lunedì 21 marzo 2011
La misura della forza
Allora, oggi vorrei provare a fare qualcosa di completamente diverso da quanto fatto finora su questo blog. Come direbbero i Monty Python, "and now for something completely different": vorrei cercare di affrontare un problema serio in termini più o meno seri.
Da un paio di giorni una missione sancita da una risoluzione ONU, alla quale partecipano diversi paesi, fra i quali i più attivi sono la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l'Italia, sta lanciando attacchi più o meno mirati contro la Libia. L'obiettivo di questa operazione, erroneamente citata come Odissey at Dawn (questo è solo il nome dell'iniziativa americana) è o sarebbe quello di far rispettare la no-fly zone imposta dalla risoluzione 1970 delle Nazioni Unite.
Come era ampiamente prevedibile, questa operazione militare ha scatenato un vespaio di polemiche. In alcuni, che la leggono come l'ennesima ingerenza occidentale negli affari interni di un paese produttore di petrolio, ha suscitato indignazione; dall'altra parte rispondono i dogmatici sostenitori di quella che potremmo definire "democrazia pret a exporter", convinti che l'uomo bianco debba sobbarcarsi il proprio fardello e coprire di McDonald quei pochi metri quadrati della supericie terrestre che non ne sono ancora occupati. Io, che non sono contento se non mi dissocio finanche da me stesso, coltivo una congerie di dubbi sull'argomento.
Cominciamo dall'inizio. Sull'onda delle proteste che avevano già attraversato e scosso Egitto e Tunisia, la popolazione libica insorge in diverse città. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che è stata immediatamente chiara la differenza fra le manifestazioni del Cairo e di Tunisi da quelle di Tripoli e Bengasi: perfino a una persona completamente digiuna di conoscenze sulla situazione sociopolitica dei paesi del Nord Africa come me è apparso evidente che i ribelli libici non avevano lo stesso livello di informazione e consapevolezza delle loro controparti egiziana e tunisina. Ci è stato poi spiegato che si trattava di nostalgici del regime monarchico pre-esistente alla "rivoluzione" di Gheddafi. Probabilmente questo ha alienato, almeno in parte, le nostre simpatie nei loro confronti, o quanto meno ci ha aiutati a non farci un quadro della situazione idealizzato. In parole povere: Egitto e Tunisia sono stati teatro di un risveglio democratico, mentre in Libia due fazioni armate si sono fronteggiate per la leadership, senza il minimo accenno a progetti di riforma sostanziale delle strutture politiche o economiche di quel paese (al di là della eventuale restaurazione della monarchia). Un ruolo in questo senso l'ha giocato probabilmente il fatto che la società libica presenta un elemento tribale molto forte, abbastanza da prevalere sulle ideologie politiche come elemento identitario.
Insomma, si trattava di una faida tribale. Fatti che non ci riguardavano. Se non che la violenza degli scontri ha portato alla morte di un numero di civili sulla cui definizione si è ancora lontani dal trovare un accordo, ma che ha posto un problema: di fronte alla possibilità di un genocidio, come deve comportarsi la comunità internazionale? Secondo problema, derivante dal primo: attraverso quali istituzioni deve muoversi la comunità internazionale? Terzo problema: con quali strumenti? Queste domande hanno innescato un dibattito pubblico dagli esiti che personalmente trovo sorprendenti, se non disarmanti. In nome di una serie di considerazioni tutte potenzialmente valide, una parte della sinistra si è opposta a qualsiasi tipo di intervento. Ed ecco che arriviamo ai dubbi di cui parlavo in apertura. Per spiegarmi compiutamente devo partire da lontano. Mi scuso in anticipo della mia prolissità.
Spesso si parla un po' a schiovere di globalizzazione, come di un fenomeno recente. La verità, facilmente riscontrabile da uno studio anche sommario della storia, è che da un punto di vista geopolitico sono già diversi secoli che le maggiori potenze europee si fanno la guerra - direttamente o per procura - per mettere le mani su risorse provenienti da terre lontane o per allargare le loro aree di influenza e i loro mercati. Pensiamo a come la Francia ha sostenuto economicamente e con un concretissimo contributo militare la nascita della nazione americana in funzione anti-britannica, o quella dell'Italia in chiave anti-austriaca e anti-papalina. Con la crescita del capitalismo e la necessità di allargare i mercati, queste guerre hanno assunto proporzioni sempre più drammatiche, fino a culminare nei due conflitti mondiali. Per la verità, era bastata la prima a sconcertare il mondo, tanto da spingere i leader dei paesi che l'avevano combattuta a invocare l'istituzione di una organizzazione sovranazionale che si impegnasse a risolvere le controversie fra stati in modo pacifico. Così nacque la Società delle Nazioni, alla quale si sostituì dopo la Seconda Guerra Mondiale l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Il presupposto di questi organismi è chiaro: poichè i conflitti, ovunque si verifichino, di fatto riguardano tutti per le ripercussioni che hanno e per la loro fastidiosa tendenza a creare instabilità e "contagiare" paesi inizialmente non coinvolti, è preferibile limitare la sovranità dei singoli stati a beneficio di un "ficcanaso" che operi con le armi della diplomazia, piuttosto che ritrovarsi con un continente ridotto in macerie e una decina di milioni di morti.
Se mi avete seguito fin qui, meritate di essere lodati per il vostro eroismo. A voi mi rivolgo dunque, chiedendovi un ulteriore sforzo. Dunque, il diplomatico ficcanaso discute delle controversie internazionali. Ma come può farsi rispettare? Con le sanzioni. Ma cosa succede se le sanzioni non bastano? A quel punto il ficcanaso s trova davanti a due scelte: o tirarsi indietro, e lasciare che gli eventi seguano il loro corso (corso che, di norma, vuol dire guerra), oppure autorizzare i suoi membri a esercitare un uso misurato della forza al fine di costringere chi inizialmente non voleva saperne a rispettare le sue decisioni. Se si ritiene che l'ONU sia una realtà utile, si deve anche accettare che ci siano scenari in cui l'uso della forza può essere l'unica opzione praticabile. In Libia si era verificata una situazione rispetto alla quale l'ONU non poteva rimanere a guardare; prima sono arrivate le sanzioni, e quando queste si sono dimostrate insufficienti è arrivata la risoluzione che autorizzava un uso misurato della forza. Senza questa risoluzione, ci sarebbe stata comunque una guerra, che probabilmente si sarebbe protratta a lungo, con numerose vittime fra i civili e gravi danni alle infrastrutture, e un esodo di massa dalla Libia che avrebbe creato forse la peggiore emergenza umanitaria vista dal'Europa dai tempi in cui un nervosetto signore con i baffi stabilì che gli ebrei erano la causa di tutti i mali del mondo.
Il problema, dal mio punto di vista, non è l'intervento, che ritengo inevitabile (e a renderlo tale è stata la follia, probabilmente riscontrabile anche dal punto di vista clinico, di Gheddafi); il problema è se l'uso che si farà della forza sarà modico e commisurato agli scopi indicati nella risoluzione ONU. Si rispetteranno i limiti imposti dalla decisione di quell'assemblea, o si lavorerà in modo più o meno surrettizio per un regime change? Quanto tempo durerà l'operazione? Quanti danni collaterali causerà? Per quanto tempo la coalizione dei governi che partecipano alla missione riuscirà a conservare il beneplacito della Lega Araba? In questo si vedrà quanto vale oggi l'ONU, e quale ruolo può giocare nel porre un freno alle velleità colonialiste delle potenze occidentali, e dunque riconquistare credibilità, soprattutto presso l'opinione pubblica di quella parte di mondo (numericamente di gran lunga prevalente) che quelle velleità le subisce da secoli. Insomma, la prudenza e un pizzico di diffidenza sono d'obbligo. Ma inveire contro questo intervento, a mio modestissimo avviso, non è saggio: la medicina avrà pure degli effetti collaterali, ma il male che deve curare è maggiore.
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