Buonasera a lor signori. Parliamo, tanto per cambiare, di scuola. Tanto ormai lo avrete capito, ci sono fissato. Il lavoro debilita, certo, l'uomo, ma al contempo lo nobilita. Senza il mio lavoro io sarei un coglione dalla rada capigliatura che scrive idiozie su Facebook, strimpella orrendamente la chitarra e consuma le risorse del pianeta. Lo so per certo, perché fino a un paio di anni fa lo ero.
Dunque, come potreste aver evinto dal titolo, parliamo delle colpe dei genitori rispetto all'indeguatezza scolastica dei figli. Lungi da me assolvere gli orridi mutanti che riempiono le mie classi da tutti i loro innumerevoli vizi, una vastissima gamma di nequizie che va dall'incontinenza al sadismo; piuttosto, mi interessa individuarne le cause scatenanti.
Imparare vuol dire interagire con il mondo, e fin qui non credo di dover dimostrare nulla. Tutti abbiamo un amico o un parente che, dopo un periodo più o meno lungo trascorso all'estero, è tornato in Italia onusto della conoscenza di una lingua straniera. Il malvagio John Peter Sloan, alfiere dell'imparare divertendosi e pertanto nemico naturale di ogni docente di inglese, vorrebbe farvi credere che l'idioma della perfida Albione è tutto una gag. Io, invece, vi dico che lo zio emigrante ha imparato a parlarlo soprattutto grazie all'immenso valore educativo della frustrazione. Il bambino impara a dire "acqua" nel momento in cui la madre decide di dargli da bere fuori dai pasti solo in seguito a una richiesta verbale. Se questa vi sembra una crudeltà, andatevi a guardare due gag del mio nemico e non mi leggete più. Frustrare il bambino, entro certi limiti, vuol dire fare il suo bene. Se lo zio emigrante ha imparato a esprimersi in inglese è stato per soddisfare le sue necessità, per sottrarsi a uno stato di perenne disagio. Ed è per lo stesso motivo che i nostri lontani antenati hanno imparato ad accendere il fuoco, inventato la ruota, ed escogitato sistemi di simboli per rappresentare il linguaggio. La frsutrazione è una sfida, e vincerla ci fa crescere, in ogni senso.
La domanda che scatta a questo punto è la seguente: i genitori vogliono che i loro figli crescano? Sono in grado di volerlo? Vi sembra un quesito strano? Bene, partiamo da lontano. Ve la ricordate la bufala dei gatti bonsai? L'idea di poter distorcere lo sviluppo di una forma di vita a fini estetici, sebbene abbia dei risvolti evidentemente grotteschi, non è così lontana dalla mentalità di molti genitori, sapete. I figli sono qualcosa di loro, quasi come una proprietà personale, da imbottigliare nelle loro aspettative, da assoggettare alle loro dinamiche, e soprattutto da esibire. E, in un'epoca di infelicità tragicamente dilagante, la prima cosa da esibire è proprio la felicità. La persona che non ha strumenti di analisi adeguati confonde la frustrazione di cui si parlava prima, quella che può essere vinta, con un altro tipo di frustrazione, perenne e strutturale, e cerca disperatamente di sottrarsi, e sottrarre coloro che ama, al malessere più tetro, soddisfacendo immediatamente ogni pulsione soddisfacibile. In breve, pratica il consumismo. Lo pratica in ogni ambito della vita sociale in cui gli sia possibile praticarlo. Dal momento che ormai la scuola è un servizio erogato ai singoli, non più alla collettività (con tutto il carico di responsabilità sociale che ne conseguiva), lo pratica anche nel rapporto con quella e con gli altri enti formativi.
Ecco qui, caro/a signore/a, perchè tuo/a figlio/a non impara. Non sa gestire la frustrazione, e non sa distinguere quella buona da quella cattiva. La colpa dei suoi insuccessi ha dunque un peso insostenibile, che lui o lei getterà immediatamente e immancabilmente sul docente. E tu, povero/a imbecille, lo/a asseconderai. E continuerete a comprare un sollievo effimero quanto incompleto, per tutta la vita. Gli comprerai l'iPhone, e in modo non dissimile gli comprerai un titolo di studio che senza "aiuto" non riuscirà mai a conseguire. Lo/a hai allevato al fallimento e all'incapacità di capire perché fallisce. L'impreparato che ti ha mandato su tutte le furie, mettitelo in testa, è tuo prima che suo.