Capita di tanto in tanto che, per uno strano scherzo del destino, di quelli tanto cari a Lina Wertmuller, dagli abissi marini spunti fuori qualche bizzarra creatura dall'aspetto vagamente e inspiegabilmente inquietante. Ricordate, ad esempio, lo squalo preistorico pescato nelle acque del Giappone qualche anno fa? Ecco, capita a volte che dai più profondi recessi delle nostre menti affiorino alla superficie abominii non meno insoliti e mostruosi (nel senso latino del termine). Gli abissi della psiche, come tutti sappiamo, si chiamano "inconscio"; che, come ci spiega Massimo Troisi in Le vie del signore sono finite, significa appunto "in testa". L'inconscio è lì, ben localizzato, studiato e analizzato ormai da un secolo abbondante; eppure seguita a creare equivoci e confusioni. Del resto, è evidente: un conto è sapere che esiste la Fossa delle Marianne, e un altro conoscerla palmo a palmo.
L'inconscio, come abbiamo detto, si trova dentro la testa; ma cosa c'è dentro l'inconscio? Pare che la risposta sia: i sogni. Quando non mangiava strudel o ascoltava Mozart (magari gustandone al contempo le deliziose palle), Sigmund Freud si accomodava nel suo studio in compagnia di donne nevrotiche e le incoraggiava a raccontargli, con dovizia di particolari, i loro sogni. Oddio, che fossero nevrotiche lo sosteneva lo stesso Sigmund, qualcun altro potrebbe ipotizzare che fossero molto più semplicemente infelici, insoddisfatte. Il punto è che, nella rigida società viennese dell'epoca, perdere il proprio contegno anche soltanto per un attimo, in presenza di testimoni, era assolutamente inaccettabile. Una battuta appena sconveniente, una risatina di troppo, una scenata a tavola, specie davanti ad ospiti, equivalevano per quei borghesotti dai rigidissimi colletti a sbroccare. Sono sessista o biecamente boccaccesco se ipotizzo che i problemi di Anna O. si sarebbero potuti risolvere molto meglio e più rapidamente con l'intervento di un gigolò, anziché di un medico? Se invece volessi dar retta alla mia giovanile e ormai accantonata (e con ottime ragioni) indole romantica, direi che forse il problema di Anna O. era di non aver mai trovato l'amore, qualsiasi cosa voglia dire questa frase dal sapore così smielato e retorico. I sogni, per Freud e i suoi seguaci, sono come indizi, prove di un delitto da cui partire per ricostruire il misfatto, e risalire al colpevole. Del resto, se l'infelicità è una malattia, va individuato l'agente patogeno. Io mi abbandonerò invece alla mia indole comico-poetica, da eterno e incorreggibile Pulcinella, e definirò i sogni ingiunzioni di sfratto: quando un pensiero resta per troppo tempo nell'inconscio, il padrone di casa gli intima di fare fagotto. Un pensiero sfrattato dall'inconscio non può fare altro che prendere la mappatella e andarsene a stare dove il Super-Io non gli rompe più le scatole: nei nostri sogni.
Il problema, a questo punto, è che uno vorrebbe anche farlo uscire quel pensiero dal limbo, dalla terra di nessuno che è la dimensione onirica; ma purtroppo lì i pensieri si combinano e si manifestano in base a una sintassi differente. La sintassi della vita da svegli, ben esemplificata dalla sua omologa che regola i nostri idiomi, è lineare (le parole e le frasi si susseguono, sono disposte in base a una sequenza con un ordine preciso) e conforme ai principi elementari della logica formale (se A è diverso da B non può essere anche uguale a B). La sintassi dei sogni è diversa, è un guazzabuglio di elementi che non si capisce cosa abbiano a che fare l'uno con l'altro, si sovrappongono, si confondono, mutano e precipitano gli uni negli altri.
E allora mettere ordine in quel caos risulta arduo; tirare fuori il senso da quell'acquitrino di simboli è un po' come pescare il pescecane preistorico di nipponiche origini.
Affascinato da questo mondo curioso assai, certamente più interessante di quello che mi circonda quando apro gli occhi, cominciai una decina d'anni fa a prendere nota dei miei sogni. Seguendo le indicazioni e le dritte di alcuni siti di dubbia validità scientifica, mi accinsi addirittura a decifrare questi pensieri che migravano a orde dal mio inconscio, come per l'emanazione di leggi razziali, più che semplici ordinanze di sfratto. Sempre, s'intende, in uno spirito rigorosamente pulcinellesco e men che dilettantistico. Le conclusioni a cui mi portò questa attività furono essenzialmente due:
1) Sto diventando forse ricchione.
2) La felicità è sostanzialmente impraticabile.
Sorvolando sulla conclusione numero uno, in quanto trattasi di affermazione che, fra il serio e il faceto, si trova molto più sul versante del faceto, passiamo a commentare il secondo punto.
Quanti fantasmi mi hanno visitato in anni e anni di frenetica attività onirica... Sì, perchè, accortosi evidentemente che prestavo attenzione a tutti quei pensieri sfrattati, il mio inconscio ha progressivamente incrementato il numero di sfratti. Sono arrivato ad annotare oltre un centinaio di sogni, in circa cinque anni; e si tratta solo di quelli che riuscivo a ricordare abbastanza bene da stenderne un resoconto. Dare una sistemazione a tutti quegli sfollati non era un'impresa da poco; sarebbe stato più facile trovare alloggio a tutti i terremotati dell'80. Vedevo le loro facce stravolte da profughi, da vittime della guerra e della fame, ma non capivo le loro lingue. Non potevo andare incontro alle loro richieste, per quanto pressanti fossero. Certo, dialogavo perfettamente con loro nella zona franca della fase REM, ma una volta fuori era difficile dare loro un senso pertinente alla vita "reale".
Questi profughi erano i miei desideri, i miei bisogni, le mie aspirazioni recondite. E c'era lo stesso rapporto fra me e loro che può esserci fra Calderoli e un senegalese che va in moschea a Milano indossando la maglia del Napoli. E allora, d0v'è l'interprete? Come mediare fra due lingue, e due mondi, così diversi? Chi può chiarire il mistero dei sogni?
Agire d'impulso, seguendo il messaggio che crediamo di discernere in quelli, può essere pericoloso. Possiamo ritrovarci nelle condizioni del povero Alberto Saporito di cui sopra, o in quelle di Sigismondo, l'abbrutito tiranno protagonista di un famoso dramma di Calderón de la Barca, anche lui incapace di distinguere i sogni dalla realtà. E così, proprio quando ti sembra di essere riuscito a dominare il corso degli eventi, di aver dato alla tua vicenda una sintassi coerente, anche una forma stilisticamente discreta, rischi di risvegliarti nella tua cella, in catene. A me capita puntualmente, ogni volta che mi faccio un bel sogno. Alla fine non si riesce a capire più se gli occhi sono aperti o chiusi. O forse, come ipotizzava Borges (e qui chiudiamo questa volgare messinscena di cultura letteraria), ognuno di noi è sognatore e sognato allo stesso tempo. Ciò vorrebbe dire che qualcuno sta sognando me... Ih che suonno 'e mmerda ca se sta facenno!
venerdì 31 dicembre 2010
La sintassi dei sogni e la felicità impraticabile
mercoledì 29 dicembre 2010
La leggenda del re bevitore
Cari lettori, oggi parliamo di mitologia. Per la precisione, di una leggenda nordica che si credeva perduta, e che solo pochi anni orsono è stata riportata alla luce dal lavoro certosino del grande archeologo Sir Michael Hunt, della University of East Anglia. Si tratta del mito di Vognar, il grande Rigurgitatore. La versione che ci è pervenuta (una pergamena ritrovata da Hunt in un sottoscala dell'Ikea) risale al XII secolo, ma pare che la leggenda fosse in circolazione almeno da cinquecento anni prima, e fosse parte di una saga ormai perduta.
Vognar, re dei Geati e discendente di Beowulf, è stimato dal suo popolo per la saggezza e il valore in battaglia; ma sono soprattutto le smodate quantità di alcol che ingerisce tutte le sere a guadagnargli la sua illustre fama. Purtroppo capitava di tanto in tanto che Vognar avesse diverbi con la giovane moglie Inge, una fanciulla bella e florida, che rinfacciava al marito i bagordi protratti fino a tarda ora e (dicono i più maliziosi) il suo conseguente venir meno ai doveri comiugali. La violenza domestica è sempre qualcosa di deprecabile; ma quando questa ha luogo nella stanza da letto di un guerriero vichingo, laddove quegli custodisce la sua grossa e pesante ascia bipenne, gli esiti sono spesso e volentieri nefasti. Fu così che Inge cessò di essere bella e florida per passare su due piedi allo status di cadavere orrendamente mutilato. Le società scandinave arcaiche presentavano caratteristiche fortemente egalitarie (come ci insegna Sir Michael nel suo Storia sociale della Scandinavia altomedievale), e così Vognar fu costretto all'esilio dal consiglio degli anziani.
Caro lettore, la Svezia oggi non sarebbe altro che uno sterminato cimitero, se Vognar non fosse tornato nella città natale, allertato da una visione che il benevolo Odino gli aveva mandato in sogno. Lanciato il suo urlo di battaglia, si scagliò sul Kraken con tutta la sua forza, ma si accorse subito che le armi convenzionali non potevano nulla contro quella creatura demoniaca. E così Vognar ingurgitò una quantità smodata di idromele, fino a esserne ebbro e satollo. Poi, cacciatosi due dita in gola con la risolutezza di cui solo il vero beone è capace, prese a vomitare senza il minimo ritegno nella direzione del Kraken. I bifolchi ipotermici non potevano credere ai loro occhi: quel mostro dalle dimensioni mastodontiche venne spazzato via senza difficoltà dall'osceno torrente che sgorgava dalle fauci di Vognar. Con un verso assordante quanto straziante il Kraken si inabissò nelle acque dalle quali poc'anzi era salito in superficie, fra il tripudio dei Geati. Vognar, stravolto per lo sforzo, giaceva esanime in una pozzanghera fetida e ripugnante, ma vittorioso e finalmente riabilitato. Quello stesso volgo che lo aveva cacciato come un cane randagio ora lo acclamava come il salvatore di un intero popolo. In suo onore fu costruita una sfarzosa Sala dei Bagordi, e fu eretta una magnifica statua di bronzo di Vognar, il grande Rigurgitatore. E' anche vero che per svariati mesi da quelle acque immonde non si riuscì a pescare un merluzzo che fosse uno...ma questa è un'altra saga.
Vognar, re dei Geati e discendente di Beowulf, è stimato dal suo popolo per la saggezza e il valore in battaglia; ma sono soprattutto le smodate quantità di alcol che ingerisce tutte le sere a guadagnargli la sua illustre fama. Purtroppo capitava di tanto in tanto che Vognar avesse diverbi con la giovane moglie Inge, una fanciulla bella e florida, che rinfacciava al marito i bagordi protratti fino a tarda ora e (dicono i più maliziosi) il suo conseguente venir meno ai doveri comiugali. La violenza domestica è sempre qualcosa di deprecabile; ma quando questa ha luogo nella stanza da letto di un guerriero vichingo, laddove quegli custodisce la sua grossa e pesante ascia bipenne, gli esiti sono spesso e volentieri nefasti. Fu così che Inge cessò di essere bella e florida per passare su due piedi allo status di cadavere orrendamente mutilato. Le società scandinave arcaiche presentavano caratteristiche fortemente egalitarie (come ci insegna Sir Michael nel suo Storia sociale della Scandinavia altomedievale), e così Vognar fu costretto all'esilio dal consiglio degli anziani.
Vognar il grande Rigurgitatore, in una illustrazione di Gustavo Dorè
Proprio quando sembrava che tutto si fosse aggiustato per il meglio, qualcosa di orribile rammentò a quegli ipotermici bifolchi la ragione che rende necessari momarchi e asce bipenni: dalle oscure, profonde e frigide acque del mare emerse il Kraken, più mostruoso e malvagio che mai. Appena il Kraken fu salito il superficie, i Geati capirono che avevano fatto un tragico errore di calcolo. Presero a strapparsi i capelli e maledire la loro avventata decisione, mentre l'abominio pelagico li afferrava fra le possenti fauci e li divorava senza pietà.Nelle tortuose e sdrucciolevoli (per via del ghiaccio) stradine di Trondheim non riescheggiarono più i salaci motteggi e le sguaiate risa dell'ebbro monarca, e ben presto il volgo (che, vale la pena di ricordarlo, è zotico e ciarliero) si dimenticò di lui. Tutto procedeva come sempre, in quell'accrocchio di casupole fra le immense foreste di conifere e il gelido Mare del Nord. I Geati non sentirono il bisogno di eleggere un nuovo re, ma entrarono in assemblea permanente (le società scandinave arcaiche erano un fulgido esempio di democrazia partecipativa) e fondarono l'ingiustamente dimenticata Comune di Trondheim.
Caro lettore, la Svezia oggi non sarebbe altro che uno sterminato cimitero, se Vognar non fosse tornato nella città natale, allertato da una visione che il benevolo Odino gli aveva mandato in sogno. Lanciato il suo urlo di battaglia, si scagliò sul Kraken con tutta la sua forza, ma si accorse subito che le armi convenzionali non potevano nulla contro quella creatura demoniaca. E così Vognar ingurgitò una quantità smodata di idromele, fino a esserne ebbro e satollo. Poi, cacciatosi due dita in gola con la risolutezza di cui solo il vero beone è capace, prese a vomitare senza il minimo ritegno nella direzione del Kraken. I bifolchi ipotermici non potevano credere ai loro occhi: quel mostro dalle dimensioni mastodontiche venne spazzato via senza difficoltà dall'osceno torrente che sgorgava dalle fauci di Vognar. Con un verso assordante quanto straziante il Kraken si inabissò nelle acque dalle quali poc'anzi era salito in superficie, fra il tripudio dei Geati. Vognar, stravolto per lo sforzo, giaceva esanime in una pozzanghera fetida e ripugnante, ma vittorioso e finalmente riabilitato. Quello stesso volgo che lo aveva cacciato come un cane randagio ora lo acclamava come il salvatore di un intero popolo. In suo onore fu costruita una sfarzosa Sala dei Bagordi, e fu eretta una magnifica statua di bronzo di Vognar, il grande Rigurgitatore. E' anche vero che per svariati mesi da quelle acque immonde non si riuscì a pescare un merluzzo che fosse uno...ma questa è un'altra saga.
venerdì 17 dicembre 2010
Nè con don Saviano nè contro don Saviano
Ah, che bello poter finalmente discutere di qualcosa che non sia sempre il solito Napoli o un generico malessere privato. Con la vita politica ormai ai minimi storici dell'Italia repubblicana, i movimenti si impadroniscono delle strade e, nel bene e nel male, fanno parlare di loro. Come accade di norma ogniqualvolta gruppi numerosi di persone si riuniscono in un qualsiasi luogo, per un qualsiasi scopo, sono scaturite tensioni e si sono innescate dinamiche potenzialmente pericolose. Martedì pomeriggio, a Roma, nella zona di Via del Corso/P.zza del Popolo, queste dinamiche sono sfociate in tafferugli piuttosto violenti fra manifestanti e forze del (dis)ordine. Come è ovvio nell'era della comunicazione e dell'high-tech, questi scontri sono stati ampiamente documentati con video e fotografie. Abbiamo visto i sanpietrini, le bombe carta, i fumogeni, e poi i manganelli, le suole degli anfibi e addirittura la pistola di un finanziere che, a dirla tutta, non aveva l'aria di essere molto presente a se stesso mentre la brandiva, anche perchè aveva subito un discreto cappottone a base di calci, pugni e colpi di bastone. Fatemelo dire subito: è stato un errore. Se porti centomila persone in una piazza non hai bisogno della violenza per avere visibilità. Inoltre, dare addosso ai servi per colpire il padrone non ha il minimo senso: per quanto Ignazio La Rissa ieri sera si prodigasse in complimenti e leccate di culo ai poliziotti che per 1200 euro al mese devono fare quel lavoraccio e devono anche prendersi gli insulti e le botte, la verità è che non interessa a nessuno se un povero cristo che non ha trovato di meglio per guadagnarsi da vivere si rompe la testa. Condanno quella violenza, senza attenuanti.
Ora che ho messo in chiaro la mia posizione, vorrei però far notare come quelle intemperanze, tra l'altro frutto di una esasperazione che chi ha il sederino al caldo (metaforicamente, in questo gelido inverno...) difficilmente può capire, hanno fatto passare in secondo piano (se non terzo o quarto) le ragioni della protesta. La situazione insoddisfacente della ricostruzione all'Aquila. La gestione tragicomica dell'emergenza rifiuti a Napoli. E, dulcis in fundo, una riforma dell'istruzione così cattiva da aver messo d'accordo studenti, ricercatori e docenti nel condannarla.
Non sono così ingenuo da non capire che i movimenti spontanei, quelli non pilotati da partiti o altre istituzioni politiche o economiche, fanno paura. Fanno paura a tutti coloro che esercitano un potere, la cui gestione o la cui stessa legittimità potrebbe essere messa in discussione. La stampa non fa eccezione. Un giornale come Repubblica, che conduce una battaglia quotidiana contro Berlusconi e il centro-destra, martedì e nei giorni seguenti si è prodigato nel mostrarci la violenza dei manifestanti, come se gli scontri con la polizia fossero qualcosa di nuovo e inaudito nel panorama delle lotte sociali. Siccome il PD con tutta probabilità muore dalla voglia di cavalcare questa protesta (così come il PCI nel '90 fa provò a cavalcare la Pantera) per riavvicinarsi alle masse che si è perso per strada durante questi vent'anni di costante degenerazione e impoverimento politico, bisogna isolare i violenti. O, per meglio dire, gli elementi più radicali. Non per aiutare il movimento a esprimersi in modo più intelligente e democratico, ma per imbrigliarlo e strumentalizzarlo. La lettera di don Saviano agli studenti , così come la salita di Bersani sul tetto della Facoltà di Architettura di Roma, rientra esattamente in questa logica.
Non è sulla condanna della violenza che dissento; avete letto la mia, poche righe fa. Quello che vorrei discutere è se sia opportuno o meno di usare il tuo spazio su un quotidiano che orienta l'opinione della sinistra moderata per criticare gli errori di un movimento che, sebbene passibile di critiche, è nato per opporsi a ben altre violenze. Un approccio che conosciamo bene, perchè è lo stesso che i sionisti in genere (fra cui lo stesso Saviano) usano per giustificare alcune politiche e iniziative militari di Israele: si mostra il palestinese (magari bambino) che lancia la pietra contro il blindato, e questo serve per instaurare una narrativa distorta, che catapulta lo spettatore nel mezzo dell'azione senza fargli lo "spiegone" di quello che è successo prima. Un po' come se ci mostrassero Otello che soffoca Desdemona senza farci capire cosa lo ha portato a farlo; certo che così Iago ne uscirebbe pulito. Dalle testimonianze dei contemporanei sappiamo che gli spettatori partecipavano molto attivamente alle rappresentazioni dei drammi di Shakespeare, in un'epoca in cui non esistevano molte altre forme di intrattenimento oltre al teatro, e quindi questo era rivolto a persone di ogni estrazione sociale. Pare che in più occasioni qualcuno dei più esagitati fra il pubblico provasse addirittura a salire sul palcoscenico per aggredire fisicamente il rancoroso veneziano. Le ingiustizie, si sa, suscitano indignazione e rabbia nell'animo umano. E se può tanto la rappresentazione di un'ingiustizia, un torto vissuto in modo indiretto, stiamo a meravigliarci che in mezzo a una folla di persone private della loro dignità e del loro futuro ce ne fossero alcune decise a sfogarsi contro i bersagli che avevano a disposizione? Ripeto, a scanso di equivoci, che questo metodo di protesta io non lo condivido. Ma perchè non parliamo di Iago? Di questo governo vergognoso, e di quello che ha fatto e continua a fare al nostro paese? Di un'opposizione preoccupata solo di limitare i danni, di non essere travolta dal fiume in piena delle "invasioni barbariche", di questa merda di pensiero unico, mentre da tre anni abbiamo sotto gli occhi i penosi limiti dell'ordine mondiale che quella "cultura" ha prodotto?
Roberto Saviano, mo' due parole te le voglio dire pure io che sono l'ultimo stronzo (a differenza dello sceicco Beige). Ti ho stimato tantissimo quando ho letto Gomorra. Era qualcosa di nuovo, un modo di parlare di camorra che non era più quello freddo e distaccato del bollettino di guerra, o semplicemente ricostruzione giornalistica dell'attività poliziesca e giudiziaria di contrasto alla criminalità. Tu ci hai portato negli atelier (in inglese li chiamano sweatshops e mi suona meglio) dove cinesi e napoletani si contendono il lavoro che offrono loro i grandi marchi, a nero e per pochi soldi, per poi rivenderne i prodotti a caro prezzo nelle boutiques, o addirittura farli indossare a una Angelina Jolie per una serata di gala. Ci hai portato in mezzo alla guagliunera di Casal di Principe e di Scampia, ci hai fatto capire che vuol dire per loro entrare nel Sistema o imbracciare un Kalashnikov. Ci siamo fatti una pisciata sui sogni di onnipotenza di quel boss che voleva essere Scarface, proprio nella piscina della sua villa sequestrata e poi data alle fiamme perchè nessun altro potesse occuparla. E che tu avessi da dire qualcosa di nuovo lo hanno capito milioni di persone in tutto il mondo, persone che grazie a te ora sanno cosa è veramente Napoli, e cosa è l'Italia.
Poi sono arrivate le minacce, la vita sotto scorta, e l'assalto di un altro sistema alla tua immagine pubblica. Hai cominciato a scrivere articoli per Repubblica, l'Espresso e compagnia bella, tutti deludenti, banali, buonisti. Quella rabbia, quel bisogno di dare voce a chi non ce l'ha, quella cazzimma di cui parlava Pino Daniele (lo cito di nuovo, ma è sempre un Pino d'antan) quando diceva "aiza 'o vraccio 'e cchiù, pe nun te fà 'mbruglià, e dalle 'nfaccia senza te fermà"; tutte queste cose ti hanno abbandonato. Avevi paura, comprensibilmente, che ti facessero fuori. E allora ci hai pensato tu: hai ucciso quella voce solista che faceva tanta paura. Sei entrato nel coro, ti sei preso lo spartito che ti hanno dato, e adesso canti la stessa canzone che cantano tutti gli altri benpensanti, quelli che scrivono un libro all'anno e vendono 5000, 10.000 copie, perchè parlano a una sparuta minoranza di bravissime persone con un alto livello di istruzione e dal reddito in genere medio-alto che non vedono altra soluzione ai mali della nostra società al di fuori di una constatazione ciclica e fine a se stessa del malcostume e della corruzione. Bene, questa è stata la tua scelta, e io posso dirmene deluso, ma non certo metterne in discussione la legittimità. Però allora anche tu astieniti dal parlare di cose che non ti appartengono più, da cui tu stesso ti sei voluto allontanare. Non sei più uno scugnizzo, non sai più stare per strada, non sai più cantare il blues. Sei diventato un prete. E allora, visto che i pulpiti non ti mancano, fai pure i tuoi sermoni. Ma, per carità di dio che non esiste, non li fare a chi, per dirla con Guccini, ha sempre avuto, e sempre avrà contro, "gli dèi, i comandamenti ed il dovere". Quelli, Robè, sono scugnizzi, e tu con loro non ci accocchi più niente.
mercoledì 15 dicembre 2010
I cartoni animati giapponesi, la pedagogia spicciola e l'eterna lotta fra il bene e il male
Bene, l'Italia s'è desta (come accade spesso quando le arriva l'acqua alla gola), e anch'io dunque mi scuoto dal mio consueto torpore, nonostante la temperatura insolitamente rigida di questo dicembre napoletano, e metto la testa a pensare. Naturalmente, essendo io un grandissimo arricchiunito, non prendo neanche in esame la possibilità di uscire di casa e partecipare attivamente alla vita del paese, dando fuoco magari all'auto di qualche piccolo imprenditore berlusconiano evasore fiscale e approfittandone per scaldarmi un po'; no, il mio sederino ignavo rimane saldamente ancorato alla sedia, ma in compenso il mio cervello peppéa come il ragù sul fuoco, per donarvi succulente porzioni di saggia follia.
Tra ieri e oggi il web è stato inondato di foto della manifestazione di ieri, in particolare di alcuni dei suoi momenti più truculenti. Sebbene a me risulti evidente che almeno la metà dei "facinorosi" siano infiltrati delle forze del (dis)ordine, alcuni politici, opinionisti e facce di cazzo assortite hanno approfittato di tali immagini per tirare fuori ancora una volta la storiella dei manifestanti violenti e antidemocratici, come se le manifestazioni di ieri avessero coinvolto solo le poche decine di "facinorosi" che vediamo devastare Via del Corso; e, soprattutto, come se le succitate forze del (dis)ordine non avessero svolto un ruolo principe, come spesso si verifica, nell'innescare la violenza attribuita ai dimostranti.
Bene, io ho una nipotina di sei anni che spesso si trova a guardare i telegiornali, a tavola con suo padre, i suoi nonni e me, e ogni tanto mi pone delle domande sulle notizie che sente. Io le rispondo in termini grottescamente manichei, per cui ormai nella sua personale hit parade del Male Berlusconi ha superato la strega di Biancaneve e tutti gli altri cattivi delle tonnellate di film d'animazione che conosce praticamente a memoria. Un passatempo che apprezzo particolarmente è discutere con lei delle varie punizioni da comminare al nano malefico; anche se, ahimé, si tratta di supplizi piuttosto infantili, come ad esempio fare un sacco di puzzette nel gabinetto e poi chiudercelo dentro. Io penso che questa mancanza di cattiveria agonistica nei confronti di un personaggio della risma di Silvio Berlusconi sia dovuta proprio alla natura dei cartoni animati, prodotto tradizionalmente destinato al pubblico infantile, nell'era del politically correct. Non ci sono più i cartoni di una volta, quelli giapponesi con cui siamo cresciuti noi bambini degli anni '80. Io a 5 anni guardavo Goldrake, non la Sirenetta o la Bella e la bestia, e quindi sapevo che nel mondo esiste un male inestirpabile, che va combattuto a oltranza. I venusiani non finivano mai, il bene non trionfava, ma a stento riusciva a respingere il male puntata dopo puntata. E, badate bene, i venusiani non erano "cattivi" nel senso di moralmente abietti: i venusiani facevano il male in quanto nemici del pianeta Terra. Questi cartoni animati erano realmente educativi, perchè ti mostravano che esisteva un noi e un loro. Ti mostravano come la sete di potere e di dominio sia alla base di ogni forma di barbarie. I tiranni, i nemici della collettività avevano fattezze mostruose, disumane, proprio per evidenziare la loro antiteticità a tutto ciò che è umano. Quei cartoni animati, a loro modo (giapponese), erano libertari. E come non citare, accanto ad Atlas Ufo Robot, capolavori come Jeeg robot d'acciaio e soprattutto Daitarn 3, che oltre a questi bei concetti sul bene e sul male ci offriva anche una finestra sul mondo femminile e sull'interazione fra uomini e donne.
Un po' più tardi uscì Ken il guerriero, un'epopea post-atomica con sottotrama romantica (mancava però la linea comica), in cui una manciata di superuomini riempiti di anabolizzanti si contendevano il dominio di ciò che restava del mondo. Quanta violenza c'era in Ken il guerriero...
Ora, tutti questi psicologi, pedagoghi e opinionisti che parlano in TV o tengono rubriche su quotidiani e riviste spesso ci dicono che i bambini non vanno traumatizzati, non vanno esposti alla violenza, addirittura se guardano un film dove c'è una scazzottata o una sparatoria in più devono essere in compagnia dei genitori. Mi pare che si esageri. Ma non è che forse la ragione per tutte queste preoccupazioni non è la serenità e l'equilibrio dei bambini, quanto piuttosto il senso di colpa rispetto all'ordine sociale ed economico del mondo che consegnamo loro?
Pino Daniele, quando era ancora una persona seria, cantava che i bambini andavano esposti al sole, perchè dovevano capire dove faceva freddo e dove faceva più caldo. I bambini devono sapere come va il mondo, devono sapere che non è un luogo ordinato, giusto, ragionevole. Devono capire che se Ken schiatta la capa a una ventina di fetenti con un solo pacchero a mana smerza non è perchè lui sia un violento o un prepotente, tutt'altro: è semplice autodifesa. Devono capire che alla base della violenza c'è sempre un sopruso, una minaccia, un finto ordine. Le bambine devono smettere di sognare il principe azzurro, perchè nella realtà principi, re e potenti di vario genere e provenienza non sono di solito buoni e generosi; e, quand'anche lo fossero, durerebbero poco sul loro trono, perchè tali doti mal si conciliano con l'esercizio del potere. Devono capire, i bambini, che non c'è ordine prima dell'avvento dell'eroe, e che questi non può contare sull'aiuto di fate o maghi, e pertanto non emergerà necessariamente vincitore dalle sue prove. Devono capire che la vita non è una favola, ma un'epopea, e che il finale dobbiamo scriverlo tutti insieme. E se ne schiatteranno di cape, in questa eterna lotta fra il bene e il male.
martedì 14 dicembre 2010
L'uomo di niente
Oggi ad ora di pranzo, dopo vari giorni passati a promettere, mercanteggiare, sedurre e subornare, il governo ce l'ha fatta. Silvio Berlusconi si salva alla Camera per tre voti. Potremmo passare un buon quarto d'ora io ad affastellare epiteti a carico di tali personaggi, e voi a leggerli. Ma invece io vorrei che questo post fosse una riflessione, se è possibile e opportuno riflettere quando le principali città italiane sono sconvolte da disordini di piazza di una violenza alla quale non eravamo più abituati ormai da molti anni.
In questi giorni di sospensione dell'attività parlamentare l'Italia che non si riconosce in Berlusconi e in questo governo è rimasta con il fiato sospeso, in preda a un senso di angosciosa attesa. Si era come Vladimir ed Estragon, i due personaggi che aspettano Godot nel celebre lavoro di Beckett. E mi sembra che il paragone in questo caso non sia peregrino, visto il livello di assurdità che ha raggiunto la vita politica italiana. Un altro elemento che potrebbe rendere legittimo l'accostamento è che Vladimir ed Estragon sono in genere rappresentati come barboni, mendicanti cenciosi, uno stato patrimoniale dal quale ormai pochi italiani possono dire di essere realmente lontani. E il parallelismo si spinge oltre: che succede in Aspettando Godot? Niente. E niente è successo oggi.
I protagonisti della non-vicenda parlano fra loro senza in realtà dire niente; personaggi minori entrano ed escono di scena, alludendo talvolta a Godot, ma senza fornire indicazioni certe e precise circa la sua venuta. Soprattutto, non sappiamo per quale ragione i due poveracci aspettino Godot, e come quest'ultimo intenda aiutarli. Insomma, vorremmo uscire da questo tunnel lungo 16 anni, ma non sappiamo come fare. Aspettiamo qualcosa di non ben chiaro, che ovviamente non arriva. Anche l'azione, finanche nelle sue forme più decise, come assaltare una camionetta e darle fuoco, è improntata a un generico malessere per il quale non saprei individuare una cura. Se domani, per assurdo, Berlusconi decidesse di rimettere il suo mandato nelle mani di Napolitano, i nostri problemi sarebbero tutti risolti? Un ipotetico governo di solidarietà nazionale affronterebbe i problemi dell'occupazione, dei salari, delle pensioni, la riforma dell'istruzione, il problema rifiuti e quant'altro in modo soddisfacente e rispondente in qualche modo all'interesse comune?
Questa è l'Italia costruita da Berlusconi distruggendo poco a poco il paese, certo pieno di contraddizioni, ma sveglio e vitale, che esisteva prima del suo avvento sulla scena politica. Questo è il paese che rimane dopo decenni di mazzolature mediatiche da parte delle sue reti televisive, di quella assoluta leggerezza così pesante quando la si usa come un oggetto contundente, le donnine seminude che non dicevano mai niente eppure facevano arrivare il suo messaggio fin troppo forte e chiaro, le immagini di una libertà che a ben vedere era ed è gretta, angusta, reazionaria, ma che con la giusta luce (apri tutto Biascica!) sembra una bella soap opera americana. Questa è l'Italia del niente, in cui da 5-6 mesi non si parla di altro che di una drammatizzazione del niente che a Beckett je fa 'na pippa.
Parlavo prima degli epiteti che avrei potuto affibbiare ai "traditori" del FLI e dell'IDV. A Berlusconi ne potrei indirizzare anche di più, ma stasera vorrei limitarmi a uno: uomo di niente. Uomo di niente, leader di un paese di niente, in alternativa al quale non esiste che il niente. Non rammarichiamoci troppo del fatto che è ancora in sella: è ccosa 'e niente.
In questi giorni di sospensione dell'attività parlamentare l'Italia che non si riconosce in Berlusconi e in questo governo è rimasta con il fiato sospeso, in preda a un senso di angosciosa attesa. Si era come Vladimir ed Estragon, i due personaggi che aspettano Godot nel celebre lavoro di Beckett. E mi sembra che il paragone in questo caso non sia peregrino, visto il livello di assurdità che ha raggiunto la vita politica italiana. Un altro elemento che potrebbe rendere legittimo l'accostamento è che Vladimir ed Estragon sono in genere rappresentati come barboni, mendicanti cenciosi, uno stato patrimoniale dal quale ormai pochi italiani possono dire di essere realmente lontani. E il parallelismo si spinge oltre: che succede in Aspettando Godot? Niente. E niente è successo oggi.
I protagonisti della non-vicenda parlano fra loro senza in realtà dire niente; personaggi minori entrano ed escono di scena, alludendo talvolta a Godot, ma senza fornire indicazioni certe e precise circa la sua venuta. Soprattutto, non sappiamo per quale ragione i due poveracci aspettino Godot, e come quest'ultimo intenda aiutarli. Insomma, vorremmo uscire da questo tunnel lungo 16 anni, ma non sappiamo come fare. Aspettiamo qualcosa di non ben chiaro, che ovviamente non arriva. Anche l'azione, finanche nelle sue forme più decise, come assaltare una camionetta e darle fuoco, è improntata a un generico malessere per il quale non saprei individuare una cura. Se domani, per assurdo, Berlusconi decidesse di rimettere il suo mandato nelle mani di Napolitano, i nostri problemi sarebbero tutti risolti? Un ipotetico governo di solidarietà nazionale affronterebbe i problemi dell'occupazione, dei salari, delle pensioni, la riforma dell'istruzione, il problema rifiuti e quant'altro in modo soddisfacente e rispondente in qualche modo all'interesse comune?
Questa è l'Italia costruita da Berlusconi distruggendo poco a poco il paese, certo pieno di contraddizioni, ma sveglio e vitale, che esisteva prima del suo avvento sulla scena politica. Questo è il paese che rimane dopo decenni di mazzolature mediatiche da parte delle sue reti televisive, di quella assoluta leggerezza così pesante quando la si usa come un oggetto contundente, le donnine seminude che non dicevano mai niente eppure facevano arrivare il suo messaggio fin troppo forte e chiaro, le immagini di una libertà che a ben vedere era ed è gretta, angusta, reazionaria, ma che con la giusta luce (apri tutto Biascica!) sembra una bella soap opera americana. Questa è l'Italia del niente, in cui da 5-6 mesi non si parla di altro che di una drammatizzazione del niente che a Beckett je fa 'na pippa.
Parlavo prima degli epiteti che avrei potuto affibbiare ai "traditori" del FLI e dell'IDV. A Berlusconi ne potrei indirizzare anche di più, ma stasera vorrei limitarmi a uno: uomo di niente. Uomo di niente, leader di un paese di niente, in alternativa al quale non esiste che il niente. Non rammarichiamoci troppo del fatto che è ancora in sella: è ccosa 'e niente.
giovedì 2 dicembre 2010
Cribari, ovvero: la fuga dei cervelli...dai loro proprietari.
Ieri sera, ad Annozero, si parlava della riforma Gelmini e delle sue conseguenze sul già disastrato mondo accademico italiano. Non sono solo gli studenti ad essere colpiti, con l'aumento delle rette e la mancata erogazione di servizi come mense e studentati, ma anche i ricercatori, che vengono precarizzati come se fossero operatori di call center (senza voler minimamente offendere tutti coloro che lavorano nei call center). Cosa resta dunque ai nostri ricercatori? Emigrare. La fuga dei cervelli.
Guardando il programma, non ho potuto fare a meno di pensare che quei ricercatori, se non altro, portano il cervello con sè. Quello che è toccato a Emilson Sànchez Cribari, invece, è un fato molto più crudele e beffardo. Il merito di questa scoperta va alla signora Valentina Calvanese in Cuomo, peraltro non pagata da alcun istituto universitario. Tanto è l'ingegno dell'italica stirpe, che facciamo fare passi avanti alle scienze perfino senza volere, en passant, fra una risata e l'altra. Questa clamorosa scoperta, come avrete capito dal titolo, conferisce un nuovo significato all'espressione "fuga dei cervelli". Del resto, la staticità e mancanza di reattività del difensore brasiliano (sulla quale commentavo nel post precedente) è tale da rendere assolutamente plausibile un allontanamento di qualunque dei suoi organi dal resto del corpo. Quando questo accade con il cervello, come capirete bene, il processo è irreversibile. Come posso correre dietro il mio cervello, se la mia motilità è stata compromessa dall'assenza dello stesso? E vi basti questa spiegazione, in attesa della pubblicazione dei findings sulla prestigiosa Lancet.
E ora, andiamo a esaminare l'eziologia di questo singolare disturbo, altresì designabile dalla dicitura "le immani cazzate difensive di quello scellone rincoglionito di Cribari".
Cominciamo dal primo gol, in occasione del quale fa filtrare un cross dalla sinistra di Mertens, mi pare, che avrebbe controllato anche Ironside. Va detto che anche De Sanctis, in questo caso, ci mette del suo, restando ad aspettare un pallone che tagliava tutta l'area di rigore, anzichè andarci incontro. Il secondo gol, invece, è colpa di an'altra discreta capa di chiodo, ovvero il men che mediocre Vitale. Sul terzo gol, scaturito da un calcio d'angolo, Cribari riesce a dimenticarsi di marcare il centravanti avversario. Cioè, spieghiamolo bene questo concetto: quello è il centravanti, è alto un paio di metri, se arriva un cross alto in area chi devi marcare tu? Ovviamente noi non ci scandalizziamo, perchè sappiamo che Cribari non era in possesso del suo cervello. Era già un miracolo che stesse in piedi, ma del resto le galline non continuano a correre per l'aia dopo essere state decapitate? E non finiscono qui le prodezze del nostro centrale di difesa. Durante i minuti di recupero, su un cross di Vitale (che forse se giocasse come esterno di centrocampo in un 4-4-2 sarebbe anche decente) riesce a stampare il pallone sul palo da circa 40-50 centimetri di distanza. In quell'occasione mi ha fatto tanta tenerezza che avrei voluto porgergli un orsacchiotto, di quelli che si regalano ai tirassegni quando centri tutti i palloncini. Guardate che non è facile colpire il palo quando hai di fronte una porta di 7 metri e 32 centimetri. Lui ci è riuscito, e mi sembra giusto riconoscere la sua bravura.
Per finire, vorrei documentare fotograficamente un'altra importante scoperta della signora Calvanese in Cuomo, ovvero la inquietante somiglianza fra Cribari e Mariangela Fantozzi. Goffo, rimbambito e brutto come la morte: e osate credere che esista un dio?
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