giovedì 21 giugno 2012

Tema...



In questi giorni, nel nostro gaio paese, si sta celebrando l'efferato e cruento rituale degli esami di maturità, che tanto sangue ha fatto buttare all'italico giovanotto da svariate decadi a questa parte. Una delle prove più temute, e a ragione, è il tema di italiano. Perchè? La risposta non potrebbe essere più semplice: fino al giorno prima i tuoi interessi, da adolescente sano e normale, erano la playstation, il pallone e la fessa; ora pretendono che tu scriva dell'Olocausto in una prosa agile e al contempo solenne, sciorinando riflessioni e dati storici come se stessi parlando di Resident Evil o della campagna acquisti del Napoli. Tutto ciò, naturalmente, crea uno stato ansiogeno nel giovanotto esaminando; il quale, fra acne giovanile e tempeste ormonali, ha già abbastanza di cui preoccuparsi. Lo stress in questi casi può portare all'iperventilazione, alla tachicardia parossistica, alla fuoriuscita di pustole sulla schiena, e nei casi più gravi persino alla morte.
E tutto questo, direte voi, per prendersi un pezzo di carta senza alcun valore. Sì, purtroppo è così.

E allora sdrammatizziamo! Celie e lazzi sian di conforto all'imberbe maturando nella sua ora più buia. Il vostro bradipo, che non si tira mai indietro rispetto a ciò che di più turpe questo mondo riesce a sfornare, e che non esita a metter piede nei più luridi tuguri dellla mente umana, si è immaginato di nuovo studente, ed ha svolto per voi una traccia di letteratura. Sì, lo so, ormai è tardi, la prova c'è stata, quel che è fatto è fatto. Ma prendiamola così, come divertissement, e come esercizio di stile dal quale trarre spunti per il futuro.

Tema: descrivi e analizza un'opera di prosa a tua scelta, nell'ambito del Novecento italiano.

Svolgimento:

L'opera che ho scelto di commentare è Il viecchio e il mare, racconto lungo di Ermete Passalacqua. Da non confondersi con Il vecchio e il mare di Eminghuèi, si tratta di un'opera ingiustamente misconosciuta, ma non meno valida. Interessanti le circostanze del suo ritrovamento, in un sottoscala del civico 4 di Vico Scassacocchi, da parte del portiere dello stabile. La sera del 23 novembre 1965, in seguito a un black out, Salvatore Polito si dirige verso lo sgabuzzino nel quale custodisce le candele. Non trovandole immediatamente, comincia a rovistare fra le cianfrusaglie, emettendo un flusso costante di bestemmie che la signora Rosa Criscuolo, residente al primo piano, pensionata e bizzoca, non può fare a meno di udire. Scesa incontro al Polito per fare le sue rimostranze circa il di lui smodato uso della blasfemia, scorge alla fioca luce della candela finalmente reperita dal portiere alcuni fogli manoscritti. Lo zotico, versato nel turpiloquio ma purtroppo assolutamente sprovvisto delle più rudimentali cognizioni nel campo della biblioteconomia, non si era mai avveduto di avere un prezioso manoscritto fra le chiavi inglesi e le viti da sei. La signora Criscuolo, invece, era stata professoressa di lettere e avida lettrice, prima di finire nelle grinfie di San Giovanni decollato e Padre Pio: è grazie alla sua iniziativa se questa preziosa opera ci è pervenuta.


Ed ora una breve sinossi del racconto. Il protagonista è un viecchio di Castellammare di Stabia, che nei difficili anni del dopoguerra sbarca il lunario pescando nella sua barchetta a remi dall'alba fino al tramonto. In tanti anni di esperienza se l'è vista con qualsiasi tipo di pesce, crostaceo e mollusco esistente nelle acque del golfo. Ha utilizzato altresì tutte le principali tecniche di pesca, dall'amo alla bomba a mano. Un solo amico gli fa compagnia nella sua grama esistenza: si tratta di Gennarino, un dodicenne analfabeta dalla carente igiene personale con cui il viecchio (del quale non scopriremo il nome che alla fine del racconto) ha una tenera storia pedo-omosessuale. Questa routine viene sconvolta quando, un bel giorno, uno stranissimo animale abbocca all'esca del viecchio: un enorme pescespada parlante con i dreadlocks. Il pesce che, come lui stesso rivela al viecchio, risponde al nome di Bob Marlin, si dimostra un avversario tenacissimo, e il viecchio si vede un attimo perso. Ne segue una lunga e furiosa lotta fra il pesce e il viecchio, a ritmo di reggae. Ogni tanto il viecchio raccoglie le forze e prova a tirare su il pescespada, ma poi si avvilisce e pensa "sai che c'è? mo' faccio una canna". Questa jacovella va avanti per tre giorni e tre notti, fin quando il viecchio non ha un'idea: siccome è pesante e non ce la faccio a tirarlo su, mo' lo lego vicino alla barca e me lo porto così. Se non che arrivano gli squali e, un morso alla volta, si mangiano Bob Marlin. A Castellammare il viecchio racconta che aveva preso questo pesce stranissimo che cantava e parlava, e teneva pure la stoppa in testa, e che ci ha lottato tre giorni e tre notti, ma poi sono arrivati gli squali e se lo sono mangiato. Allora tutti quanti cominciano a ridere, e certi giovinastri gli rivolgono anche dei gesti veramente poco simpatici. A questo punto finalmente apprendiamo che al viecchio in paese lo chiamavano "Peppe 'o peyote", e si sa che i soprannomi non si danno mai a caso. L'unico che crede al viecchio è Gennarino: il racconto si chiude con i due teneri amici che si spartiscono trecento grammi di alici marinate e dopo fanno una canna.


La critica ha volutamente ignorato questo bel racconto. Sarà forse perchè si tratta dell'unica opera conosciuta dell'autore, un fruttivendolo di Pompei più volte internato in manicomio, devoto alla Madonna e chiaroveggente amatoriale; o forse perchè l'intera opera è scritta in stabiese stretto, fatto che ne ha sicuramente ostacolato la diffusione, almeno fino alla pubblicazione di una tradizione italiana a cura di un nipote della signora Criscuolo che andava spesso a mangiare il panuozzo a Gragnano. Fatto sta che di questa interessantissima opera non vi è traccia nella critica letteraria italiana. Per quanto riguarda il rapporto con la più nota opera di Eminghuèi, diremo che il Passalacqua la tenne sicuramente presente come modello, ma ne sviluppò una sua versione assolutamente originale e dotata di una propria dignità letteraria. Elementi come l'ambientazione stabiese o il ricorrere del tema cannabico (pare che il Passalacqua consumasse ingenti quantità di marijuana) ci restituiscono una dimensione del tutto specifica alla dimensione biografica dell'autore, e ci catturano nel vortice di una storia senza tempo e senza età. Le tematiche della lotta dell'uomo contro una natura avversa e dell'amore che sfida le convenzioni sociali donano spessore al racconto, e lo iscrivono nell'ambito della letteratura engagé
Un lavoro d'avanguardia, dunque. Non capito dai provinciali critici italiani, ignorato dal pubblico e deriso dai giovinastri che razziavano periodicamente il negozio di frutta e verdura del Passalacqua, distratto dalla letteratura e dai suoi tanti altri interessi. Ma, proprio per questo, un lavoro che merita di essere conosciuto e fatto conoscere, dovesse anche costare la fatica che era costata al viecchio la sua titanica lotta contro una romantica chimera.


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