferramenta di PIazza Banchi, che ha sempre la fila fino a fuori dal negozio. Perchè se non smettiamo di consumare non possiamo smettere di lavorare, al massimo possiamo scindere le due funzioni.
 
Due individui abilissimi nello scindere le
funzioni di produttore e consumatore.
 
E allora lasciatemi concludere questo ennesimo inane deliquio con un auspicio: che il lavoro possa diventare per tutti quello che è stato oggi per me: una grata e fruttuosa fatica.
 
 
 

giovedì 6 agosto 2015

Una vita violenta


Penso che chiunque anbbia letto Una vita violenta di Pasolini sia rimasto profondamente colpito dal passaggio sulla rapina al benzinaio. Tommaso e gli amici devono fare serata e sono rimasti senza soldi; qualcuno suggerisce di "prelevarli" da uno qualsiasi dei benzinai dei paraggi, che in quella zona isolata dopo il buio diventano prede facili. Il povero cristo viene lasciato mezzo morto sul ciglio della strada, e la combriccola se ne va a ballare, o all'osteria, adesso non ricordo.

Pierpaolo Pasolini aveva capito una cosa molto importante dell'epoca che stiamo vivendo. Qualcosa che nei suoi anni germinava, e che oggi impera come legge suprema del sociale: la ferocia disumana della logica del consumo. Il modo in cui disgrega le comunità, ci isola, ci pone in antagonismo gli uni con gli altri. In particolare Pasolini ce l'aveva con la televisione, quella cosa che poteva parlarti senza darti la possibilità di rispondere. La modalità stessa della "civiltà dei consumi" è violenta: crediamo di essere liberi, ma non possiamo fare altro che scegliere fra un certo numero di alternative, tutte eteroprodotte, e quindi tutte, in ultima analisi, imposteci. Secondo questo fesso (se dico "fesso" ovviamente non parlo di Pasolini ma del Pier Paolo reoconfesso di tale condizione) tale violenza non potrà essere sradicata fin quando i lavoratori non controlleranno tutti i processi di produzione e distribuzione della ricchezza, creando così un'essenziale identità fra la condizione di produttore e quella di consumatore. Perché allora saremo necessariamente responsabili di ciò che consumiamo.

Ma un simile stato di cose è, purtroppo, remoto dalla realtà che ci avviluppa. Se mi guardo intorno, in questo bislacco angolino di Italia in cui sono capitato, vedo un sottoproletariato morale dedito al gioco d'azzardo, alla dipendenza da alcol e droghe, alla microcriminalità e a mille forme, più o meno gravi, di prevaricazione. Prevaricati, prevaricano. Replicano modelli eteroprodotti. Litigano, si mandano a quel paese, qualche volta vengono alle mani, e qualche volta spaccano qualche bottiglia per mostrare i denti. Devono avere certamente "la guerra in testa", come si dice a Napoli. La guerra in testa come Tommaso Puzzilli e i suoi compagni di scorribande, vittime e carnefici allo stesso tempo; perchè una cosa non esclude l'altra, sapete. 

Il bislacco angolino di mondo di cui parlo è il centro storico di Genova. Io abito a Piazza San Luca, a due passi dallo stazionamento dell'autobus numero 1, dove un paio di settimane fa hanno ridotto in fin di vita un poveraccio. I giornali hanno parlato di omofobia. Che volete fare, non è più stagione di cervelli, sui giornali non scrive più un Pasolini, e si vede. L'omofobia, fidatevi, è assolutamente marginale in questo episodio. Il movente dell'aggressione poteva essere "mi hai pestato un piede" o qualunque altro. Il branco ha individuato una vittima e ha proceduto a demolirla. Anche la violenza gratuita è un consumo. L'aggredito ha assolto a una funzione precisa: quella di permettere agli aggressori di sfogare un qualche bisogno che sarebbe necessario uno psicopatologo criminale per definire esattamente, quel bisogno che il sapere popolare identifica tradizionalmente con il prurito alle mani. La vittima è stata reificata, perchè agli occhi degli aggressori era, a tutti gli effetti, una cosa. Lungi da me sollevare gli autori di questo odioso gesto dalle loro responsabilità, ma se episodi simili, disgraziatamente, sono così frequenti, c'è un motivo. Succede perchè una determinata organizzazione sociale ed economica ci costringe a vivere un certo tipo di vita. Una vita violenta. 

venerdì 31 luglio 2015

Perché altrimenti...

 
Cari amici, buonasera. Il lavoro dell'insegnante è faticoso e ingrato, sapete? Dopo nove mesi passati a combattere l'ignoranza, dopo nove mesi di travaglio, di fatica titanica, arriva un lungo trimestre di vuoto. Come una neo-mamma, l'insegnante a giugno si trova improvvisamente sgravato della sua prole di sapienza e saggezza, e non sa più come riempire le giornate. Può addirittura capitare, in un momento di scarsa lucidità, che apra uno dei mille link in cui si imbatte nelle sue peregrinazioni internautiche, in cui si parli della Corea del Nord. Ora, costui è saggio, come abbiamo detto poc'anzi, e dovrebbe sapere che quando nello stesso link coesistono le sequenze di lessemi "Corriere della Sera" e "Corea del Nord" si preannuncia una ricca insalata di nonsense. Eppure, preda del caldo estivo e della propria incapacità congenita di sottrarsi all'altui idiozia (come se non bastasse la sua), apre quel fatidico link

Il post non si dilungherà sul contenuto demenziale dell'articolo. Ormai non ce ne dobbiamo stupire più, dopo la bufala sulla gente giustiziata con i cannoni antiaerei. Quello che vorrei fare è una considerazione sull'ossessione della nostra stampa per la Corea del Nord. E comincerei con una domanda: ma voi, cari lettori, ci vivete bene oggi in Italia? Credo che sia opportuno partire da qui, per comprendere tanto accanimento contro il paese asiatico. Sono del tutto irrilevanti il tenore di vita dei norcoreani, l'apertura della loro società o la brutalità della loro polizia; quando i giornalai italiani parlano di loro, in realtà stanno parlando di noi.

E allora vi rinnovo la domanda: voi, in questo paese, ci state bene? Può essere che alcuni di voi rientrino nella sterminata schiera di disoccupati o sottoccupati che aumenta continuamente e non sembra destinata a diminuire; forse qualcuno fra voi avrà ricevuto una cartella esattoriale da quella associazione a delinquere che si chiama Equitalia, o magari vi vedete ogni mese mangiare una parte considerevole dello stipendio dal padrone di casa, a causa di affitti ormai spesso esorbitanti rispetto a salari sempre più modesti. Perché tanti, tantissimi italiani, oggi stanno male. Pinocchio si è visto strappato al paese dei balocchi e sta cominciando a rimostrare contro Lucignolo, mentre Mangiafuoco gli propone contratti a tempo determinato che non gli permettono neanche di coprire il costo mensile delle sigarette. E allora? E allora bisogna mettergli paura. 

Sì, è vero, siamo in una fase di stagnazione economica, è dura, ma bisogna mantenersi ottimisti e soprattutto continuare a credere nella nostra classe dirigente e nelle sue ricette provatamente fallimentari, perché altrimenti... perché altrimenti finisci a vivere in un paese in cui si nasce prigionieri e ti torturano senza motivo, se ti fai una risata ti mettono al muro e ti giustiziano a cannonate, se fai un pirito non ne parliamo proprio. Molto peggio dell'Italia, dovrete convenire con me, in cui se ti torturano, se ti sparano addosso, se ti tolgono la casa, il lavoro, la dignità, il futuro, cè sempre un motivo. Qui non ci sono dittatori arbitrari con improbabili tagli di capelli. Basta imparare, qui da noi, a non mettersi dalla parte sbagliata del plotone di esecuzione. Perché altrimenti...
 

mercoledì 8 luglio 2015

A Genova non si gira a sinistra


Cari amici, buonasera. Vi scrivo dalla ridente Genova, altresì detta Zena, città di mare, e pertanto di stridenti contraddizioni e flagranti contrasti. Questa, cari i miei loro, è un'allitterazione, non è mica una pipa! Ma secondo voi Totò, quando diceva al sergente Quaglia che la sua era una pipa, non un capitone, stava facendo un ironico riferimento a Magritte? Bah, comunque restiamo sull'argomento. Il quale è il seguente: il dogmatismo delle umane genti.

E partiamo, come si addice ai solipsisti quale io sono, dai cazzi miei. Da quando ho acquistato un Kimco Grand Dink 250 usato, me ne vado allegramente a zonzo per questa bella città, che in meno di 10 minuti ti porta dal mare alla montagna e viceversa. Orograficamente, Genova si può paragonare a Salerno, anche se per dimensioni è molto più simile a Napoli. Ma sto di nuovo divagando. Il punto è che, in questa meravigliosa città, per andare dove devi andare, non si capisce mai da che parte devi andare. La cosa più difficile, come avrete capito dal titolo del post, è che non ti fanno mai girare a sinistra. Ilo sistema della viabilità è molto rigido al riguardo. E quando il semaforo dice VERDE, il genovese proveniente dal senso di marcia opposto parte de capoccia, con una guapparia e una determinazione di matrice meroliana. E provaci, a girare a sinistra... Il brutto è che, mentre nella natia Partenope l'automobilista è tanto circospetto quanto tollerante, qui a Zena, come noi medaglia d'oro della Resistenza, egli si proietta verso la meta con una proterva iattanza di stampo futurista, D'Annunziano, quasi fascista. Nunn'o faje niente. Quando il semaforo è verde, lui arrota pure Gesù Cristo, se gli si para innanzi. 

Cari lettori, l'irriformabile imbecille che state leggendo è sempre più inquietato da questo tipo di atteggiamenti. Egli, per indole e formazione, predilige la flessibilità, la reciproca comprensione, la composizione pacifica e ragionevole dei bisogni e degli interessi. Si è persuaso che, più leggi ci sono, meno ordine c'è. Si è convinto che è questione di mettersi d'accordo, in barba a quello che qualche deficiente rivestito di autorità ha fatto dipingere sull'asfalto o su un cartello stradale. O genovese, renditi malleabile: guarda la mia freccia lampeggiare, prova compassione per il mio predicament, come dicono a Mugnano di Napoli, e schiaccia pietoso il pedale del freno. La Madonna, pur essendo priva dell'attributo dell'esistenza fattuale, te lo rende. Io eviterò di girare a vuoto per un quarto d'ora, con il rischio non trascurabile di finire a Voltri invece che a Caricamento, e tu sarai in autentica comunione con il Creato, persino con le sue forme di vita più semplici e gerarchicamente pi basse, come il sottoscritto. 

Sai cos'è? Non è tanto il fatto di girare a sinistra. E' piuttosto che le regole andrebbero fatte per vivere meglio insieme, per non arrecarci danno l'uno con l'altro. Si comincia col mandare me a Savona per fare un'inversione e si finisce con gli ultimatum del FMI e le atrocità dell'ISIS o del battaglione Azov. Il dogma. Quello è il problema. Quella pesante coltre di violenza implicita che, mentre scorazziamo con lo scooter per la città  finalmente liberi dal gioco dell'IPSSAR Bergese, ci fa sentire come Butch Cassidy ogni volta che vorremmo girare a sinistra.  

venerdì 12 giugno 2015

Zitto, idiota!

Ebbene, un post con questo titolo non poteva che recare la mia immagine, un'illustrazione grafica della quintessenza dell'idiozia. Guardatelo, rimiratelo, questo sontuoso imbecille, mentre si ingozza di focaccia, sfoggiando un sorriso ebete e incosciente. E pensate che voi state leggendo cosa ha da dire un simile deficiente. Alla gente colta, quella che ha letto i libri scritti fitti fitti e senza le figure, questa cosa non sta bene. E ci mancherebbe! Adesso uno arriva, tomo tomo, e si mette a esercitare il diritto alla libera espressione senza prima avere sostenuto un esame di idoneità. E che diamine...
 
Esponiamo l'antefatto, per chi non avesse ancora capito a cosa mi riferisco: il prof. Umberto Eco, leggenda vivente del mondo accademico e intellettuale italiano, ha tuonato contro Internet. In una esternazione che per i suoi toni ricordava più la mamma di Robertino che non un Marshall McLuhan, se l'è presa con queste diavolerie moderne che consentono a cani e porci di dire la loro, senza che li si possa mettere a tacere. Ora, sarebbe lecito chiedersi: visto che il prof. Eco non è in fila per vedere un film come Woody Allen, e può tranquillamente sottrarsi a tutta questa libera idiozia, che cosa lo infastidisce tanto? Io, come tutti gli idioti, ho sempre una teoria su ogni cosa. Anche su questa esternazione. Se volete evitare di leggere una stupidaggine, siete ancora in tempo. 
 
Ci siete ancora? Bene, avete esercitato il vostro libero arbitrio. Questo, e niente altro, infastidisce secondo me il prof. Eco. Proviamo a pensare a quante stupidaggini abbiamo letto sui giornali, anche nella versione cartacea, durante le nostre vite. O, per meglio dire, a quanto di quello che abbiamo letto ci è sembrato stupido. Io, per esempio, trovo "l'amaca" di Michele Serra insopportabile, se qualche volta mi forzo a leggere un'uscita è per poterla criticare con consapevolezza e precisione. Eppure non ho interesse a proibire a Serra di esprimere la sua visione della vita snob, classista e perbenista. Capisco invece molto bene che, se fosse costretto a giocarsela ad armi pari con lo sterminato esercito di scafessi che tengono un blog in Rete, non sarebbe affatto scontato il suo successo. Rischierebbe di finire nelle sabbie mobili di un pluralismo eccessivo. Rischierebbe di essere surclassato dagli idioti. Ma che cos'è un idiota?
 
Nel 1869 Dostoevskij pubblica un romanzo intitolato, appunto, L'idiota. Il protagonista è un nobile decaduto affetto da epilessia, che a causa della sua malattia si è trovato estromesso dal mondo, relegato in un villaggio svizzero, sotto le cure di un medico russo. Tornato in patria, l'idiota mette in subbuglio le vite di tutti coloro che entrano in contatto con lui. Come? Dicendo sempre quello che pensa e che sente, e comportandosi di conseguenza. Facile intuire che, con un atteggiamento del genere, il principe Myškin non tarda ad attirare su di sé sentimenti di paura e odio. Poche cose fanno paura al borghese quanto la libera espressione del pensiero, quando cessa di essere appannaggio di pochi individui accomunati nel privilegio. Si teme, e giustamente, che l'idiota strappi la foglia di fico che nasconde la vergogna della disuguaglianza, dello sfruttamento, dell'oppressione, della violenza socialmente ed economicamente organizzata. 

E questa paura non è certo nuova. Ha accompagnato la specie umana per molti secoli. Esattamente come gli idioti. Che hanno riempito il teatro, la letteratura, il cinema, tutte le forme di espressione culturale dall'antica Grecia a oggi. Il candore dell'idiota ci spaventa e, proprio per questo, ci affascina. All'idiota si perdona tutto. A patto, ovviamente, che rimanga nel suo spazio, e non pretenda di mettersi sullo stesso piano dei dottoroni. Dobbiamo vederlo arrossire e scusarsi della propria semplicità, come il principe Myškin, o fare buffe capriole con il suo berretto a sonagli, come un giullare medievale. Se gli viene in mente di prendere la parola, ricordarci che questo è anche il suo mondo, e che quindi anche lui ha diritto di essere ascoltato e tenuto in conto, gli rovesciamo addosso improperi. Se, ad esempio, qualcuno che non ha fatto l'università dice che non è giusto pagare tasse per finanziare la corruzione e il malcostume, anziché l'erogazione dei servizi ai quali avremmo diritto, è un populista. Se constata l'ovvio nel far notare che la nostra classe politica non si occupa più del benessere del paese (sostituire la formulazione ingenua con il sostantivo "masse"), cosa che nella Prima Repubblica faceva, pur con mille storture e all'interno di un paradigma esecrabile, è un disinformato, che non sa quante cose buone ha fatto il governo Renzi (segue lista di provvedimenti dall'impatto sociale limitatissimo o nullo). Allora non sorridiamo più, ma ci trasformiamo in tanti Rogožin, pronti ad uccidere l'idiota prima che sia troppo tardi.

Ora, cari amici, mi metto a lavorare. Devo preparare le programmazioni finali e gli esami di riparazione per quegli idioti che si sono fatti rimandare. Devo consentire loro di "redimersi". Io, che di idiozia ne ho subita davvero tanta, in un anno di insegnamento all'IPSSA Nino Bergese, mi sono persuaso che non vanno messi a tacere gli idioti, ma l'idiozia.

domenica 7 giugno 2015

Quando il gallo scende dalla monnezza

Cari amici, buongiorno. Nonostante un riposo disturbato da problemi di respirazione, il mattino mi ha trovato giulivo e gaudente. Vedere i colori bianconeri sconfitti è una gioia pura, assoluta, che ci ripaga di una stagione non esaltante per i colori azzurri e di una vita che ci somministra le soddisfazioni come gocce di collirio. Ma gli occhi di Andrea Pirlo, ieri sera, lacrimavano della più cupa angoscia, non certo per una banale congiuntivite; e di questo noi, meschini odiatori di lestofanti, ci beiamo. Detto ciò, mi permetto di lanciarmi in una riflessione, invitandovi per la vostra sicurezza a localizzare le uscite di sicurezza più vicine.
 
Io mi aspettavo che la Juventus, ieri sera, perdesse. Non perchè il Barcellona fosse genericamente "più forte". Lo è, ma non è questo il punto. Il punto è che la Juventus è una squadra costruita per primeggiare in contesti diversi. In altre parole, per vincere nel nostro campionato sono necessarie delle qualità e un'impostazione che rendono molto improbabile vincere nelle competizioni europee. Cercherò di spiegarmi, partendo da un'affermazione apparentemente provocatoria: la Juventus è una squadra dalla mentalità perdente. Procediamo a illustrare.

Che cosa è successo ieri sera? Che, dopo il gol iniziale di Rakitic, i bianconeri sono riusciti a pareggiare, concretizzando una cinquantina di minuti di grande intensità. A quel punto, con il Barcellona rintronato dalla mazzata, avrebbero dovuto e potuto gestire l'incontro con calma, fare possesso palla, mantenere la lucidità e aspettare che il Barcellona, favorito e perciò sottoposto a una pressione psicologica maggiore, si scoprisse. Mi correggo, avrebbero potuto farlo se fossero stati una squadra costruita diversamente. Quello che è successo è stato che l'agonismo è schizzato alle stelle, con qualche fallo di troppo e una quantità di proteste francamente insopportabile (vederli fare così in Champions ricorda un po' Mastella che al poliziotto di New York diceva "lei non sa chi sono io"). Il Barça ha giocato a calcio. Non ha fatto una partita stellare, ha semplicemente giocato a calcio. Sì, qualcosa ha concesso, come è normale che sia quando si tiene il baricentro alto. Ma così si vince una finale di Champions' League.

Saltiamo di palo in frasca. Molti tifosi napoletani hanno salutato la dipartita di Benitez non solo con sollievo e soddisfazione, ma addirittura dando sfogo a un certo astio. Io, che non sono rafaelita perchè poco propenso all'idolatria, devo però dire che le colpe non sono tutte del panzarotto iberico. Noi l'abbiamo chiamato, teoricamente, per vincere. Ricordate De Laurentiis dire chiaro e tondo che lui voleva lo scudetto? Benitez ha portato con sè una mentalità vincente, il presidente avrebbe dovuto mettere a disposizione la potenza economica. Quella, lo sappiamo, è venuta meno. Eppure il Napoli in questi due anni ha provato a giocare come una grande. Ha perso la sfida, ma innanzitutto fuori dal campo. A sconfiggerlo è stata una cultura della rinuncia, il modus operandi di un paese in cui non si lavora per migliorarsi e ottenere il migliore risultato possibile, ma per impedire agli altri di superarti, con ogni mezzo. Le provocazioni di Chiellini, i calci di Vidal, le proteste di Lichtsteiner. Questa è la mentalità perdente a cui mi riferivo.

Il gallo sulla monnezza è il vero emblema della nostra esecrabile cultura sportiva, politica, economica. Il feudalesimo. Il banchettare arroccati nel proprio castello mentre intorno i marrani muoiono di stenti. Dovrebbe essere cucito sulla bandiera, un bel gallo fiero e protervo su un mucchio di rifiuti. E guai a scendere; si rimediano solo brutte figure.