martedì 27 settembre 2011

Sta diventando un'abitudine...

E che diamine! Non si riesce più a dormire tranquilli! Persino astenendomi dal consumare peperoni per cena, continuo ad essere visitato in sogno da importanti figure del Rinascimento inglese. Questa volta è toccato a Sir Thomas Wyatt, modello perfetto di cortigiano, ricordato per aver introdotto il sonetto nella tradizione poetica anglofona.


Dopo aver eseguito un perfetto inchino elisabettiano (pur essendo vissuto sotto il regno di Enrico VIII) Sir Thomas si è rivolto a me in un inglese dal vocabolario desueto e dalla pronuncia oltremodo ostica. Stavo per dirgli di tornare solo quando avesse finito il Great Vowel Shift, come si può dire a un bambino che potrà uscire a giocare solo dopo aver finito gli spinaci, quando mi sono reso conto che il poveretto si trovava in uno stato di pressochè totale abiezione. Quello che sono riuscito ad evincere dai suoi monottonghi e dai suoi rotici arcaismi è stato che Sir Thomas è depresso perchè i giovani di oggi non leggono più i suoi sonetti. E in effetti, proseguiva il cortigiano, chi può biasimarli? Dopo cinquecento anni, le sue scelte lessicali possiedono la stessa attualità del suo inchino, le sue rime non fanno più rima, e la sua materia, pur restando valida perchè intimamente legata alla natura umana, risulta priva di mordente per il modo eccessivamente manierato in cui è affrontata.

Commosso dalle preci di un altro disgraziato come me, non ho saputo dire di no. Abbiamo scelto insieme un sonetto da "modernizzare", e dopo una veloce lettura gli ho mosso le mie critiche. Innanzitutto, gli ho detto, lascia perdere lo schema petrarchesco, e adotta il distico finale; funziona meglio. Lui è stato d'accordo, visto che ora pendeva dalle mie labbra, sebbene avesse enormi difficoltà a comprendere la particolare varietà di Southern British English parlata da un advanced learner di estrazione sudeuropea. Mi sono messo a lavorare, e subito mi sono accorto che il componimento non era farina del sacco di Tom. Era scopiazzato (e in modo piuttosto imperfetto, oserei dire) da un famoso sonetto del Petrarca:
Pace non trovo, e non ò da far guerra;
E temo e spero, ed ardo e sono un ghiaccio;
E volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.
Tal m' à in pregion, che non m' apre né serra;
Né per suo mi riten, né scioglie il laccio:
E non m' ancide Amore e non mi sferra;
Né mi vuol vivo, né mi trae d' impaccio.
Veggio senza occhi; e non ò lingua, e grido;
E bramo di perir, e cheggio aita;
Et ò in idio me stesso, ed amo altrui:
Pascomi di dolor, piangendo rido;
Egualmente mi spiace morte e vita.
In questo stato son, Donna, per vui.
Bene, ecco il modo in cui il rubicondo e florido adultero aveva reso tale capolavoro:
I find no peace, and all my war is done.
I fear and hope. I burn and freeze like ice.
I fly above the wind, yet can I not arise;
And nought I have, and all the world I season.
That loseth nor locketh holdeth me in prison
And holdeth me not--yet can I scape no wise--
Nor letteth me live nor die at my device,
And yet of death it giveth me occasion.
Without eyen I see, and without tongue I plain.
I desire to perish, and yet I ask health.
I love another, and thus I hate myself.
I feed me in sorrow and laugh in all my pain;
Likewise displeaseth me both life and death,
And my delight is causer of this strife.

Non mi sorprendo, dunque, che la tua poesia sia stata pressochè dimenticata, se non da pochi addetti ai lavori. Caro Tom, qui c'è ben poco da salvare...Questo è il succo di ciò che gli ho detto, aggravando ulteriormente il suo stato di abbattimento. Ma prima che potesse gettarsi nelle acque del Tamigi, in un gesto puramente dimostrativo in quanto il tizio è morto da mezzo millennio, avevo già pronta la mia versione, che qui riporto per il diporto di chiunque avesse tempo da perdere e intendesse dedicarlo alla sua lettura:

I find no peace, and have no war to fight,
I fear and hope, I burn and freeze like ice;
I soar in fancy, yet I cannot take flight,
nowt I hold, yet have the world in a vise.
My captor keeps my cell door on the latch,
will not keep me nor let the charges drop;
Love will not kill me, but I’m barred from snatch;
I am alive, but my head’s for the chop.
Eyeless I see, I have no tongue and shout,
I wish for death, and still succour I seek!
I hate myself, for my love’s cast in doubt;
I find solace in my life being bleak.
Such is my state, I can’t tell death from life,
for she who promised peace brought about strife.


Bene, alla fine Sir Thomas è rimasto contento. Non so come l'abbia presa Cicciotto Petrarca, autore dell'originale, e nutro dubbi in particolare sulla scelta di menzionare la patana (snatch) in tale contesto, ma ogni epoca ha il proprio zeitgeist. Cari Petrarca e Wyatt, vostro fu il tempo dei dotti e devoti studi, e della raffinata erudizione; mio quello dell'assalto alla patana, con tutti i mezzi e senza mezzi termini. Voi vi nutriste di bellezza ed arte, io di bagordi e sordide ambizioni. Se voi potevate accontentarvi del plauso accademico o dell'apprezzamento del sovrano e della corte, io devo andare oltre, e preoccuparmi di non restare ai margini di questo mondo che capisce solo i denari e la patana, con gli occhi pieni di meraviglie e le mani vuote. 


Ed ora mi rivolgo a voi, Edmund Spenser e Sir Philip Sidney. Vi prego di farmi dormire tranquillo. Se volete svecchiare il vostro inglese guardatevi qualche sitcom o tutte le puntate di Eastenders (voi che tempo da perdere ne avete persino più di me). E quando scriverete le vostre nuove opere, sulla vostra bella nuvoletta, ricordatevi l'ingrediente più importante per il rozzo palato di questa epoca sciagurata: la patana.




 

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