mercoledì 5 ottobre 2011

Il Manhattan di René Ferretti


L'Italia è un bel paese. Un bel paese nel senso che è ricco di bellezze paesaggistiche, artistiche, vi si mangia e beve bene. Quello che lo rovina è la sua storia. Forse perchè, come ebbe a dire Mario Monicelli, non abbiamo mai avuto una bella rivoluzione. Dal Medio Evo ad oggi siamo andati avanti senza soluzione di continuità, sono cambiati i confini degli stati, le forme di governo, ma le strutture sociali sono rimaste profondamente arretrate. In questo paese non esiste l'individuo. Esistono famiglie, clan, gruppi di interesse. L'espressione del sè è virtualmente impossibile. 
Il singolo è costretto a operare all'interno di reti, dalle maglie strettissime, che si frappongono fra lui o lei e la collettività intesa nel senso più ampio. Mors tua, vita mea. Siamo ancora lì. Il risultato è che, se Tizio o Caio può di volta in volta beneficiare di tali dinamiche, il paese nel suo insieme ne è immensamente danneggiato, e viene annichilito in modo perentorio e spietato ogni tentativo di realizzare le proprie aspirazioni personali, di vivere secondo la propria natura e il proprio sentire. Di fare qualcosa che non sia previsto dal canovaccio secolare dell'opportunismo asservito al potere.

Del resto si tratta di un tema presente, se non centrale, nell'opera di scrittori e drammaturghi di primo piano del tardo Ottocento e Novecento, da Verga a Pirandello ed Eduardo, per citarne solo qualcuno. L'idea che per essere liberi bisogni morire è presente nel Fu Mattia Pascal, con il finto decesso inscenato dal protagonista per sfuggire a una famiglia che lo sta distruggendo, come ne Le voci di dentro, nella figura di Zi' Nicola, o nella famosa "pace senza morte" che il grande Eduardo cercava in una sua celebre poesia. Ma non si può guardare sempre dietro (un altro difetto molto italiano), la bellezza e il senso vanno ricercati anche nel presente. E quindi oggi parleremo di quel miracolo della televisione italiana che è stato Boris.

La serie, per chi non la conoscesse, è incentrata sul lavoro del regista televisivo René Ferretti e della sua squadra, alle prese con l'ingrato compito di girare fiction che vadano incontro all'inquietante gusto del pubblico televisivo italiano medio. Il set sembra una caserma, con le sue rigide gerarchie e il suo nonnismo, chi ci lavora lo fa male o di mala voglia, gli unici a mostrare un po' di entusiasmo e impegno sono in genere gli stagisti. 

Nella terza e ultima serie vediamo uno sviluppo: Renè, che fino a quel momento aveva sostanzialmente accettato di girare merda, limitandosi a salvare il salvabile, decide di provare a fare un'altra televisione. Così nasce il progetto Medical Dimension, una serie che dovrà rompere con il passato e parlare un nuovo linguaggio. Purtroppo, però, in un grottesco e geniale colpo di scena, scopriamo che questo progetto era stato avviato con il preciso intento di farlo naufragare, da parte della stessa rete televisiva che lo ha finanziato. Lo scopo era quello di dimostrare che un'altra televisione non è possibile, dando quindi licenza agli addetti ai lavori di continuare a produrre merda, mettendo a posto la coscienza con la scusa che il pubblico non desidera che quella. La coscienza di Renè, invece, è scossa, come è scossa la sua etica professionale (della quale conserva nonostante tutto qualche traccia), per non parlare del suo orgoglio e del suo entusiasmo. Ma ormai la sconfitta è inevitabile. Tutto è perduto. Tanto vale arrendersi e "sedarsi". Il dottor Cane, direttore di rete, è stato molto chiaro. E mentre gli parlava di una totale assurdità che per lui era normale amministrazione, nel suo ufficio riccamente arredato, si è concesso una digressione sul suo cocktail preferito: il Manhattan. Nel suo il dottor Cane ha sostenuto di gradire anche mezzo Lexotan, un ansiolitico piuttosto diffuso. E allora Renè decide di provarlo, evidentemente nella speranza che anche lui, dopo averlo bevuto, riesca a vedere la questione con la stessa strafottenza e totale distacco che ha riscontrato nel dirigente.

Per un po' questa pozione di confortevole infelicità funziona. Ma poi, mentre tutto introno a lui crolla, Renè scopre per caso di avere forse ritrovato il suo vecchio pesce rosso, chiamato appunto Boris, per via di un maneggio che sarebbe lungo spiegare. Parlando con lui, Renè trova una possibile soluzione a quello che ora vede come un problema, non come uno stato di fatto da accettare passivamente. Il pesce, a me almeno sembra chiaro, rappresenta la coscienza di Renè, il suo essere più intimo, un po' come il ritratto di Dorian Gray. La differenza è che, mentre il dipinto nel romanzo di Wilde invecchiava al posto del protagonista, in Boris il pesciolino viene cambiato ad ogni nuova fiction girata. Ritrovare Boris, per Renè, significa ritrovare la voglia di fare perduta. L'assalto piratesco allo yacht degli sceneggiatori nella puntata successiva è un altro esempio della grandissima creatività degli sceneggiatori (quelli veri), ed è, per quanto possa sembrare strano dire questo di una serie TV, uno statement morale e filosofico. C'è un alternativa all'amaro calice (pieno di Manhattan e Lexotan) della rinuncia a se stessi: la resistenza a oltranza, donchisciottesca se vogliamo, probabilmente destinata alla sconfitta, ma che trova in sè tutto il senso di cui ha bisogno. Alla fine della serie Renè finisce con Duccio, il suo esatto opposto per quanto riguarda l'etica del lavoro e l'approccio alla vita, nella Guardia Forestale. Li vediamo alle prese con la catalogazione di alcuni alberi nel Parco Nazionale d'Abruzzo. Duccio vorrebbe andare in capanna "a pensare", ma Renè lo richiama al suo dovere, proprio come faceva sul set. Alla fine questo meraviglioso personaggio ha perso il lavoro in cui si era ostinato a credere, ma ha conservato la sua etica, i suoi valori, diciamo la sua "anima". E questa, forse, è la battaglia che è più importante non perdere.



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