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la legge che fa piangere
La Genesi dice che il buon dio, dopo aver collocato Adamo nell'Eden, creò ogni sorta di animale per non lasciarlo solo. Erano le prove tecniche della donna, presumo. Ad ogni modo, dopo aver creato ciascuna bestiola, il signore la presentava al primo uomo, affinchè costui le desse un nome; quello avrebbe dovuto essere, da allora in poi, l'appellativo della forma di vita in questione.
Naturalmente le cose sono un po' più complesse di così. Il racconto di cui sopra non è che l'ennesima testimonianza di come la Bibbia sia il prodotto di una umanità allo stadio infantile. Oggi è ben chiaro, non solo al linguista ma anche al profano, che il rapporto fra referente e segno linguistico è arbitrario, e dunque il linguaggio è soggetto a evoluzione, come qualsiasi altra espressione della natura umana. Tuttavia, due millenni e mezzo di oppressione religiosa, politica ed economica hanno fatto sì che perduri nelle menti poco avvezze al pesiero critico una certa accettazione passiva del linguaggio, come se non fosse una cosa nostra, che ci appartiene, ma una questione di correttezza e conformità a un qualche tipo di autorità benevola ma al contempo severa e rigida.
Un tizio di nome Norman Fairclough, di nazionalità inglese e di professione linguista, partendo dal pensiero di Gramsci, Foucalt ed altri sovversivi di cotal risma, ha sviluppato un modello di analisi del discorso chiamato Critical Discourse Analysis. Il discorso, non solo quello specificamente politico, è terreno di uno scontro ideologico quasi costante. Risulta difficile sostenere una qualsiasi conversazione senza tradire, con un vocabolo, una struttura sintattica, un'intonazione, le nostre convinzioni più profonde; che spesso, e qui casca l'asino, non sono nemmeno consapevoli. Spesso, come il prof. Fairclough ha brillantemente dimostrato rispetto al vile e vergognoso lavoro degli spin doctors di Tony Blair, il linguaggio viene usato per creare - in modo surrettizio - un'opinione, una visione delle cose. Questo equivale ovviamente, in termini politici, a estorcere il consenso. E il fatto che Alistair Campbell e la sua lurida masnada siano riusciti, trasformando socialism in social-ism, ovvero con la banalissima aggiunta di un hyphen, un trattino, a far prendere una valanga di voti all'uomo che ha definitivamente demolito la sinistra britannica, ci deve far riflettere.
Odo garrule voci intonare vivaci motteggi: "Ma che ce ne fotte a noi di questi inglesi? Noi siamo italiani. Anzi, napoletani." Giusto. E allora veniamo a noi. E che questo dativo di tristo retaggio non vi sgomenti (vedete quate cose si nascondono nelle parole?).
Corruzione, camorra, legalità. Tre lessemi, tre campi di battaglia. Cominciamo dalla corruzione. Corruzione, ovvero il processo del corrompersi, o lo stato dell'essere corrotto. Una cosa o una persona viene deviata da qualche causa dalla propria natura, e diventa qualcosa d'altro, in senso ovviamente peggiorativo. Ma allora, quando parliamo di una corruzione eretta a sistema, non stiamo forse esprimendo una contraddizione in termini? In Italia non esiste corruzione, ma una tragica discrasia fra il sistema giuridico e quello economico. Camorra. Sull'etimo di questo termine si dibatte da decenni, e non si è ancora arrivati a un punto fermo. Sull'origine del fenomeno a Napoli, invece, sappiamo abbastanza. Nasce all'inizio dell'Ottocento come società segreta, sul modello della Massoneria, ma è espressione dei ceti popolari anziché della nobiltà e della borghesia. Regolata da rigide norme e rituali, è quanto di più diverso si possa immaginare dalla criminalità organizzata attiva oggi a Napoli e in Campania. Eppure si continua a parlare di camorra, male onnipresente, apparentemente congenito a questa disgraziata etnia che sono i napoletani, con i loro mandolini e le loro sfogliatelle, ma anche le mollette per fare la zompata, come in certi film che si facevano una volta, o il ferro per fare il pezzo, nella versione aggiornata e corretta della camorra moderna (anche il Diavolo si fa l'iPhone!). E veniamo alla legalità, il nodo centrale del discorso.
Legalità: la qualità di essere legale, ovvero conforme alla legge. Che cos'è la legge? Naturalmente, se ci addentrassimo in una discussione approfondita sull'argomento, ne usciremmo vegliardi e canuti, senza peraltro aver raggiunto, molto probabilmente, un punto fermo che fosse uno. Sappiamo tutti, però, che esistono diversi orientamenti al riguardo, diverse idee di quale dovrebbe essere il fine dell'attività legislativa. Giustizia, equità, progresso; ma anche proibizione, castigo, repressione. Il concetto di legge contiene tutto ciò. Ma confesso, nella mia pochezza filosofica e intellettuale, di essere molto più attratto da un'altra antinomia: quella, di eduardiana memoria, fra la legge che fa ridere e quella che fa piangere. Quella di Filumena Marturano, da un lato, e quella del "mondo che si difende con la carta e con la penna" dall'altro. Quella di Domenico Soriano, commerciante, per cui tutto è una questione di dare e avere. Il cognome è mio, e lo voglio dare solo a mio figlio.
Allora vedete che questo tipo di discorso basato su un concetto formalistico dei rapporti economici e istituzionali, del fenomeno criminale (peraltro vasto e complesso) e della tanto invocata legalità sembra fatto apposta per gettare fumo negli occhi (e difatti lo è). Non è altro che il modo in cui il pensiero unico, nella sua sconfinata miseria intellettuale e morale, pretende di ricomporre contraddizioni di origine chiaramente economica all'insegna di un'architettura morale ammantata di progressismo, ma sostanzialmente ultraconservatrice. La legalità diventa un'arma, un oggetto contundente. L'ennesima variante del manganello, che tanto titilla, con quella sua forma vagamente fallica e quel suo virile turgore, la fantasia dell'italo fallocrate. Una variante più educata, più colta, più politicamente corretta. Ma alla fine Domenico Soriano, Ignazio La Russa e Roberto Saviano stanno tutti dalla stessa parte: da quella della legge che fa piangere. E c'è veramente poco da ridere...
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