Il post di ieri ha acceso dibattiti, come prevedevo. Me ne beo, visto che il mio fine è sempre e soltanto quello di provocare una reazione, positiva o negativa che sia. Nell'epoca del pensiero unico, dell'autoritarismo invisibile, perfino uno sprovveduto come me può e deve farsi carico dell'irrinunciabile compito di fare ironia, nel senso socratico del termine.
Dunque, per prima cosa constatiamo che tutta l'Italia, non solo Lavagna, è in collera con la madre di Giovanni; in seconda battuta, notiamo come questa morte venga strumentalizzata per fare una battaglia presuntamente libertaria sul diritto a farsi le canne (battaglia sacrosanta, finché riguarda consumi che avvengano fuori dalle istituzioni educative). Personalmente, per chiarire quello che ho scritto ieri e per aggiungere ulteriori ammonimenti da vecchio bacucco, tornerò a insistere su un altro aspetto.
Cari catecumeni, ormai sono tre anni che insegno nella scuola pubblica, e un'idea dei sedicenni di oggi me la sono fatta. Ho insegnato in una grande città e in provincia, in un professionale, un liceo e un tecnico, e vi scongiuro quindi di credermi se vi dico che, nella maggior parte dei casi, i ragazzi non hanno un Nord, niente in base a cui orientarsi, vanno a vento. Ad eccezione di quei pochi che hanno la fortuna di vivere in una famiglia vera, sono immersi in un vuoto assoluto. Avvertono vaghi malesseri ai quali non hanno la minima idea di come rimediare, dato che la scuola, ormai trasformata in poco più che un bivacco, non li aiuta a sviluppare le proprie capacità di analisi della realtà, né il proprio carattere. Vittime? Certo. Ma non di chi vorrebbe spingerli a cambiare.
E adesso, come si conviene al mio stile, passo alla modalità autobiografica. Quando io avevo quattordici anni, mi si è imposto di imparare a tradurre dal greco e dal latino; oggi, grazie alla valenza formativa di quei pomeriggi passati a bestemmiare i morti di Cicerone e Senofonte, sono in grado di insegnare un po' di inglese ai più abbelinati del reame. Ma se non fosse stata esercitata su di me una pressione severa e costante da parte della mia famiglia affinché mi impegnassi nei compiti scolastici, io non avrei mai imparato neanche la prima declinazione. L'essere stato costretto a farlo non costituisce una violenza perpetrata contro la mia libertà, e chi pensasse una cosa del genere si sbaglierebbe clamorosamente; il fatto è che a quattordici anni bisogna imparare ad essere adulti, e questo è difficile. Il richiamo della diversione è più forte di quello del dovere. La diversione: quella cosa a cui un adulto ben formato si dedica nel tempo libero e in modalità che non interferiscano con i suoi impegni.
E veniamo alle canne. Io sono un antiproibizionista. Se le bevande alcoliche sono acquistabili tranquillamente in un supermercato o in un'enoteca, non ha senso che la cannabis sia illegale. Il vino, tanto comune e radicato nelle tradizioni di qeusto paese, è potenzialmente più nocivo dell'hashish o della marijuana. Io lo bevo, in quantità modiche. Qualche volta, diciamo la verità, bevo un po' di più di quello che può essere definito "quantità modica". Ma - e qui casca l'asino - non lo faccio mai a scuola, o nelle ore precedenti alla mia entrata in classe. Una cosa del genere inficerebbe la mia sovrumana capacità di spiegare i verbi modali a gente che ha difficoltà perfino a scrivere il proprio nome (non posso mostrarvi le loro verifiche perché è contro la legge, vi prego ancora una volta di credermi sulla parola). Né tantomeno mi permetto comportamenti che possano essere configurati come reati, mentre sono a scuola. Cerco, nonostante la mia cazzonaggine congenita, di dare un esempio positivo ai miei alunni.
Chi sono le persone che si troveranno impreparate quando la vita e la Storia le chiameranno alla lavagna, dunque? Quelle che, invece di crescere nel lavoro e nell'impegno, sono rimaste piccole. Tutta la cannabis, tutte le macchine di lusso, tutte le pellicce, tutti i gioielli del mondo potranno distrarli, ma non cambieranno di una virgola il giudizio. E la galera peggiore a cui si possa essere condannati è l'incapacità di capire cosa ti sta succedendo, e perché: in una parola, l'ignoranza.
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