martedì 29 aprile 2014

La peste nera


Cari amici, so che alcuni di voi hanno apprezzato molto il post in cui esprimevo l'idea, forse terra terra per alcuni, che l'intellettuale debba essere utile, non diversamente da un idraulico o da un muratore. Deve, per usare un verbo che nella nostra cultura è quasi turpiloquio, lavorare. Naturalmente la stragrande maggioranza dei nostri "intellettuali" non la pensa così, ed è alla luce di questa ovvietà che dobbiamo leggere la loro produzione.

Leggendo questo articolo si capisce bene quanto i nostri "intellettuali" (le virgolette sono a mio avviso d'obbligo) tremino nelle ginocchia e comincino a sudare freddo appena qualcuno insinua l'idea che forse anche loro, fra la prima colazione e il momento in cui spengono la luce per dormire, dovrebbero apportare un qualche contributo al benessere materiale e/o spirituale del genere umano. Quando poi qualcuno si azzarda a metterli sullo stesso piano dei comuni mortali, come se conoscere la poesia di Giambattista Marino non conferisse una palese e schiacciante superiorità morale sull'operaio che mischia il cemento nella betoniera, gridano alla lesa maestà. C'è un aggettivo, nel mio vocabolario di semi-analfabeta, per questo tipo di atteggiamento: classista.

Non che io non abbia i miei eccessi, intendiamoci. Ad esempio, per me il rapporto fra l'operaio e l'intellettuale è esattamente l'opposto, dal momento che è il lavoro a conferire dignità agli esseri umani. Massimo rispetto, dunque, per l'intellettuale che usa la mente come uno strumento di lavoro, e non come un'arma da impiegare al soldo di questo o quel signorotto. Questi ultimi sono i nuovi lanzichenecchi, che alle picche hanno sostituito le penne, al servizio non più del Sacro Romano Impero, bensì di uno che trova legittimità e forza in altre forme di religiosità; ma essenzialmente sono soldataglia di cui ci dobbiamo liberare.

Bene, bisogna conoscere il nemico. Chi è questo "signore"? Ecco la sua pagina su Wikipedia. Lui, che accusa Dario Fo di incoerenza per l'adesione giovanile al fascismo, ai tempi in cui faceva politica ha cambiato quattro casacche in sei anni. Non male. Lui, che si sente abbastanza integro moralmente da bacchettare Pirandello e Thomas Mann, va a scuola da Montanelli come giornalista, lo segue alla Voce, per poi iscriversi al PDS in un momento storico in cui D'Alema, Veltroni e compagni fingevano ancora di essere un partito di centro-sinistra. E credo che su questo capitolo abbiamo detto abbastanza. Più onesto sarebbe stato forse non impostare la sua critica sul concetto di coerenza.

Soprattutto perchè risulta evidentissimo dall'ultimo capoverso come quello che vuole fare confusione sia proprio il nostro Eccellentissimo Dottor Orlando, che accusa Beppe Grillo (non me ne vogliate se continuo a nominarlo su questo blog, ma che posso farci se tutti i mangiafranchi di questo paese se lo sognano la notte?) di voler sostituire alle nostre istituzioni democratiche "soviet e bande, quasi una repubblica post-Salò". In un articolo così breve il livoroso erudito riesce a offendere, oltre a Dario Fo, i seguaci di ben tre movimenti o dottrine politiche. E se la critica, anche espressa in termini forti, del fascismo è un mero ma doveroso esercizio di memoria, perchè è la Storia ad averci servito su un piatto d'argento il giudizio finale su quella aberrazione, le cose stanno un po' diversamente per quanto riguarda il marxismo-leninismo e il M5S. Notando en passant che i soviet sono stati un lodevole tentativo di esprimere democrazia dal basso in un paese nel quale non ce n'era mai stata, e che peraltro risalgono a prima della Rivoluzione d'Ottobre, passo subito all'aggressione di prammatica contro Grillo. E qui mi viene proprio da ridere. Perchè questi pagliacci che continuano, con un'ostinazione pari solo al loro astio e al loro insopportabile snobismo, ad accostare il Movimento 5 Stelle al fascismo, sono quelli che hanno ridotto e mantenuto l'Italia nello stato in cui si trova, che hanno trasformato la Repubblica per cui hanno combattuto i nostri partigiani in un enorme feudo da spartire nelle urne (magra consolazione scegliersi il feudatario..) e le sue istituzioni in bivacchi del malaffare. La peste nera, evidentemente, sono loro.


domenica 27 aprile 2014

Schiavi nel tempo

Cari amici del Bradipo, buona domenica. Oggi vorrei parlarvi di un tema secondo me molto più attuale di quanto molti di noi non credano: la schiavitù. Diversi eventi hanno cospirato per spingermi a scrivere questo post. Ed io ho obbedito al richiamo di una ispirazione che, per rimanere fedele alla mia poetica punk e ramonesiana, vomito sempre in bocconi minuti e acerbi. Ad altri i complessi sistemi filosofici: io sono uno snack bar del pensiero semi-istintivo.

Dovete sapere che qualche sconsiderato, non rendendosi conto di quanto io sia stupido in termini generali, e di quanto sia insufficiente la mia padronanza dello spagnolo castigliano, mi ha affidato delle traduzioni. L'argomento dei testi in questione è il fenomeno della schiavitù nel continente americano. Mentre mi destreggiavo fra ceppi e catene, due micro-riflessioni hanno turbato la profondissima quiete del mio fine settimana. La prima è stata scatenata da questo video; la seconda dalla notizia che centomila polacchi avrebbero invaso Roma per la canonizzazione di papa Giovanni Paolo II.

La schiavitù è stata formalmente abolita, nella maggior parte dei paesi, durante il XIX secolo. A metà dell'Ottocento, in Europa, non esisteva più traccia di questo aberrante istituto giuridico. Un po' più di tempo è stato necessario per sradicarlo dalle Americhe, dove importantissimi settori dell'economia si basavano interamente o quasi interamente sulla manodopera schiava, ma alla fine il processo è stato completato. Oggi a nessuno di noi verrebbe mai in mente di difendere il principio secondo in cui sarebbe legittimo per un individuo possedere uno o più suoi simili.

Libertè, egalitè, fraternitè, tu rubi a me, io rubo a te. Così recita il Canto dei Sanfedisti. Sebbene io non condivida la visione del mondo che lo ha prodotto, non posso non prendere atto che questi due versi fotografano in modo straordinariamente accurato l'ethos liberale. Perché io di poche cose sono fermamente convinto, e una di quelle è che il prodotto del lavoro deve appartenere a chi quel lavoro lo ha svolto, e a nessun altro. A poco serve abolire la schiavitù formale, se poi si fa rientrare dalla finestra quello che era uscito dalla porta. L'abolizione della schiavitù, purtroppo, non ha risposto a una genuina preoccupazione di ordine morale, ma a una trasformazione dei sistemi produttivi in chiave capitalistica, a un'ulteriore tappa nell'affrancamento dai lacci del feudalesimo. A vantaggio di chi?

Laura Boldrini ci dice che lo stile di vita dei migranti nei prossimi anni sarà lo stile di vita di un numero sempre crescente di italiani. In cosa consiste questo stile di vita? Ci riflettevo, mentre guardavo un'illustrazione che mostrava una nave negriera, e traducevo la relativa didascalia:

Quasi sempre le navi erano caricate oltre la loro capacità, sottoponendo questi esseri umani a una penosa mancanza di spazio.

Siccome il mio cervellaccio fa associazioni e collegamenti in completa libertà, mi è venuto da pensare che allora gli schiavi bisognava catturarli e costringerli con la forza a salire sulle imbarcazioni; oggi lo fanno di loro spontanea volontà, e addirittura pagano per il privilegio di affrontare un viaggio durissimo e pericoloso che li porterà dai loro sfruttatori, in un paese dove saranno oggetto di pregiudizi e discriminazioni. Tutto questo, nella speranza di essere fra i pochissimi che ce la fanno, che si salvano, che beneficiano di un'idea di libertà fasulla e feroce. Innanzitutto a questo penso io, quando mi si parla di "stile di vita dei migranti".

Mi rendo conto che, per chi ha un reddito e condizioni di vita abbastanza agiate da consentirgli di credere nelle farneticazioni neoliberiste, può esserci un elemento di intraprendenza in questo "stile di vita". Chi è portato per formazione personale a guardare alla minoranza fortunata spesso è portato a dimenticarsi i cadaveri inghiottiti dal mare, le ragazze arrivate nella speranza di lavorare nel mondo dello spettacolo e finite sui marciapiedi, gli uomini assorbiti nelle fila della criminalità per mancanza di alternative, quelli che vivono nelle baracche, nei casali abbandonati, nelle stazioni ferroviarie, e tutta la macchina repressiva che si scatena contro queste persone. Detto in altre parole: ci siamo comprati gli schiavi con qualche biglietto della lotteria. 

E questo non è certo vero solo per i migranti. Quei polacchi che oggi girano per Roma mi ossessionano. Perchè quando gli ultimi della Terra (e se i polacchi non sono gli ultimi saranno i penultimi) si mobilitano per un reazionario senza vergogna, uno che si è affacciato al balcone con Augusto Pinochet e ha benedetto un regime infame come il suo, c'è una sola conclusione da poter trarre: la schiavitù piace. Ci piace guardare verso l'alto, verso qualche figura paterna e patriarcale che ci sembra imponente solo perchè è salita su trampoli costruiti dalla nostra fatica e dalla nostra deferenza, e ascoltare le sue promesse. Che sia il paradiso o il benessere in terra, ci piace  pensare di poter essere noi i vincitori di quella lotteria. Ci piace, mentre la merda ci arriva al collo, guardarci intorno e constatare che molti ne sono già completamente sommersi. 

Io, come al solito, mi dissocio. Non mi va di giocare alla lotteria. Non mi va, se il montepremi è la nostra libertà.

giovedì 24 aprile 2014

Un carosello di irrazionalità

Cari amici del Bradipo, scommetto che qualcuno di voi è abbastanza vetusto da ricordare Carosello, quel breve spazio dedicato alle réclame, come si diceva un tempo, ogni sera a ora di cena su Rai 1. Si trattava di pubblicità con vere e proprie sceneggiature, lunghissime per gli standard attuali, che diventavano così popolari da entrare nell'immaginario collettivo. L'olandesina della Miralanza, ad esempio, era sinonimo di pulito. Quando ero bambino, di conseguenza, pensavo che per qualche motivo a me ignoto l'Olanda fosse una terra di lavandaie vestite in modo ridicolo. Tanti spot erano concentrati in quella decina di minuti, in modo da non interrompere gli altri programmi. E questa scelta era vincente: quegli spot erano così ben fatti e gradevoli che la gente aspettava Carosello, accendeva il televisore apposta per guardarlo.

Poi arrivarono i rampanti, roboanti, arroganti anni Ottanta, e la pubblicità cambiò con il cambiare della concezione del vivere sociale. Merdaccia, comprati questa macchina, o non sei nessuno! E beviti il whisky dell'uomo vestito bene che firma i contratti miliardari! E mangiati il cioccolatino che l'avvenente ed elegantissima moglie dell'ambasciatore porta su un vassoio d'argento, e insomma, per farla breve, consuma senza alcuna misura se vuoi sperare di elevarti al di sopra del tuo attuale stato di merdaccia. E non provare a cambiare canale quando c'è la pubblicità, rischi di non scoprire mai chi ha ucciso J.R., e fare una pessima figura dal parrucchiere con la signora Scognamiglio, che non si perde un minuto di una puntata di Dallas, praticamente sta di casa nel Texas. Con gli anni Ottanta, la pubblicità è diventata una liturgia tanto fastidiosa quanto imprescindibile. La pubblicità è la Santa Messa della piccola borghesia italiana nell'era delle "magnifiche sorti e progressive" che succede ai turbolenti, violenti, insanguinati, ma intelletualmente vivi anni Settanta.

A metà degli anni Novanta, dopo che l'egemonia schiacciante di gruppi come Duran Duran, Spandau Ballet e Level 42 aveva segnato una decade di dittatura morale di barbieri molto poco virilmente e patriotticamente assoggettati agli empi disegni della perfida Albione di effemminare e rammollire l'italiche genti attraverso una maniacale, ossessiva cura del proprio taglio di capelli, e dopo le goffe e confuse obiezioni esistenziali di alcuni ragazzotti americani dall'aspetto trascurato e feticisti della flanella, un barlume di speranza si intravede all'orizzonte: Internet. I più tecnologicamente avanzati di noi trepidano al pensiero che, a parte poter conversare in tempo reale con un australiano o leggere della vita privata di un ignoto assicuratore del Delaware, presto potranno passare le loro giornate a clonare carte di credito e guardare donne nude con il loro computer. Mentre una parte non irrilevante del paese si abbandona a un sistematico scempio del Codice Penale e della morale sessuale dei padri, tuttavia, i padroni dell'informazione (che sono grosso modo i padroni del mondo, o comunque a loro contigui) si rendono conto che quello strumento straordinario può essere usato per condizionare l'opinione pubblica. Negli anni Duemila nascono siti di informazione e quotidiani online. Prima all'estero, poi anche in Italia, si intravedono le potenzialità dell'editoria virtuale. 

Per la merdaccia che non firma i contratti miliardari e non va alle feste dell'ambasciatore, questo vuol dire potersi informare da più fonti senza dover comprare diversi quotidiani. Naturalmente, l'innovazione attecchisce. Come è facile capire, nel momento in cui io non ti faccio pagare per leggere il mio giornale, mi vengono a mancare le entrate delle vendite dei cartacei. Siccome io sono un imprenditore e non un filantropo, e comunque i giornalisti devo pagarli (una miseria, ma devo pur pagarli) ho bisogno di assicurarmi un'altra fonte di introiti: sempre lei, la vecchia, benedetta pubblicità, che non per niente è l'anima del commercio. Banner ingombranti, video che partono da soli, immagini di automobili e gioielli che fanno lo squatting del tuo monitor, e che sei costretto a visionare se vuoi procedere alla notizia di tuo interesse. Ti tocca, c'è poco da fare.

A questa dura lex si sottraggono solo blog e siti d'informazione gestiti da non professionisti: realtà belle e lodevoli, ma pur sempre realtà limitate nella loro azione e nel numero di lettori che riescono a raggiungere. Privi delle risorse per produrre informazione in modo diretto, per essere insomma fonti di informazione primarie piuttosto che riportare e/o commentare notizie prese altrove, possono complementare il lavoro svolto da professionisti pagati, non sostituirsi ad esso. Questo credo sia abbastanza chiaro e comprensibile. Meno comprensibile mi risulta l'atteggiamento assunto da molti nei confronti di un particolare blog, e di un'altra serie di siti web ad esso collegati, reo di aver infranto una regola aurea della vita pubblica italiana: il consociativismo. In Italia puoi dire quello che vuoi, c'è grandissima libertà di espressione. L'importante è sedersi a tavola con i peggiori farabutti, rimpinzarsi dello stesso pollame rubato, e sporcarsi dello stesso grasso. Il motivo dovrebbe essere essere evidente a qualsiasi persona adulta cresciuta in questo paese, e se non lo capite mi sa che c'è di mezzo o la malafede o una discreta ottusità. E non so quale delle due disprezzo di più.

Bene, eliminiamola tutta questa pubblicità. Avete ragione, rompe proprio i coglioni. Possiamo guardare su Internet gli stessi film che guardiamo in televisione,e senza interruzioni pubblicitarie. Possiamo ignorare i cartelloni pubblicitari che tappezzano le nostre città, e volgere il guardo alle nostre bellezze storiche e architettoniche, che non sono poche. Possiamo, infine, limitarci ad attingere la nostra conoscenza dell'attualità ai nostri siti di riferimento, dove al massimo proveranno a venderci qualche maglietta del Che o cose così. E che fa se non riusciamo a capire che diavolo sta succedendo intorno a noi? Io a tre anni pensavo che in Olanda andassero tutte vestite come l'olandesina della Miralanza. Facciamo tutti un bel carosello, in cui inneggeremo ai nostri bellissimi ideali e grideremo che a quei due brutti ceffi puzzano i piedi. E, come quando ero un paffuto pargoletto, dopo il Carosello tutti a nanna. 

mercoledì 23 aprile 2014

Quando il prof. Wagstaff si prende sul serio...



Cari amici del Bradipo, vi siete mai accorti che il vostro blogger di riferimento, oltre ad essere uomo spiritoso e affascinante, è anche un fine analista politico? No? Ebbene, lo sono. Fidatevi. Tanto sagace e arguto da aver identificato nell'agghiacciante panorama dell'opinione pubblica italiana una tendenza magistralmente quanto inconsapevolmente esemplificata in un delizioso numero canoro di Groucho nell'esilarante Horse Feathers, per i non anglanti I fratelli Marx al college

Se non conoscete i fratelli Marx, vi consiglio caldamente di provare profonda vergogna per 10-15 minuti, al termine dei quali vi ingiungo di fare una ricerca online e procurarvi qualcuno dei loro film. Che gente come Panariello e Brignano faccia ridere qualcuno in questo scellerato paese è già uno sconcio di per sé; solo un numero crescente di persone che comprendono quanto insulsa sia la comicità di simili elementi può riequilibrare il torto cosmico e ridare una speranza all'italico riso. Ma sto divagando.

Dunque, per chi non li conoscesse, i fratelli Marx sono una delle massime espressioni della comicità ebrea di sinistra newyorchese, come direbbe Woody Allen. Il loro stile è surreale, anarcoide, nichilista. Come tutte le migliori espressioni culturali, sono morti da un pezzo. Purtroppo è finita l'epoca di chi ha contribuito a rendere il mondo un luogo un po' meno raccappricciante vestendo una risata, per dirla con il barbone modenese: oggi siamo presi d'assedio da pompose nullità vestite da parata che si prendono preoccupantemente sul serio. E di nuovo rischiamo di deragliare; andiamo con ordine, per quanto è possibile parlare di ordine quando c'è di mezzo Groucho Marx.

I don't know what they have to say, it makes no difference anyway
whatever it is, I'm against it!

Così esordisce il prof. Wagstaff nel suo discorso di presentazione al college presso il quale si è fatto assumere nel tentativo di far laureare finalmente il figlio, che con dodici anni di frequentazione dei corsi universitari è riuscito a battere anche il sottoscritto. Non è un incipit casuale. Racchiude l'intera poetica del quartetto, e definisce brillantemente il personaggio. C'è uno spirito magnificamente democratico e popolare nel baffuto accademico, così come in tutti gli straordinari personaggi interpretati da Groucho. Il suo nichilismo non è mancanza di rispetto dell'opinione altrui; è fiera ostinazione a reclamare il diritto a immaginare un mondo strutturato in modo radicalmente diverso, e soprattutto in modo fluido. Non gli interessa cosa hanno da dire i decani dell'università, lui è contro a prescindere, come diceva un mostro sacro della comincità nostrana che ai fratelli Marx si è ispirato spesso e volentieri. Il prof. Wagstaff è fieramente determinato a fare le cose a modo suo. Come quando entra in classe per una lezione di biologia e la trasforma, con la complicità di Chico e Harpo, in una battaglia combattuta con cerbottane e libri di testo.

Ma non è solo con i sussiegosi professoroni che ce l'ha il prof. Wagstaff. Da mesi prima che gli nascesse lo sciagurato figlio clamorosamente fuori corso, ripeteva dalla mattina alla sera "I'm against it!" In poche parole, non provate a inchiodarmi a ruoli pre-costituiti, perchè io non ci sto. E non è solo elusivo, il nostro professore. E' anche molto vendicativo, come ci avverte il figlio. Se gli giocate un brutto tiro, non vi perdona, e prima o poi ve la fa pagare. Anche in questo caso non va preso molto sul serio, dal momento che tutte queste cose Groucho ce le fa presenti mentre esegue una scanzonata coreografia  con la collaborazione del corpo docente di Huxley, salendo su una scrivania per il gran finale.

Ora, come accennavo prima, il cinema dei Marx è senza dubbio intriso di uno spirito democratico e popolare, e il filo rosso che lo attraversa è quella sana distanza da se stessi e dalle proprie convinzioni che fa la differenza fra un appassionato confronto e il massacro del tuo antagonista con un machete. Il punto è che una certa categoria di persone, che ricordano i barbuti e rigidi professoroni di Huxley piuttosto che il simpatico e sfrontato Wagstaff, quello spirito non solo non lo capisce, ma lo disprezza in ogni sua manifestazione. Ripete "I'm against it", ma non tira la barba alle pedanti cariatidi, non sale sulla scrivania a ballare, non frequenta gli speak-easy (SWORDFISH!). Questi individui sono nichilisti, irrispettosi dell'altrui punto di vista e vendicativi in un modo che non fa affatto ridere. Sono venditori porta a porta di dio, del quale cercano di spacciare mille differenti versioni, tutte rigorosamente incompatibili fra di loro. Sono sette in competizione per l'egemonia sul sottosuolo, dal quale sognano un giorno di emergere alla conquista del cielo. Sono, con ogni probabilità, ignari della filmografia dei fratelli Marx.

Horse Feathers ha una sottotrama romantica: Zeppo corteggia la donna di un gangster (è per quello che non riesce a terminare gli studi). Quando alla fine del film pare che stia per coronare il suo sogno d'amore, sposandola, gli altri tre fratelli lo spingono via e si sostituiscono a lui, in un magnifico sberleffo all'esclusività del sacro vincolo del matrimonio. Quel "we do" con cui Groucho, Chico e Harpo chiudono la pellicola è il complemento perfetto del "I'm against it" di cui abbiamo parlato. E trovo difficile immaginare un'allegoria della democrazia migliore di questa: possiamo essere in disaccordo su tutto, finché condividiamo qualcosa, sia pure una semplice risata.
 

lunedì 21 aprile 2014

La distribuzione del pesce

Un vecchio proverbio, pare cinese, dice che se dai a un uomo un pesce lo sfamerai per un breve periodo di tempo; se gli insegni a pescare, lo sfamerai per sempre. Io, da educatore in erba, non posso non concordare. Eppure mi sembra che questa affermazione, esatta in linea di principio, vada un attimo problematizzata.

Qualsiasi processo di apprendimento richiede i suoi tempi, ma il metabolismo umano non perdona: come osserva il nonno di Lucia in FFSS, Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?, quando gli viene fatto presente che la nipote canaria muore se non canta: "Beata a essa! Je si nun magno moro!" Dunque, l'essere umano ha bisogno di mangiare a intervalli abbastanza regolari, pena il deperimento e, in ultima analisi, la morte per inedia. Se a me, Bradipo, domani mi portano a mare con canna, esca e tutto, e mi dicono "procurati da mangiare", io prendo la barca e faccio rotta verso la pescheria più vicina. Perchè? Ovvio, perchè la necessità di ingerire del cibo si affermerà con somma impellenza molto prima che io abbia padroneggiato la difficile arte di infilare il verme nell'amo.

Ancora più difficile si fa la cosa nel momento in cui non mi danno neanche l'attrezzatura, pretendendo che sia io a dotarmene a mie spese. Ogni mestiere ha i suoi strumenti, che bisogna conoscere e saper valutare qualitativamente in relazione allo scopo al quale sono atti. Ma se quello scopo è nebuloso nella mente dell'apprendente, la suddetta valutazione sarà difficile. E se l'apprendente in questione non dispone di una somma adeguata all'acquisto dell'equipaggiamento necessario, il risultato finale potrebbe essere discutibile. Forse è per questo che la prima chitarra ad essere mai comprata dal vostro umile servo fu un legnaccio immondo, indegno perfino di essere sfasciato contro una parete da un John Belushi in toga.

Ed ora introduciamo l'ennesima difficoltà: il mare è uno spazio vasto ma limitato, contenente risorse limitate. Quando pure io abbia imparato a pescare, ed abbia la mia bella canna, le mie belle esche e galleggianti vari, e tutti gli svariati gadgets del pescatore provetto, incluso gilet multitasca e cappellino che dice "I  [cuoricino] fish", ci faccio la birra nel momento in cui la pesca industriale mi svuota il periglioso pelago, lasciandoci dentro solo sconcigli e maruzze, e qualche ciciniello orfano e disorientato.

La soluzione della carenza di pesce non sta nè nella semplice redistribuzione, nè nella formazione di stuoli di pescatori senza accesso alle risorse. Comodo dire che chi resta digiuno era troppo pigro per imparare a pescare, o troppo dormiglione per contendere le scarse prede ad altri individui alacri e mattinieri alla fioca luce del primo sole. Bisogna entrare in una logica di condivisione. Il che non vuol dire sedersi su una sdraio in riva al mare come Hemigway dopo il sesto Daiquiri e dire "datemi da mangiare"; vuol dire imparare a lavorare insieme, coordinare collettivamente i propri sforzi nella consapevolezza che civiltà vuol dire precisamente questo. Imparare a pescare non basta, perchè è vero che chi dorme non piglia pesci; ma se non trasformiamo il nostro concetto del pescare, un'alba di queste ci troveremo di fronte a un mare vuoto. E allora neanche Gesù Cristo sarà in gradi di sfamarci.

domenica 6 aprile 2014

Essere duri senza perdere la tenerezza

Cari amici del Bradipo, non so se avete presente come si disegna un coniglio. Mi spiego meglio, se siete artisti o semplicemente bravi a disegnare, magari non seguirete questo sistema; ma se siete graficamente impediti come me questo è il modo migliore per farlo. Si parte da quello che potrebbe sembrare, a prima vista, un apparato genitale maschile stilizzato, con i due testicoli e il pene. Da lì, seguendo semplici passaggi, si aggiungono il naso, la bocca, gli occhi e le orecchie. Et voila, il coniglio è servito. Nel seguente video potrete apprezzare la sagacia della tecnica suesposta e lodare anche voi in cuor vostro, come ho fatto io, il suo ignoto inventore.


Personalmente mi sorprendo sempre di come una delle icone più rozze e aggressive che la nostra civiltà abbia prodotto si possa trasformare, con pochi tratti di penna, in un tenero, soffice coniglietto. Poi però mi dico che un segno, tanto grafico quanto linguistico, in sé non ha qualità. Queste gli vengono attribuite dall'interpretazione che ne facciamo. Non esistono parole "cattive": esistono parole con una connotazione negativa, costruita attraverso l'uso. Ad esempio, io prima ho usato un lessema neutrale, con un retrogusto di medico, come "pene". Questo perchè so per certo che fra il mio pubblico ci sono signore di raffinata sensibilita, checchè voi rudi portatori di pelame superfluo ne possiate pensare. Se avessi detto "cazzo" avrei denotato esattamente la stessa parte dell'anatomia maschile, ma avrei dato un tono diverso al mio discorso, rendendolo meno conforme al suo scopo, ovvero quello di procurare diletto alle mie fan, oltre che provare disperatamente a seguire il filo di un ragionamento dopo la quantità inusitata di birra che ho trangugiato in gioventù e il conseguente, inevitabile danno cerebrale che ne è conseguito.

Quando non sappiamo ragionare, in una società in cui siamo letteralmente bombardati dai segni, diventiamo preda facile della connotazione, ovvero dell'arbitrario. E l'arbitrario non è mai una cosa positiva. L'arbitrario è qualcosa che qualcuno più sopra di noi, rivestito dei paramenti sacri dell'autorità, fa cadere a pioggia sulle nostre teste vuote, ricettacoli da riempire a loro piacimento e senza la minima possibilità di controllo da parte nostra. Perchè se non sai che il sapere, la cultura, il significato sono oggetto di negoziazione, e se non sei intenzionato a farti valere in quel processo di negoziazione, diventi un semplice ripetitore di una realtà prodotta da altri, in base ai loro interessi. 

Il sesso. Uno dei tanti settori merceologici interessati dal marketing. Tutto si vende, a patto che ci sia chi è disposto a comprarlo. Non è così? Del resto, i mercati esistono per soddisfare bisogni. Potreste dirmi che in questo caso si tratta di bisogni che dovrebbero trovare soddisfazione al di fuori delle logiche di mercato. Ma in una società che ha sancito la superiorità schiacciante e totalizzante del valore di scambio sul valore d'uso è assolutamente normale che qualcosa di centrale come la sessualità ci venga sequestrata e restituita sotto forma di merce. L'amore, che è incompatibile con tutto ciò, perchè quello veramente non si può vendere nè comprare, se lo prende in saccoccia e sopravvive di stenti fra gli piscodrammi consumati al buio della coscienza, timido e afsittico sulle bacheche di Facebook e in un numero pittosto limitato di relazioni miracolosamente funzionali. A meno che...

A meno che non resistiamo. Il Freud maturo, sconvolto dalla sconfinata violenza, dalla distruzione su scala mai vista prima della Prima Guerra Mondiale, rivide il suo concetto di libido e formulò la sua nota teoria su Eros e Thanatos, la pulsione di vita e quella di morte. Anche la sessualità sembrerebbe essere un processo contraddittorio. Questo sempre se ho capito qualcosa da quel paio di libri che ho letto a suo tempo e da una veloce consultazione di Wikipedia (ve l'ho detto che sono ignorante). Ebbene, questa contraddizione va risolta. Dobbiamo essere duri senza perdere la tenerezza. Lo ha detto uno che dava l'assalto alle caserme con l'inalatore per l'asma in tasca, quindi c'è da credergli. Oppure potremmo dire, riprendendo le parole dello straordinario principe interpretato dal grande e compianto Mario Brega, che le nostre mani devono essere capaci di essere ferro e di essere piuma. E non dobbiamo trovarci niente da ridere se quello che ci era sembrato un pene eretto e turgido si trasforma in un tenero, soffice coniglietto.

sabato 5 aprile 2014

Sfruttati al dettaglio

Stamattina, cari lettori, mi sono svegliato a un orario al quale il sabato mattina una civiltà degna di tale nome dovrebbe imporre il coprifuoco: le otto. A quell'ora le persone rispettabili, nel fine settimana, dovrebbero dormire. Svegliarsi alle otto di sabato mattina è l'inizio della barbarie. Si comincia così e si finisce a suicidarsi con una spada da samurai perchè non si sono raggiunti gli obiettivi aziendali.

Perché mi sono svegliato così presto? Perché avevo un colloquio di lavoro, cari i miei loro. E siccome io ho avuto la sfortuna di nascere a Napoli (Bocca diceva tante fesserie, ma questa è una verità incontestabile), lavoro vuol dire nel mio caso sfrenata, deregolata, orgiastica celebrazione del feudalesimo, delll'ancién regime, di un ordine sociale fondato sulla servitù della gleba e sulla dittatura della gente di sfaccimma e della anomia che la partorisce e riproduce. Nella fattispecie, una supplenza rigorosamente non retribuita in una scuola paritaria di un paesone alle porte della mia città che puzza di percolato assortito e plastica bruciata, dove quando esci dalla fermata di quello straordinario omaggio alla poetica del Pasolini di Una vita violenta e Ragazzi di vita che è la Circumvesuviana ti dici "ma dove cazzo sono finito?" e cominci a vagare come Dante all'Inferno quando si perde Virgilio.

Purtroppo mi hanno preso. 

Sulla bacheca di un amico di Facebook si commentava la deriva della sinistra, e di come usi idee e richiami simbolici completamente svuotati del loro significato originario per raccogliere un consenso che non si tradurrà mai in un progetto alternativo di società. Persone di cultura, politica come generale, palesemente superiore alla mia, e che in virtù di una carta di identità più "importante" hanno vissuto anni di lotte e conquiste che io non ho visto, discutevano di come si possa raccogliere la bandiera del marxismo e portare avanti quelle lotte che ormai rivivono solo in grottesche e ipocrite pantomime. Io, cari amici, sono un fesso reoconfesso e un semi-analfabeta dichiarato, per cui non è a me che dovete chiedere analisi ed elaborazioni di ampio respiro. Ma di impressioni e riflessioni posso offrirvene qualcuna.

Mentre tornavo dalla scuola verso la fermata della vesuviana pensavo a come un sistema di assegnazione dei punti nelle graduatorie scolastiche fatto a uso e consumo dei furbi condanni me e altre decine di migliaia di persone ad una effettiva servitù della gleba. No, non è un'iperbole, è proprio così. La trafila di supplenze nelle scuole private per fare punteggio è davvero una forma di servitù. Noi laureati in materie umanistiche oggi siamo quello che era 50 anni fa il proletariato, con la differenza che noi abbiamo spesso nella famiglia una rete sociale in più. D'altro canto, le nuove forme di flessibilità del lavoro (un modo elegante per indicare la posizione più adatta a facilitare la sodomia) ci rendono più facili da sfruttare. E siccome siamo soli, spesso gli uni contro gli altri perchè siamo cresciuti in famiglie piccolo borghesi che ci hanno inculcato valori di merda, non siamo in grado di reagire.

L'unica speranza, riflettevo mentre due cani allo stato ferale mi curriavano in mezzo alla wasteland diossinata di Casalnuovo, è in un netto rifiuto di quella logica. Ci sfruttano, c'è poco da fare. Ci sfruttano al dettaglio, nel nostro isolamento, nella nostra solitudine, nella nostra diffidenza verso i nostri compagni, coloro che mangiano il nostro stesso pane. Questi i pensieri che mi attraversavano il cervello, mentre affrettavo il passo per sfuggire al Cerbero suburbano che difendeva il suo territorio come un soldato del Sistema con la faccia lampadata e la tuta adidàs, queste le tristi constatazioni che mi ispirava quel panorama di abbandono, di negazione implicita della perfettibilità dell'uomo e di tutto ciò che l'Umanità abbia prodotto in quello spirito. Uno stuolo di invisibili sanfedisti aveva appeso la mia dignità a un lampione con un cartello in bella mostra che recitava "ACHTUNG BANDITEN". Il mio culo era dell'istituto paritario, come avrebbero detto in un film americano. Non era il primo e non sarebbe stato l'ultimo. Ripeto: homo solus, homo nullus.

Da dove ricominciare a lottare, si chiedevano i due attempati compagni su Facebook. Buttiamola lì: da ciò che ci fa compagni: dal lavoro. Dallo stato di abiezione in cui siamo costretti a svolgerlo. Dallo sfruttamento al dettaglio. Come? Prendendo coscienza del fatto che non siamo soli. Ti può sembrare, quando il cagnaccio ferrigno e scostumato ti abbaia alle calcagna e le macchine sfrecciano incuranti del tuo destino sulla via Nazionale delle Puglie. Eppure non è così. Siamo sfruttati al dettaglio, ma siamo tutti sfruttati essenzialmente allo stesso modo. Siamo proletariato. Non dobbiamo illuderci di essere altro, o la nostra condizione di asservimento sarà perpetua. Dobbiamo ridurre quelle distanze, ritrovarci intorno alla comune disgrazia di una vita che, come dice un saggio e poliedrico artista delle mie parti, ha sconocchiato. Compagni dai call center e dagli istituti di recupero, dalle ditte di consulenza e dagli studi di professionisti, dalle salumerie e dai megastore, e voi, i pochi che rimanete ancora nelle nostre fabbriche e nei nostri campi: non c'è niente che possa salvarci, se non il riconoscerci nella nostra comune sorte di sfruttati. E poi vediamo chi sono i banditi, e chi le persone per bene.

martedì 1 aprile 2014

La sinfonia dei galli


No, cari amici del Bradipo, non voglio parlarvi di quando Vercingetorige sollevò la bacchetta e la Filarmonica di Alesia deliziò con le sue note i legionari romani che s'apprestavano a pugnare; anche perché questo episodio storico è del tutto inventato, come spero abbiate avuto la sagacia di intuire. Oggi è primo aprile, è anche più facile aspettarsi la burla. Ma purtroppo, parlando in generale, la nostra capacità di leggere la storia, al di là della eclatante falsità di talune ricostruzioni, è - mi si perdoni il gioco di parole - ai minimi storici. 

Temo sia passato quel nefasto messaggio, quella bislacca ma seducente idea che la storia fosse finita. Perché seducente? Per le classi dominanti, è chiaro. Se non lo capite siete intellettualmente impreparati perfino per un blog terra terra come questo, e io mi lavo le mani di voi. Ma c'è tutto un altro, meno ovvio "bacino d'utenza" di questa idea: il ceto medio intellettuale, di estrazione prevalentemente sinistrorsa. 

Cosa fate voi, miei cari lettori, dopo pranzo? Io avverto sempre una certa pesantezza, per cui se non mi faccio mezz'ora steso sul letto non servo a niente per tutta la giornata. Non so, ma ipotizzo che nessuno di voi torni ad aggredire la dispensa mentre è ancora impegnato a digerire il pasto principale della giornata. Lo stesso vale per qualsiasi altra attività che implichi un appetito da soddisfare. Il marito tradisce la moglie - o viceversa - quando la libido non trova sublimazione nel talamo coniugale; l'alcoolista beve quando il tasso etilico nel sangue si abbassa, il fumatore si accende una sigaretta quando determinati ricettori nel suo cervello sentono il bisogno di essere stimolati dall'assunzione di nicotina. Ma adesso immaginate un uomo che riceva periodicamente visite di professioniste del sesso a domicilio; un alcolista con una soluzione salina al Tavernello sparata in vena; un tabagista con le braccia tappezzate di cerotti alla nicotina. Quale incentivo avranno a soddisfare i loro appetiti? Nessuno. Quacun altro lo sta facendo per loro.

Ne derivano due conseguenze: la prima è che queste persone difficilmente avranno preclusioni verso il concetto di delega; la seconda, non del tutto disgiunta dalla prima, è che vedranno con diffidenza il malcontento e le proteste, magari disarticolate e confuse, di chi fa fatica a soddisfare i propri appetiti. Detto in altri termini, la dimensione cognitivo-affettiva smentirà quella intellettuale, e tutto ciò in cui hanno creduto si ridurrà a un fardello di nozioni morte e inutili. La storia, per quanto li riguarda, sarà effettivamente finita.

Perfetto. Così la vede questo fesso. Loro no. L'essere umano ha bisogno di riconciliare le proprie credenze con le proprie pratiche. Queste persone, dunque, hanno bisogno di pensare che possa esistere un modo per trasferire gli ideali che li hanno formati, anche in quella dimensione cognitivo-affettiva a cui alludevo sopra, nella nuova cornice epistemica: hanno bisogno di credere che può esistere una sinistra anche dopo la fine della storia. Ed ecco dunque le liste Tsipras e altri tentativi, disperati quanto grotteschi, di fare la cosa più piccolo-borghese di questo mondo: difendere la propria identità personale di fronte al cannoneggiare dell'evidenza.

E veniamo ora al punto. Il punto è che le idee comuniste, socialiste, anarchiche, le idee insomma che nel loro insieme formano il bagaglio ideologico della sinistra, pur con tutte le loro differenze hanno un elemento in comune: postulano un cambiamento radicale dei rapporti sociali. Dunque, presuppongono che la storia non sia finita. E la storia, se solo si ha il coraggio di guardarla per quello che è, mostra che i mutamenti più profondi, quelli che hanno lasciato le tracce più durature, non sono mai emersi dall'accettazione pacifica di principi riconosciuti come validi in virtù della loro intrinseca bontà, e/o dell'abilità dialettica di chi li propugnava. La storia non è un gentlemen's club. Quei principi si sono affermati perchè hanno aggregato non solo il consenso delle masse, ma la determinazione di quelle a difenderli non necessariamente con la violenza e gli spargimenti di sangue, ma certamente con vigore e impegno. Un vigore e un impegno di cui solo gli scontenti, gli affamati, coloro a cui è negata la vita sono capaci.
Si dice che a Napoli che a cantare troppi galli non fa mai giorno. Questo è il problema. Troppi galli cantano, in una cacofonia dissonante e fuori tempo, completamente ignorati dalle galline. Il problema non è stabilire quale gallo canta meglio; è svegliare le galline.Chiamarle all'adunata, e poi condurle dove è necessario che siano condotte: oltre la bislacca illusione della fine della storia che fa da spartito a così tanti galli.