martedì 22 marzo 2011

The moral high ground

Io sono italiano. Io vivo in un paese dove ogni opinione è nutrita e manifestata con il fervore della convinzione religiosa. Vi dico la verità, non ci convivo bene, con questo atteggiamento. Ricordo bene di essere stato anch'io così, da giovanissimo. Poi, come Paolo sulla via di Damasco, sono stato folgorato; nel mio caso, da un amore tutto laico per la lingua inglese e la cultura anglosassone. Gradualmente, un po' perchè assorbivo quel modo di intendere il mondo tanto diverso dal nostro, un po' perchè crescevo, ho capito che la realtà non poteva essere decifrata secondo un metodo induttivo, partendo da una serie di postulati o assiomi ai quali accomodare l'interpretazione dei fatti; così facendo, si restringe il proprio campo visivo, si imbrigliano le proprie facoltà razionali nell'imbracatura dell'ideologia. Per avere un quadro soddisfacente di una qualsiasi problematica è necessario esplorare tanti punti di vista, pena il ritrovarsi con un'immagine bidimensionale.

Certo, mi ha aiutato il fatto che esistono modi divertenti e stimolanti per esplorare nuovi punti di vista. Tra questi quello che incontra la mia preferenza assoluta è sicuramente la public house, colloquialmente detta pub, laddove ogni sera, dopo un certo numero di pinte consumate, si scopre il senso della vita, solo per poi dimenticarlo di lì a poco e rendere necessaria una successiva ricerca. La sana atmosfera conviviale che contraddistingue tali ritrovi facilita il dialogo, secondo le modalità del metodo socratico, in tale contesto più esattamente definibile come maieutica etilica. A tutti i cittadini dovrebbe essere richiesto un periodo di leva obbligatoria di almeno due anni nel gaio esercito dei beoni: vivremmo certamente in una società meno ottusa, e più propensa al dialogo e all'empatia.

Alcuni beoni socratici impegnati nella ricerca della verità.

Combinando lo studio dell'idioma del bardo con la pratica della maieutica etilica, ho investito diversi anni della mia vita in un field study che mi ha portato di bettola in bettola alla ricerca di una sempre maggiore proprietà di linguaggio, nonchè di qualche scampolo di verità. E così, man mano che la mia pronuncia si affinava e la mia conoscenza dei capisaldi della cultura anglosassone aumentava, cominciai a mimetizzarmi fra i soggetti del mio studio imitandone i comportamenti, ad esempio citando a memoria celebri battute dei Monty Python o ingerendo quantità smodate di birra. David Attenborough, mi fai una pippa! Tu sarai anche in grado di mescolarti con disinvoltura agli scimpanzè o ai macachi, ma vorrei vederti prendere un caffè e parlare di politica in un qualsiasi bar di una qualsiasi città italiana. Sono sicuro che la tua gestualità sarebbe insufficiente, il tuo tono di voce troppo basso, e le tue opinioni troppo elaborate e per niente qualunquiste. Perchè tu, caro David Attenborough, sei il prodotto di una cultura che è troppo equlibrata, troppo laica, troppo pragmatica per consertirti di passare per uno di noi.
Io sono un italiano, nato e cresciuto in un paese di santi e briganti, madonne e puttane, tiranni e liberatori. L'equilibrio non fa parte del DNA della mia terra. Per questo, caro David, quando ho imparato a mescolarmi ai tuoi connazionali come tu ti mescoli ai lemuri o ai bradipi, io ho capito che la storia del mio paese ne condiziona lo sviluppo in un modo forse unico nel mondo occidentale.

Uno dei punti di arrivo, quando si studia una lingua straniera, è l'acquisizione della capacità di tradurre parole e concetti dalla propria lingua verso quella che si è appresa. A volte ciò è difficile, altre meno. Spesso determinati atteggiamenti culturali nostrani trovano un corrispettivo in altri paesi, pur non essendo ugualmente pervasivi; questo perchè, naturalmente, alcuni tratti sono comuni a tutti gli esseri umani. Uno di questi è la propensione verso la religione. In L'illusione di Dio, lo scienziato ed emerito mangiapreti Richard Dawkins ipotizza l'esistenza di una predisposizione genetica a postulare l'esistenza di un'entità divina. Attraverso il divino, l'essere umano cerca rifugio dalla propria finitezza e mortalità. Ma la religione non è solo conforto; è anche dogma. La mente del teista concepisce il Bene e il Male come due entità separate e distinte: dio da una parte, il diavolo dall'altra. O si fa la volontà di dio, o la si nega. Non c'è spazio per una sintesi, per un compromesso. Di conseguenza, la morale del teista è fondata su concetti assoluti di Bene e Male. Purtroppo questo tipo di approccio, in virtù del ruolo centrale svolto dalla religione nella storia di tutti i popoli, tende a perdurare nel nostro modo di pensare, spesso senza che ne siamo consapevoli. Un corollario di questa premessa è la divisione del genere umano in buoni e cattivi. I giusti da una parte (quella indicata da dio attraverso chi si è arrogato il diritto di rappresentarlo), dall'altra gli empi. The righteous versus the evil.

I giusti, ben riconoscibili dalle tonache, spiegano a un empio la differenza fra il Bene e il Male.

Trovo sorprendente il numero di dottrine filosofiche e politiche che nel corso dei secoli hanno validato una concezione così tragicamente fallace della morale, giustificando il ricorso alla violenza in nome della assoluta certezza di essere nel giusto; dopotutto, ognuno può crearsi il proprio dio su misura, e usarlo a proprio uso e consumo.
Prima di andare avanti, è forse il caso di fare una precisazione: tutta l'apparente preparazione culturale che dovesse trasparire dai miei post è un volgare bluff, sostenuto con l'ausilio (non da poco) di una connessione a Internet; io sono una persona mediamente ignorante. Tuttavia, leggiucchiando qua e là, mi capita di imbattermi in concetti interessanti. E così ho scoperto che in Gran Bretagna, nel XVIII secolo, è nata una corrente filosofica che rigetta i concetti assoluti di Bene e Male, opponendo ad essi quello di utilità: l'utilitarismo (duh!). Questa corrente ha anche rappresentato una delle basi del pensiero di un signore che si chiamava William Godwin, considerato uno dei pionieri del pensiero anarchico. Non ricordo il minino accenno a lui, a Bentham, o a John Stuart Mill nel mio manuale di filosofia del liceo; peccato. Tornando a citare i Monty Python, le vicende di Brian di Nazareth esemplificano mirabilmente il bisogno umano (o almeno di molti uomini e donne) di seguire un messia che ci dica cosa fare, anche di fronte all'evidenza della sua natura umana e, quindi, fallibile. Siamo piuttosto meschini: ci fidiamo così poco delle nostre facoltà razionali da sentire un costante bisogno di appellarci a una più alta autorità.

E proprio al concetto di una più alta autorità fa riferimento l'espressione che ho scelto come titolo di questo post: the moral high ground è la presunta superiorità morale di cui si appropria chi fa riferimento a principi etici assoluti, percepiti come universalmente validi, spesso senza tener conto di quegli aspetti di una data situazione che renderebbero problematica l'applicazione dei principi stessi, o che potrebbero creare contraddizioni fra principi ugualmente validi.
La violenza è sbagliata. Tendenzialmente, sì. Ma allora sbaglia il poliziotto che spara per fermare un folle armato, allo scopo di scongiurare una strage? La guerra è male. Certo che lo è. Questo vuol dire che abbiamo sbagliato a combattere il nazifascismo? In alcune situazioni si tratta di scegliere il male minore. Oggi alcuni paesi, fra cui l'Italia, sono impegnati in un'operazione militare contro la Libia di Gheddafi; prima di questo intervento il maturo ma ancora pimpante dittatore, per coronare degnamente 42 anni di governo autocratico e sprezzo assoluto del diritto internazionale, stava massacrando quella parte dei suoi sudditi (perchè tali sono, di fatto) che aveva espresso dissenso rispetto alla sua leadership. Dalle alture vertiginose del Mount Righteousness, picco più alto della Cordigliera dei Giusti, un ben nutrito coro ha cominciato prontamente a intonare una selezione di salmi tratti dal Vangelo "laico" dell'antagonismo, fra i quali Vogliono solo il petrolio, Gli Americani sono cattivi e Ora comincia il massacro. Un perfetto esempio del metodo induttivo di cui parlavo all'inizio e della determinazione, conscia o meno, ad ignorare tutto ciò che metterebbe in crisi la propria interpretazione ideologica dei fatti. Sì, il petrolio è stato certamente un incentivo all'intervento, ma l'ONU non approva risoluzioni al fine di consentire di depredare questo o quel paese; gli americani saranno anche cattivi, ma in questo caso non sono stati fra i promotori dell'intervento; infine, cosa più importante, il massacro era già cominciato prima dei bombardamenti della coalizione, ed è stato anzi il motivo per cui le Nazioni Unite hanno approvato prima delle sanzioni contro Gheddafi e la sua famiglia, poi una risoluzione che autorizzava un uso modico della forza per fermare la guerra civile. Una situazione, come si può capire, complessa e delicata. Qual è il male minore, in un frangente simile? Questa è la domanda che dovremmo porci. Se scendete dalla montagna magari ne possiamo anche discutere.

Questi gai quanto minuti giusti scendono giù dai monti della presunta superiorità morale.

lunedì 21 marzo 2011

La misura della forza


Allora, oggi vorrei provare a fare qualcosa di completamente diverso da quanto fatto finora su questo blog. Come direbbero i Monty Python, "and now for something completely different": vorrei cercare di affrontare un problema serio in termini più o meno seri.
Da un paio di giorni una missione sancita da una risoluzione ONU, alla quale partecipano diversi paesi, fra i quali i più attivi sono la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l'Italia, sta lanciando attacchi più o meno mirati contro la Libia. L'obiettivo di questa operazione, erroneamente citata come Odissey at Dawn (questo è solo il nome dell'iniziativa americana) è o sarebbe quello di far rispettare la no-fly zone imposta dalla risoluzione 1970 delle Nazioni Unite.

Come era ampiamente prevedibile, questa operazione militare ha scatenato un vespaio di polemiche. In alcuni, che la leggono come l'ennesima ingerenza occidentale negli affari interni di un paese produttore di petrolio, ha suscitato indignazione; dall'altra parte rispondono i dogmatici sostenitori di quella che potremmo definire "democrazia pret a exporter", convinti che l'uomo bianco debba sobbarcarsi il proprio fardello e coprire di McDonald quei pochi metri quadrati della supericie terrestre che non ne sono ancora occupati. Io, che non sono contento se non mi dissocio finanche da me stesso, coltivo una congerie di dubbi sull'argomento.

Cominciamo dall'inizio. Sull'onda delle proteste che avevano già attraversato e scosso Egitto e Tunisia, la popolazione libica insorge in diverse città. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che è stata immediatamente chiara la differenza fra le manifestazioni del Cairo e di Tunisi da quelle di Tripoli e Bengasi: perfino a una persona completamente digiuna di conoscenze sulla situazione sociopolitica dei paesi del Nord Africa come me è apparso evidente che i ribelli libici non avevano lo stesso livello di informazione e consapevolezza delle loro controparti egiziana e tunisina. Ci è stato poi spiegato che si trattava di nostalgici del regime monarchico pre-esistente alla "rivoluzione" di Gheddafi. Probabilmente questo ha alienato, almeno in parte, le nostre simpatie nei loro confronti, o quanto meno ci ha aiutati a non farci un quadro della situazione idealizzato. In parole povere: Egitto e Tunisia sono stati teatro di un risveglio democratico, mentre in Libia due fazioni armate si sono fronteggiate per la leadership, senza il minimo accenno a progetti di riforma sostanziale delle strutture politiche o economiche di quel paese (al di là della eventuale restaurazione della monarchia). Un ruolo in questo senso l'ha giocato probabilmente il fatto che la società libica presenta un elemento tribale molto forte, abbastanza da prevalere sulle ideologie politiche come elemento identitario.

Insomma, si trattava di una faida tribale. Fatti che non ci riguardavano. Se non che la violenza degli scontri ha portato alla morte di un numero di civili sulla cui definizione si è ancora lontani dal trovare un accordo, ma che ha posto un problema: di fronte alla possibilità di un genocidio, come deve comportarsi la comunità internazionale? Secondo problema, derivante dal primo: attraverso quali istituzioni deve muoversi la comunità internazionale? Terzo problema: con quali strumenti? Queste domande hanno innescato un dibattito pubblico dagli esiti che personalmente trovo sorprendenti, se non disarmanti. In nome di una serie di considerazioni tutte potenzialmente valide, una parte della sinistra si è opposta a qualsiasi tipo di intervento. Ed ecco che arriviamo ai dubbi di cui parlavo in apertura. Per spiegarmi compiutamente devo partire da lontano. Mi scuso in anticipo della mia prolissità.

Spesso si parla un po' a schiovere di globalizzazione, come di un fenomeno recente. La verità, facilmente riscontrabile da uno studio anche sommario della storia, è che da un punto di vista geopolitico sono già diversi secoli che le maggiori potenze europee si fanno la guerra - direttamente o per procura - per mettere le mani su risorse provenienti da terre lontane o per allargare le loro aree di influenza e i loro mercati. Pensiamo a come la Francia ha sostenuto economicamente e con un concretissimo contributo militare la nascita della nazione americana in funzione anti-britannica, o quella dell'Italia in chiave anti-austriaca e anti-papalina. Con la crescita del capitalismo e la necessità di allargare i mercati, queste guerre hanno assunto proporzioni sempre più drammatiche, fino a culminare nei due conflitti mondiali. Per la verità, era bastata la prima a sconcertare il mondo, tanto da spingere i leader dei paesi che l'avevano combattuta a invocare l'istituzione di una organizzazione sovranazionale che si impegnasse a risolvere le controversie fra stati in modo pacifico. Così nacque la Società delle Nazioni, alla quale si sostituì dopo la Seconda Guerra Mondiale l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Il presupposto di questi organismi è chiaro: poichè i conflitti, ovunque si verifichino, di fatto riguardano tutti per le ripercussioni che hanno e per la loro fastidiosa tendenza a creare instabilità e "contagiare" paesi inizialmente non coinvolti, è preferibile limitare la sovranità dei singoli stati a beneficio di un "ficcanaso" che operi con le armi della diplomazia, piuttosto che ritrovarsi con un continente ridotto in macerie e una decina di milioni di morti.

Se mi avete seguito fin qui, meritate di essere lodati per il vostro eroismo. A voi mi rivolgo dunque, chiedendovi un ulteriore sforzo. Dunque, il diplomatico ficcanaso discute delle controversie internazionali. Ma come può farsi rispettare? Con le sanzioni. Ma cosa succede se le sanzioni non bastano? A quel punto il ficcanaso s trova davanti a due scelte: o tirarsi indietro, e lasciare che gli eventi seguano il loro corso (corso che, di norma, vuol dire guerra), oppure autorizzare i suoi membri a esercitare un uso misurato della forza al fine di costringere chi inizialmente non voleva saperne a rispettare le sue decisioni. Se si ritiene che l'ONU sia una realtà utile, si deve anche accettare che ci siano scenari in cui l'uso della forza può essere l'unica opzione praticabile. In Libia si era verificata una situazione rispetto alla quale l'ONU non poteva rimanere a guardare; prima sono arrivate le sanzioni, e quando queste si sono dimostrate insufficienti è arrivata la risoluzione che autorizzava un uso misurato della forza. Senza questa risoluzione, ci sarebbe stata comunque una guerra, che probabilmente si sarebbe protratta a lungo, con numerose vittime fra i civili e gravi danni alle infrastrutture, e un esodo di massa dalla Libia che avrebbe creato forse la peggiore emergenza umanitaria vista dal'Europa dai tempi in cui un nervosetto signore con i baffi stabilì che gli ebrei erano la causa di tutti i mali del mondo.

Il problema, dal mio punto di vista, non è l'intervento, che ritengo inevitabile (e a renderlo tale è stata la follia, probabilmente riscontrabile anche dal punto di vista clinico, di Gheddafi); il problema è se l'uso che si farà della forza sarà modico e commisurato agli scopi indicati nella risoluzione ONU. Si rispetteranno i limiti imposti dalla decisione di quell'assemblea, o si lavorerà in modo più o meno surrettizio per un regime change? Quanto tempo durerà l'operazione? Quanti danni collaterali causerà? Per quanto tempo la coalizione dei governi che partecipano alla missione riuscirà a conservare il beneplacito della Lega Araba? In questo si vedrà quanto vale oggi l'ONU, e quale ruolo può giocare nel porre un freno alle velleità colonialiste delle potenze occidentali, e dunque riconquistare credibilità, soprattutto presso l'opinione pubblica di quella parte di mondo (numericamente di gran lunga prevalente) che quelle velleità le subisce da secoli. Insomma, la prudenza e un pizzico di diffidenza sono d'obbligo. Ma inveire contro questo intervento, a mio modestissimo avviso, non è saggio: la medicina avrà pure degli effetti collaterali, ma il male che deve curare è maggiore.

martedì 15 marzo 2011

Paura, eh?

La paura fa 90. Illustrazione di Gustavo Dorè

Ieri sera, su Rai 1, è andata in onda la prima puntata di Qui Radio Londra, il nuovo programma di Giuliano Ferrara. In circa cinque minuti il giornalista (si fa per dire) affronta un problema di attualità, riassumendone i termini per grandi linee, e trovando anche il tempo di farci sapere come la pensa lui: il format perfetto per un comunicato di propaganda. Del resto, spero che nessuno dei miei lettori si sogni anche lontanamente di ipotizzare che Giuliano Ferrara possa aspirare al benché minimo grado di indipendenza editoriale; e questo lo spero perchè vi voglio bene, cari amici, e sarei addolorato sapendo che qualcuno di voi è finito nell'orrendo baratro della follia. Dunque, cinque minuti dedicati dal visir a un argomento caro al sultano, per inculcare alle masse sempre più appecoronate le verità ufficiali.

L'argomento scelto per la prima puntata è stato l'energia nucleare. Vorrei mettere subito in chiaro che non ho mai sentito un tale concentrato di cazzate. In cinque minuti, l'obeso e viscido sicofante è riuscito a non dire quasi niente di sensato, sebbene abbia dimostrato la solita abilità oratoria e la consueta scaltrezza comunicativa. Replicare punto su punto darebbe vita a un post lungo e tedioso, che ammorberebbe l'anima a chi lo scrive e chi lo legge. Invece, mi piacerebbe soffermarmi su un punto in particolare, su un equivoco semantico messo dal Goebbels de noantri a fondamento del suo impianto difensivo (perchè di una difesa del nucleare si tratta).

Il conduttore esordisce dicendoci di avere paura. Di cosa? Del colesterolo che gli sta saturando le arterie, e che quasi certamente gli farà venire un infarto nei prossimi cinque o sei anni? Del sudore che traspira da ciascuno dei suoi pori, rendendolo ripugnante e, probabilmente, maleodorante? Del sebo che abbonda visibilmente sul suo cuoio capelluto, concorrendo con il succitato sudore e con altre mille immonde secrezioni a renderlo antitetico a qualsiasi idea di bello? Per il momento non ci è dato saperlo. Ci viene detto, invece, che non tutti hanno paura allo stesso modo; e, a dimostrazione di questa affermazione, ci viene mostrato un video.

Si tratta di un estratto da un servizio di una televisione giapponese sul disastro che ha colpito quel paese. In particolare, vediamo un'onda anomala travolgere la cittadina di Fukushima, quella presso la quale sorge la centrale nucleare che sta tenendo il mondo col fiato sospeso. Il servizio è in lingua originale, per darci la possibilità di sentire la voce della giornalista, che si direbbe leggere un bollettino. Non è sottotitolato, per cui non ne capiamo il senso. Questa scelta è il primo indizio dell'approccio manipolatorio che ha caratterizzato la trasmissione: si vuole creare un contrasto fra la drammaticità delle immagini e la calma che traspare dalla voce che ascoltiamo, un effetto che ulteriori informazioni rischierebbero di inficiare. Infatti, al termine del breve contributo, Jabba the Hut ci fa notare che "gli orientali hanno paura in modo più calmo, riflessivo". Di fronte al cataclisma che li ha colpiti, "riescono a trovare quella calma, quella pace della ragione e del cuore che è così difficile trovare da noi". Naturalmente, questa osservazione è priva di fondamento logico, e andiamo subito a vedere perchè.

Aver studiato lingue mi ha garantito un'esistenza misera, una situazione economica tragicomica, e un prestigio sociale inferiore solo a quello dei trafficanti di organi umani. D'altra parte, mi ha donato la capacità di vedere oltre le parole, dentro le parole, e quindi la facoltà di ribellarmi quando qualcuno usa le parole, che SONO DI TUTTI, per metterlo nel culo a molti. C'è differenza fra la paura intesa come responso automatico, istintivo a una minaccia immediata, e la paura come timore motivato, come risultato di una valutazione razionale di scenari ipotetici. La prima è una risposta evolutiva ai pericoli di cui abbondava l'habitat dei nostri antenati. Secondo Wikipedia, "un'emozione dominata dall'istinto [...] che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una suffragata situazione pericolosa". In quanto tale, è ovvio che in determinati contesti possa e, in effetti, debba essere dominata. Pensiamo ad esempio a una visita dal dentista: l'odontoiatra mette mano al trapano, e il nostro cervello attiva quel meccanismo che, se non ne andasse della nostra dignità, ci spingerebbe immediatamente alla fuga. E allora ci controlliamo, e alla fine della seduta ci congratuliamo in silenzio con noi stessi per il coraggio che abbiamo dimostrato. Tornando al filmato di cui parlavamo, c'è una ragione evidente per cui la voce della telecronista non mostra segni di paura: il pericolo non è prossimo ed imminente. Il giorno prima della visita dal dentista potrò provare un po' di apprensione; ma è quando vedo il trapano, quando ne sento il sibilo, che i miei muscoli si irrigidiscono e i miei pori iniziano a traspirare (mai come quelli di Giuliano Ferrara, comunque).

Giuliano Ferrara e le sue secrezioni. Illustrazione di Gustavo Dorè.

Dunque è chiaro che, quando si parla di paura del nucleare, non ci si riferisce a un'emozione, a una reazione istintiva, irrazionale, bensì a un timore generato dalla prudenza, dalla capacità di valutare un pericolo ipotetico in base ai dati a nostra disposizione. Se vogliamo, è proprio la nostra distanza da quei tragici eventi a metterci in grado di ragionare sui pro e i contro di un certo modo di produrre energia. E di riflettere sul fatto che il nostro è un paese in cui mancano tante cose, ma non il sole; che siamo una terra ben messa dal punto di vista idrografico; che, almeno sul versante adriatico, possiamo affidarci anche all'eolico. Dall'altra parte, basta pensare alle case di sabbia dell'Aquila e alla cricca che, all'indomani di quel terremoto, sghignazzava al telefono, per essere colti da una giustificatissima paura di fare la fine dei sorci. Oppure (ma mi sembra meno probabile), di Robert Bruce Banner.

Se ti esplode un reattore nucleare vicino casa, potresti diventare così. Ipotesi grafica di Gustavo Dorè.

La calma con la quale il Giappone sta affrontando la sciagura che l'ha colpito non è il frutto di una filosofica accettazione dell'eventualità di essere annichiliti dalle proprie scelte di politica energetica; è il sintomo, a mio modestissimo parere, di una cultura positiva, del fare, che in un simile frangente si preoccupa di arginare i danni, per quanto è possibile, e di rimettere in piedi il paese, pur rendendosi conto che la batosta è stata terrificante. Non credo però che i giapponesi sarebbero così serafici se venisse fuori che la centrale di Fukushima è stata costruita senza osservare alla lettera gli standard di sicurezza, dal primo all'ultimo, o che esistevano alternative praticabili al nucleare.

Su altre affermazioni discutibili del dirigibile umano mi asterrò dal commentare, giacché mi pare di aver detto abbastanza. Come dicono gli avvocati americani delle serie televisive dopo le loro brillanti arringhe, I rest my case. Chiuderei a questo punto adattando al pingue imbonitore un vecchio slogan che si intonava per Bettino Craxi: Giuliano Ferrara, quanto sei brutto! Oggi maiale, domani prosciutto!

Un'ipotetica fine della quale Giuliano Ferrara potrebbe ragionevolmente aver paura.

lunedì 14 marzo 2011

Roberto Saviano: un eroe italiano

Innanzitutto, mi scuso in anticipo per i contenuti di questo post, che qualcuno potrebbe trovare offensivi; ma ormai succede così poco che mi scuota dal torpore in cui languo, che perdere un'occasione sarebbe da stupidi. Uno dei pochi personaggi che riescono ancora a infastidirmi al punto da sentire il bisogno di esternare il mio disappunto, come un novello Cossiga (privo di gladio in quanto obiettore di coscienza), è Roberto Saviano. Altresì noto come Frà Roberto Savianarola, illustrissimo dottore versato nelle arti del Trivio e del Quadrivio, depositario del terzo e del quarto segreto di Fatima, nonchè, a detta degli amici, imbattibile a Trivial Pursuit.

Frà Roberto Savianarola spiega alla plebaglia il principio dei vasi comunicanti. Illustrazione di Gustavo Dorè.

Ma perchè ce l'ho con lui? In effetti, a saper leggere fra le righe, qualche indizio si potrebbe cogliere già nel modo in cui l'ho presentato. Ma non siamo qui per giocare a Cluedo (nè a Trivial Pursuit), per cui abbiate la pazienza di concedermi la vostra attenzione per poche righe. Fate finta, magari, di leggere lui. Ecco, ora che siete in devoto silenzio e in rapita ammirazione davanti al vostro PC, posso cominciare.

Nel 2006 il nostro esordisce con la sua opera prima, Gomorra. Si tratta di un viaggio, a metà fra la fiction e l'inchiesta, in quella civiltà (si fa per dire) parallela a quella in cui viviamo voi ed io, situata per lo più nel Mezzogiorno d'Italia, e fondata sul principio che non esistono principi, se non la difesa degli interessi propri e del proprio gruppo di appartenenza. Ad ogni costo. Portandoci fisicamente sui luoghi che meglio rappresentano questo degrado, questa deviazione non da questo o quel sistema di norme, ma in assoluto dalla norma, ci ha fatto vedere la fonte del 90% dei mali di questo paese. E tanto interessante era l'argomento trattato, tanto efficace e universale il modo di trattarlo, che Gomorra ha venduto un numero di copie mirabolante, non solo in Italia ma anche all'estero.

Ma quel che è più importante, ai fini del nostro racconto, è che alcuni rappresentanti della classe dirigente del basso casertano non hanno gradito l'attenzione generata dal libro, e hanno lanciato una fatwa sull'autore. In un paese cattolico come il nostro, questa è la cosa migliore e al contempo peggiore che possa capitare a uno scrittore o a un giornalista. Lo status di vittima, il martirio, diventa un merito in sé, e a quella persona non si chiede più altro che una testimonianza di fede, di tanto in tanto.

Dopo Gomorra, Roberto Saviano non ha più potuto girare in Vespa per le strade della Campania. Dalla clausura a cui lo hanno costretto le minacce di morte, trasformatosi in Frà Roberto Savianarola, ha cominciato ad alternare prediche e sermoni a marchette giornalistiche a favore di questo o quel personaggio. Dietro tutto questo, ormai è chiaro, c'è il Partito Democratico, nuovo contenitore ecumenico di tutto ciò che la destra non si è già presa. Perchè, cari amici, non illudetevi, non si tratta che di una lottizzazione. Di una spartizione di fette di mercato. Che alternativa può offrire il partito dello scandalo Unipol? Il partito di Massimo D'Alema, il più grande alleato di Berlusconi in Italia? Quello che Repubblica, l'Espresso, Fabio Fazio hanno offerto a Saviano non è un megafono, ma una gabbia. Una gabbia nella gabbia. Lo hanno evirato. Tanto, un sant'uomo non ha bisogno del pungiglione, ma solo della sua aura di santità, sapientemente costruita e coltivata. Del resto Saviano non è il primo a subire questo destino. Tanti lo hanno preceduto, più o meno di buon grado. Uno su tutti, Roberto Benigni, fra i più straordinari comici italiani negli anni '70 e inizio '80, e progressivamente ecumenizzato. Quella è la chiave. L'ecumenicità. Piacere a tutti. Al quale scopo, ovviamente, bisogna rinunciare ad avere contenuti minimamente discutibili. Benigni, che in Ti voglio bene, Berlinguer parlava di sesso, complesso d'Edipo e rivoluzione, e che è finito a Sanremo a farci un pistolotto di retorica risorgimentale.

Roberto Benigni prima della gonadectomia. Foto di Gustavo Dorè.

Ma non divaghiamo. Si parlava di Frà Savianarola. Il motivo per cui ho deciso di scrivere queste due righe è una recente dichiarazione del frate, che afferma di non avere intenzione di entrare in politica. Ancora una volta mi sono trovato a chiedermi: ma questo ci è o ci fa? Caro Frà Roberto, tu fai già politica. Con la tua scelta di accettare il ruolo di martire che ti hanno cucito addosso, e di sfornare prediche sulla legalità (quella retorica insulsa per cui se c'è la mafia è colpa di chi butta le carte per terra) e trattatelli su quanti peli in culo ha la raganella albina dell'Honduras, hai fatto una scelta essenzialmente politica. Ti sei trasformato nella reliquia di te stesso. Hai accettato di collaborare con una parte del paese che, se non è organica a Gomorra, ci convive senza eccessivi problemi.

Tu, Frà Roberto Savianarola, sei un vero eroe italiano. Come Fabrizio Quattrocchi. Che dico? Hai fatto di meglio. Ancora in vita, ci hai fatto vedere come muore uno scrittore.