sabato 8 agosto 2015

La fine del lavoro?


Sempre più spesso, miei cari iniziati, leggo di questo concetto. Stuoli di aspiranti giovin signori, stanchi di doversi sottomettere a ineffabili supplizi e disumane fatiche per assicurarsi la sussistenza, anelano alla condizione di fancazzisti, inquilini di un Eden comprato a caro prezzo, dopo anni di sveglia alle sette e fantozziache routine per non arrivare tardi sul luogo del proprio sfruttamento. Comprensibile, certo. Ma possibile?
 
Credo che si rischi di rimanere vittime di una cattiva interpretazione di concetti non ben compresi. Il fatto che il lavoro si stia trasformando sotto tanti aspetti non significa certo che stia sparendo, nè che possa diventare superfluo. Ma, prima di inerpicarci in un'analisi (come al solito poco informata e da quattro soldi) dovremmo un attimo intenderci sul significato di "lavoro". Nella visione comune, il lavoro è tradizionalmente associato alla sudditanza, alla fatica, alla sofferenza; queste sono caratteristiche accidentali, non sostanziali, del lavoro. Il fatto che esso si svolga secondo logiche violente e distruttive è anch'esso accidentale. L'aspetto sostanziale del lavoro è l'esercizio di uno sforzo per raggiungere un risultato ritenuto utile o comunque desiderabile da chi lo compie.
 
Io, per esempio, oggi mi sono impegnato in una registrazione di un brano musicale. Non ho sofferto, non sono stato angariato da nessuno, ma mi sono stancato. Non ho cazzeggiato, mi ci sono messo d'impegno. Ho lavorato. Il lavoro, TUTTO il lavoro, potrebbe e dovrebbe essere questo: impegnarsi per fare qualcosa che ci interessa per la sua utilità o per la sua bellezza. 
 
Oggi, purtroppo, il lavoro non è così. E se alcuni strati della società si vedono progressivamente messi ai margini di quel mondo, in virtù di meccanismi complessi che non è questa la sede per affrontare, in Puglia la gente muore di stenti mentre raccoglie pomodori. Per loro, evidentemente, il lavoro non è finito. Come non è finito per gli operai che assemblano i nostri smartphone, e che in alcune fabbriche avevano cominciato a suicidarsi uno dopo l'altro, fin quando non gli hanno messo reti protettive per vietargli anche la morte. Non è finito per gli addetti del mio supermercato di fiducia, che non smettono mai di riempire scaffali e battere prezzi, e non è finito per il ferramenta di PIazza Banchi, che ha sempre la fila fino a fuori dal negozio. Perchè se non smettiamo di consumare non possiamo smettere di lavorare, al massimo possiamo scindere le due funzioni.
 
Due individui abilissimi nello scindere le
funzioni di produttore e consumatore.
 
E allora lasciatemi concludere questo ennesimo inane deliquio con un auspicio: che il lavoro possa diventare per tutti quello che è stato oggi per me: una grata e fruttuosa fatica.
 
 
 

2 commenti:

  1. "In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!"
    K. Marx- F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969(2), pag. 962

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    1. Interessante il fatto che in Venezuela abbiamo coniato un neologismo significativo: "prosumidores", in riferimento a chi partecipa ai mercati comunitari dove tutti sono produttori e allo stesso tempo "consumatori".

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