Sempre alieno al contesto, ormai è un'abitudine consolidata. Nel giorno in cui vengono a mancare simultaneamente Lucio Dalla e Germano Mosconi, il vostro Bradipo sente l'impulso a scrivere di tutt'altro. La Repubblica online pubblica oggi un'intervista al carabiniere ormai noto all'Italia intera con l'appellativo di "pecorella". Leggo l'articolo, e rifletto sul concetto di violenza, che è a mio parere molto più complesso e problematico di come venga posto dall'informazione mainstream.
Essendo stato uno studente di linguistica, ed essendo uno che si diletta a giocare con le parole, mi sembra naturale partire proprio dal lessema violenza, e chiedermi cosa voglia dire. Molto spesso si usa il sostantivo violenza, o l'aggettivo corrispondente, per riferirsi a qualcosa di rude, duro, ma non violento in senso stretto. Il rugby è uno sport violento, opina qualcuno; se parliamo poi di pugilato, il giudizio è quasi unanime. Eppure, quando due pugili salgono sul ring, sanno benissimo di doversi prendere a pugni, e di solito sono preparati atleticamente e psicologicamente a subire i colpi dell'avversario. Dunque sarà più appropriato dire che la boxe è uno sport rude, duro, piuttosto che violento. Se pensiamo al verbo violare diventa più visibile quell'area semantica coperta dai termini "violenza" e "violento", e spesso dimenticata. Se risaliamo all'etimo di questa famiglia di parole, ci rendiamo conto che l'essenza della violenza non sta nell'uso della forza, ma nell'uso illegit timo, perverso (nel senso latino) di essa. Violenza è un sinonimo quasi perfetto di prepotenza. Un pugno non è necessariamente violenza, mentre un tratto di penna può essere un gesto smodatamente violento. La violenza non implica l'esercizio della forza fisica o un atteggiamento rabbioso e scomposto; anzi, la peggiore violenza è quella talmente strutturata e consolidata da poter essere praticata in assoluta serenità.
Facendo un ulteriore passaggio logico, possiamo affermare che il concetto di violenza è indissolubile da quello di prevaricazione. Quando il debole tira un pugno, è invariabilmente per difendersi. E non lasciamoci ingannare dal fatto che il forte se ne sta lì serafico, senza una piega o una gualcitura sul doppiopetto di Saville Row: la sua violenza è delegata ad altri, e quel magnifico esempio di alta sartoria che indossa è, a ben vedere, una sorta di uniforme della peggiore categoria di violenti.
Il ragazzo sardo di 25 anni che si è guadagnato l'encomio del suo capo e il plauso di qualche radical chic che legge Repubblica è uno strumento di violenza. Impassibile, senza titrare un solo colpo di manganello, senza reagire alle provocazioni che subiva, il giovane F. ha difeso con il suo corpo, unito a quello di tante altre pecorelle, un sopruso di inusitata violenza. come altro definire un'opera che si fa passando su un dissenso così forte e diffuso? Il carabiniere F. non è cattivo, come Mario Placanica. Certo, non è neanche Salvo D'Acquisto o uno di quegli eroi delle fiction. Fa il suo lavoro di pecorella, a difesa dell'altrui violenza, usando la forza solo se è necessario. Ma non è una vittima, quello no. Lasciate stare Pasolini, e non ci rompete i coglioni con la storia che F. è figlio di un operaio. La violenza, quella seria, quella pesante, è un fiume di merda che sgorga da sorgenti d'alta quota. Quando arriva da noi, qui a valle, si può scegliere solo se navigarlo oppurtunisticamente o cercare di arginarlo. E il giovane F. ha scelto di farci rafting, in quella merda, sulle teste di chi ci affoga.
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