sabato 29 agosto 2015

Non un tossico e non un ladro

Tra poco fa un anno che sono andato via da Napoli e devo dire che, pur trattandosi di un luogo comune, è assolutamente vero che la mia è una città unica. Il che non vuol dire che non lo sia anche Genova, a modo suo. Forse in un paese come il nostro, con una storia così straordinaria, è normale che ogni città lo sia. Una delle cose che rendono unica Napoli è, a mio modesto avviso, il modo di relazionarsi dei suoi venditori ambulanti. A Napoli, quando qualcuno cerca di venderti qualcosa per strada, è quasi come andare al teatro gratis.
Un altro elemento che contribuisce a creare l'unicità di cui parlo è l'abbondanza di funicolari che contraddistingue la capitale morale del Meridione. Qualsiasi napoletano avrà certamente tanti ricordi, belli e brutti, legati a questo mezzo di trasporto. Anche io ne ho, ed uno di questi mi è tornato in mente poco fa, leggendo un commento su Facebook. Davanti all'ennesima giustificazione della criminalità organizzata con la motivazione dello stato assente e della miseria, mi sono ricordato dell'albino della funicolare. Mi pare che frequentasse prevalentemente quella di Chiaia, ma posso sbagliarmi. Anche quando ero ancora a Napoli, non lo vedevo da anni. Ad ogni modo, questo albino saliva sulla funicolare con un grosso borsone pieno di articoli per la casa e recitava un monologo che faceva più o meno così: 
                                                               
Signore e signori, buongiorno/buonasera. Non vi preoccupate, non sono non un tossico e non un ladro. Voi lo sapete, chi è albino come me non è che ci vede tanto bene, e faccio questo per campare veramente onestamente. Tengo le mollette per i panni, l'accendino, il tagliapizza, le bustine per il frigorifico (ecc. ecc.)

Qualcuno gli comprava qualcosa, o perché gli serviva davvero, o per aiutarlo. Io, pur non essendo fumatore, gli ho comprato negli anni svariati accendini. Chissà che fine ha fatto l'albino che non era nè un tossico nè un ladro. Certo che, con o senza di lui, gli ambulanti non sono mai venuti a mancare a Napoli. Chi vende l'accendino, chi il bloc notes, chi i calzini... Un esercito di miserabili che si carica i borsoni in spalla e si umilia davanti agli avvocati, ai notai, ai proprietari di negozi e di appartamenti del Vomero per campare veramente onestamente. Non so se sia meglio l'albino della funicolare o un boss di quelli che negli ultimi mesi si stanno facendo la guerra al centro storico di Napoli; se sia meglio abbassare la testa davanti alla "gente per bene", quella schifezza di borghesia che è la più autentica rovina di Napoli, o tenere la testa ben alta, imitandoli però nella sostanza con la propria assoluta mancanza di rispetto nei confronti della collettività. So solo una cosa: che anche i miserabili una scelta ce l'hanno. E che io ricorderò sempre con nostalgia non certo le facce da pitbull feroce che hanno costellato le mie tante serate al centro storico, ma quella pallida e quasi spaurita, con quegli occhietti miopi da criceto, dell'albino che non era "non un tossico e non un ladro".

venerdì 28 agosto 2015

Il vero razzismo


Per un po' mi sono trattenuto dallo scrivere questo post. Pensavo, a che pro scatenare un flame inutile, nella quasi assoluta certezza di essere frainteso dalle genti, o perlomeno dalla massima parte di esse? Poi però scatta l'insofferenza, e il bisogno di andare a sfrocoliare la mazzarella di S. Giuseppe, atteggiamento senza il quale sono certo che saremmo ancora nelle palafitte, o peggio. E, infine, c'è da considerare che questo è ormai diventato un blog di difesa personale. Io qui butto mazzate alla cecata, come amano dire a Milton Keynes. Se vi sta bene, mi leggete. Se non vi sta bene, mi darete in cuor vostro dell'imbecille e/o quant'altro, e vi allontanerete inorriditi da questo spazio molto poco educato.

Ieri camminavo per via Luccoli, elegante strada del centro storico di Genova. Mo', voi forse sapete che questa è la capitale mondiale dei vecchi; se non lo sapete, ve lo dico io. E, sarà che con Genova ho avuto un buon impatto, avendomi questa città salvato da un destino ingrato di disoccupazione/sottoccupazione/peluria di mezzi, ma a me il vecchio ligure pare quasi sempre bello e aggarbato. Il ligure, quando è signore, è signore assai. Ci saranno poi sicuramente i vecchi scostumati, sgraziati e lazzari (cadrei nella trappola del razzismo di cui parleremo in questo post se lo negassi), ma fortunatamente io non li incontro mai. Dicevo, ero a via Luccoli e, passando davanti a due signore anziane che, mi dovete credere, trasudavano signorilità, ho afferrato qualche parola della loro conversazione. Una diceva all'altra di essere ultimamente diventata razzista, cosa che non si sarebbe mai aspettata. Io, che abito nell'epicentro dello squallore del centro storico, a pochi passi dalla succitata via Luccoli, posso facilmente indovinare cosa ha spinto quella signora amabile e aggarbata a diventare razzista. Sarebbe facile, per chi conosce la topografia della città e ragiona per facili stereotipi, scagliarsi contro la vecchiaccia borghese e reazionaria, che sicuramente avrà il guardaroba pieno di pellicce e i cassetti pieni di gioielli, in disprezzo della sofferenza dei poveri mustelidi uccisi e dei disgraziati minatori sudafricani sfruttati per farla elegante e signorile. Ma vi assicuro che i radical chic di cui questo centro storico abbonda, in massima parte non vengono certo dalla Valpolcevera e non si sono mai seduti a un tavolo per fare i conti e quadrare il bilancio familiare. 

E, allora, qual è il punto? Dove voglio arrivare? Provo a spiegarmi. Però mi dovete seguire, perché se vado diretto all'obbiettivo il rischio di essere frainteso aumenta. Mi dovete seguire fiduciosi, e senza la spocchia di chi legge solo per trovare il punto e virgola da criticare. 

Vi sarà capitato, se siete napoletani (e molti di voi lo sono, non negate), di trovarvi di fronte a settentrionali che lodavano l'inventiva, il senso dell'umorismo, l'arte dell'arrangiarsi del partenopeo. Vi è capitato o no? Dite la verità! Ecco, quelli sono gli stessi che poi si lamentano del napoletano delinquente, maleducato e via dicendo. Il problema sta nel modo in cui si sovrappongono insiemi che non andrebbero sovrapposti. Il napoletano può essere simpatico e originale come può essere violento e disonesto. Probabilmente una delle due cose escluderà l'altra. La contrapposizione da fare, in questo caso non è meridionale-settentrionale, ma persona onesta-delinquente. Il fatto è che qui a Genova, per molti anni, c'è stata una fiorente criminalità napoletana. I cosiddetti "napoletani di via Prè". Non gli spacciatori, i contrabbandieri, i ruffiani di via Prè. Nossignore. I napoletani

Oggi, nella zona di Via S. Luca, nella quale ho avuto la sfortuna di venire ad abitare, c'è una fiorente criminalità centro-africana. Pur non essendo napoletani, si fidano di fare una quantità di tarantelle ragguardevole. Spacciano droga (quella infame, non quella per fare la sigaretta simpatica), derubano, imbrogliano, ti imparoleano e alla fine della giostra restano con i tuoi venti euro in mano e ti mandano via con un calcio in culo. Praticamente dei napoletani. Al supermercato di fronte casa, pressoché circondato dal percolato umano di cui sopra, due ragazzi di colore provenienti quasi certamente dalla stessa zona dell'Africa scaricano merce dalla mattina alla sera. La signora di via Luccoli però, quando pensa ai neri, non pensa a loro, che sono praticamente italiani. Pensa a quegli altri, a quelli praticamente napoletani.

E adesso credo di poter dare l'affondo, perchè se non avete capito ancora siete di ferro, come dicono nel Lanarkshire orientale. Non esistono "i migranti", se non quando salgono su quei terrificanti barconi che non ci si spiega come facciano a galleggiare. Appena mettono il piede a terra, se non siamo dei completi imbecilli, dovremmo pensare a loro nello stesso modo in cui pensiamo ai napoletani. Ce sta 'o bbuono e ce sta 'o malamente. Il vero razzismo è metterli tutti insieme. Hanno già fatto un viaggio infernale nella stessa barca. Una volta scesi, per carità , non ce li rimettiamo. 

sabato 22 agosto 2015

Mundo perroflauta

Cari lettori, buon pomeriggio. Oggi ricomincia il campionato di Serie A, per cui immagino che molti di voi avranno di meglio da fare che non leggere le mie elucubrazioni da quattro soldi. Ma siccome sono, come ben sapete, affetto da narcisismo patologico, e scrivo innanzitutto per me stesso, here goes, come dicono a Mercato S. Severino. 

Cominciamo dallo spiegare il lessema "perroflauta", un neologismo del castigliano del quale mi sono innamorato al primo ascolto. Si ottiene fondendo "perro", ovvero "cane", e "flauta", che come avrete intuito vuol dire "flauto". Si tratta dell'hippie 2.0, una sorta di samurai della deboscia e del sudore ascellare che vive nelle nostre città, cibandosi del prodotto dell'altrui lavoro. Quale sia il mio atteggiamento rispetto a questa categoria umana l'avrete capito già dalla descrizione che ne ho fatto. Va aggiunta una postilla: il perroflauta, more often than not, come si dice a Terzigno, si riconosce in ideologie politiche di sinistra, o presunte tali.

Di fronte a casa mia, in particolare, c'è un edificio occupato da perroflautas e adibito a maniero dell'inanità, nelle forme a loro più congeniali. E' importante capire che l'ozio del perroflauta non è semplice pigrizia, tende a un fine ben preciso: quello di distiguersi, in tutto e per tutto, da genitori schifosamente "borghesi" che lo hanno nutrito, lo hanno vestito, lo hanno fatto studiare, preparandolo a diventare come loro. E quindi, secondo uno schema semplice ma efficace: il borghese si taglia i capelli? Io me li faccio crescere; il borghese si veste in un modo, io in un altro, il borghese lavora per fare soldi, io faccio lavoretti col vimini quando ne ho voglia e così via

Perché vi parlo di questo? Per un semplice sfogo da vecchio intollerante e rancoroso? No, non solo. Ve ne parlo perché mi accorgo che il mondo è sempre più perroflauta, e che questo perroflautismo fagocita ogni possibilità di reale, autentica liberazione. Se tu, dopo aver disegnato A cerchiate su ogni porta e su ogni muro del tuo squat, realizzi ogni tua vocazione e ambizione attraverso uno stile, una forma che lascia inalterata la sostanza dei rapporti sociali - che sono essenzialmente rapporti di produzione, e quindi afferenti alla sfera del lavoro -  sei di fatto un conservatore. E il tragico fraintendimento in base al quale passi per un rivoluzionario non fa che danneggiare la causa a cui i simboli di cui ti ammanti alludono.

Ti vedo, amico perroflauta, aggirarti per il supermercato di fronte casa, con il tuo cane e i tuoi dreadlock, in breve in uniforme da perroflauta. E tu, li vedi le donne e gli uomini che lavorano lì, per un salario probabilmente miserrimo? Riempiono scaffali, scaricano pedane di generi alimentari, battono articoli alla cassa. Quelli più sfortunati sono nel retrobottega del panificio annesso al supermercato, sfornano focaccia a ciclo continuo, li vedi fare capolino ogni tanto solo per rifornire il bancone. Sono sudati, stravolti dal caldo e dalla fatica. Hanno bisogno di aiuto. Hanno bisogno di un nuovo ordine, quello a cui allude la lettera O che cerchia la A nel simbolo che hai dipinto sulle tue porte, sui tuoi muri, sulla tua saracinesca. 

Ma perché insisto a prendermela con te. Come dicevo prima, il perroflautismo è di moda, se non nelle apparenze esteriori nella sostanza. Collocarsi nel proprio spazio per definire la propria identità, e al diavolo gli altri. La nuova Sinistra sembra essere questo. Apathie dans l'ordre. E allora, cosa resta da dire? Bau...

giovedì 20 agosto 2015

La vera merdaccia



Buonasera a lor signori. Stasera, sempre se avete ancora il masochismo di leggermi, vi tocca una giaculatoria da anziano intollerante. Ormai si tratta di una modalità sempre più usuale per il sottoscritto, che trova ormai insostenibilmente difficile e penoso destreggiarsi in un mondo egemonizzato dall'idiozia e dall'egoismo più bieco. Qualcuno di voi forse saprà che la PEC (Posta Elettronica Certificata) non è più offerta come servizio gratuito. Ce l'hanno imposta, ci hanno lasciati abituare al suo utilizzo, ed ora la privatizzano. Si chiama captive demand. Il capitalismo 2.0 funziona così.

E va bene, mi piego al volere di Sua Maestà il belino che vola basso, e accetto la mia sorte. Stipulo un contratto online con le Poste Italiane, ed è qui che l'ineluttabile necessità di bestemmiare mi aspetta al varco: qualcuno dalla suddetta "azienda" mi risponde che il documento da me inviato non è completo, in quanto mancherebbe il retro. Ora, se la persona in questione avesse avuto il tempo o la perizia di approfondire la faccenda, si sarebbe accorto che il retro della C.I. c'è eccome; bastava voltare pagina sul documento PDF creato dalla simpatica da imbranata tabaccaia che mi ha scansionato il documento. Ma forse si trattava di uno sforzo eccessivo, o magari una simile soluzione andava oltre gli orizzonti informatici della personcina in questione. 

Perché te la prendi tanto, penserete. Perché sono veramente tanto, ma tanto incazzato con il mio paese. Con la sua ipocrisia, la sua pretesa di fraintendere e dare valore di legge universale al fraintendimento. Guardatevi bene quel video, e poi soffermatevi sulla seguente affermazione: in questo sciagurato paese ha vinto Calboni. Ha avuto tutti, ma proprio tutti dalla sua parte, per motivi diversi. Per questo quelli che dicono di voler aiutare questo paese fanno in genere di tutto per sabotarlo. Siamo in Calbonicrazia. La dittatura dei fanfaroni, dei fannulloni, dei bugiardi, degli avventurieri. Di chi si procura, con mezzi più o meno illeciti, ma mai del tutto onesti e trasparenti, un po' di benessere, e fa tutto quanto sia in suo potere non solo per conservarlo, ma anche e soprattutto per usarlo contro di te. Per te, che alla fine dei giochi ti ritrovi cucito addosso l'epiteto di merdaccia. E allora che si sappia, una volta per tutti, che la vera merdaccia è lui. 


sabato 8 agosto 2015

La fine del lavoro?


Sempre più spesso, miei cari iniziati, leggo di questo concetto. Stuoli di aspiranti giovin signori, stanchi di doversi sottomettere a ineffabili supplizi e disumane fatiche per assicurarsi la sussistenza, anelano alla condizione di fancazzisti, inquilini di un Eden comprato a caro prezzo, dopo anni di sveglia alle sette e fantozziache routine per non arrivare tardi sul luogo del proprio sfruttamento. Comprensibile, certo. Ma possibile?
 
Credo che si rischi di rimanere vittime di una cattiva interpretazione di concetti non ben compresi. Il fatto che il lavoro si stia trasformando sotto tanti aspetti non significa certo che stia sparendo, nè che possa diventare superfluo. Ma, prima di inerpicarci in un'analisi (come al solito poco informata e da quattro soldi) dovremmo un attimo intenderci sul significato di "lavoro". Nella visione comune, il lavoro è tradizionalmente associato alla sudditanza, alla fatica, alla sofferenza; queste sono caratteristiche accidentali, non sostanziali, del lavoro. Il fatto che esso si svolga secondo logiche violente e distruttive è anch'esso accidentale. L'aspetto sostanziale del lavoro è l'esercizio di uno sforzo per raggiungere un risultato ritenuto utile o comunque desiderabile da chi lo compie.
 
Io, per esempio, oggi mi sono impegnato in una registrazione di un brano musicale. Non ho sofferto, non sono stato angariato da nessuno, ma mi sono stancato. Non ho cazzeggiato, mi ci sono messo d'impegno. Ho lavorato. Il lavoro, TUTTO il lavoro, potrebbe e dovrebbe essere questo: impegnarsi per fare qualcosa che ci interessa per la sua utilità o per la sua bellezza. 
 
Oggi, purtroppo, il lavoro non è così. E se alcuni strati della società si vedono progressivamente messi ai margini di quel mondo, in virtù di meccanismi complessi che non è questa la sede per affrontare, in Puglia la gente muore di stenti mentre raccoglie pomodori. Per loro, evidentemente, il lavoro non è finito. Come non è finito per gli operai che assemblano i nostri smartphone, e che in alcune fabbriche avevano cominciato a suicidarsi uno dopo l'altro, fin quando non gli hanno messo reti protettive per vietargli anche la morte. Non è finito per gli addetti del mio supermercato di fiducia, che non smettono mai di riempire scaffali e battere prezzi, e non è finito per il ferramenta di PIazza Banchi, che ha sempre la fila fino a fuori dal negozio. Perchè se non smettiamo di consumare non possiamo smettere di lavorare, al massimo possiamo scindere le due funzioni.
 
Due individui abilissimi nello scindere le
funzioni di produttore e consumatore.
 
E allora lasciatemi concludere questo ennesimo inane deliquio con un auspicio: che il lavoro possa diventare per tutti quello che è stato oggi per me: una grata e fruttuosa fatica.
 
 
 

giovedì 6 agosto 2015

Una vita violenta


Penso che chiunque anbbia letto Una vita violenta di Pasolini sia rimasto profondamente colpito dal passaggio sulla rapina al benzinaio. Tommaso e gli amici devono fare serata e sono rimasti senza soldi; qualcuno suggerisce di "prelevarli" da uno qualsiasi dei benzinai dei paraggi, che in quella zona isolata dopo il buio diventano prede facili. Il povero cristo viene lasciato mezzo morto sul ciglio della strada, e la combriccola se ne va a ballare, o all'osteria, adesso non ricordo.

Pierpaolo Pasolini aveva capito una cosa molto importante dell'epoca che stiamo vivendo. Qualcosa che nei suoi anni germinava, e che oggi impera come legge suprema del sociale: la ferocia disumana della logica del consumo. Il modo in cui disgrega le comunità, ci isola, ci pone in antagonismo gli uni con gli altri. In particolare Pasolini ce l'aveva con la televisione, quella cosa che poteva parlarti senza darti la possibilità di rispondere. La modalità stessa della "civiltà dei consumi" è violenta: crediamo di essere liberi, ma non possiamo fare altro che scegliere fra un certo numero di alternative, tutte eteroprodotte, e quindi tutte, in ultima analisi, imposteci. Secondo questo fesso (se dico "fesso" ovviamente non parlo di Pasolini ma del Pier Paolo reoconfesso di tale condizione) tale violenza non potrà essere sradicata fin quando i lavoratori non controlleranno tutti i processi di produzione e distribuzione della ricchezza, creando così un'essenziale identità fra la condizione di produttore e quella di consumatore. Perché allora saremo necessariamente responsabili di ciò che consumiamo.

Ma un simile stato di cose è, purtroppo, remoto dalla realtà che ci avviluppa. Se mi guardo intorno, in questo bislacco angolino di Italia in cui sono capitato, vedo un sottoproletariato morale dedito al gioco d'azzardo, alla dipendenza da alcol e droghe, alla microcriminalità e a mille forme, più o meno gravi, di prevaricazione. Prevaricati, prevaricano. Replicano modelli eteroprodotti. Litigano, si mandano a quel paese, qualche volta vengono alle mani, e qualche volta spaccano qualche bottiglia per mostrare i denti. Devono avere certamente "la guerra in testa", come si dice a Napoli. La guerra in testa come Tommaso Puzzilli e i suoi compagni di scorribande, vittime e carnefici allo stesso tempo; perchè una cosa non esclude l'altra, sapete. 

Il bislacco angolino di mondo di cui parlo è il centro storico di Genova. Io abito a Piazza San Luca, a due passi dallo stazionamento dell'autobus numero 1, dove un paio di settimane fa hanno ridotto in fin di vita un poveraccio. I giornali hanno parlato di omofobia. Che volete fare, non è più stagione di cervelli, sui giornali non scrive più un Pasolini, e si vede. L'omofobia, fidatevi, è assolutamente marginale in questo episodio. Il movente dell'aggressione poteva essere "mi hai pestato un piede" o qualunque altro. Il branco ha individuato una vittima e ha proceduto a demolirla. Anche la violenza gratuita è un consumo. L'aggredito ha assolto a una funzione precisa: quella di permettere agli aggressori di sfogare un qualche bisogno che sarebbe necessario uno psicopatologo criminale per definire esattamente, quel bisogno che il sapere popolare identifica tradizionalmente con il prurito alle mani. La vittima è stata reificata, perchè agli occhi degli aggressori era, a tutti gli effetti, una cosa. Lungi da me sollevare gli autori di questo odioso gesto dalle loro responsabilità, ma se episodi simili, disgraziatamente, sono così frequenti, c'è un motivo. Succede perchè una determinata organizzazione sociale ed economica ci costringe a vivere un certo tipo di vita. Una vita violenta.