Amici del Bradipo, una volta ogni tanto anche il vostro pigro mammifero arboricolo scende dall'albero e si prende una boccata d'aria e di vita. Ieri sera si è recato, pede lento come gli si confaceva, a Galleri Art, il nuovo spazio occupato nella galleria Principe di Napoli. In cartellone l'esibizione di Rafael Viloria, giovane e valido cantautore venezuelano, preceduto dal navigato ma non certo senescente Massimo Ferrante e seguito da un altro giovane di prospettiva, nella fattispecie nostrano, che risponde al nome di Andrea Tartaglia. Diciamo subito che ne è valsa la pena. E tenete presente che mi è necessario tanto, ma proprio tanto sforzo per mettermi le scarpe e scendere, specie quando il tempo è così uggioso. Ho fatto bene a farlo.
Dopo aver passato un'oretta buona ad armeggiare tra cavi e mixer per eliminare un fastidioso rumore di sottofondo, cosa che mi ha ricordato i lustri vissuti da musico fallito, mi faccio mescere una birra e mi siedo. Nemmeno il tempo di mettermi comodo, che la chitarra del maestro Ferrante mi mette l'arteteca addosso. Bevo e percuoto la terra con il piede senza remore, come mi ingiungono di fare i nostri antenati comuni, per la breve durata dell'esibizione. Solo pochi brani e il maestro stacca la chitarra e va via, per un impegno lavorativo. E già il musicista che lavora per me guadagna automaticamente punti. Non mi metto a spiegarvi perché, sarebbe un discorso lungo, e magari lo capite lo stesso leggendo il resto del post.
Sale sul palco Rafael. Un po' nervoso per la gripe, l'influenza che gli ha abbassato la voce, e per la barriera linguistica. Si fa aiutare da un compagno ispanofono, che traduce qualche verso dei vari pezzi prima dell'esecuzione. A un certo punto, omaggio a Victor Jara. Una canzone che si chiama Nel testo, le seguenti parole:
Si usted quiere ms que toca/primero hay que trabajar
Se vuoi più dello stretto necessario, prima bisogna lavorare. Quelli fra voi così masochisti da leggermi con assiduità capiranno quanto questa frase possa piacere al vostro Bradipo. Conoscevo la canzone, ma ieri sera per la prima volta l'ho capita veramente. L'ho capita alla luce di quello che sta succedendo in questo paese. Quando poi, in una conversazione successiva al concerto, Rafael mi dice: "La gente non ama più il lavoro, e questo è un problema", o qualcosa del genere, io strabuzzo gli occhi, e mi dico che questo giovanotto deve essere il mio alter ego venezuelano e con i capelli.
Questo, cari amici del Bradipo, perché noi viviamo in un paese di dottrinari dalle voluminose epe, il cui scopo nella vita non è modificare di una virgola la realtà che li circonda, bensì farsi dare ragione. Poco cale, a costoro, che la ragione è notoriamente dei fessi. "Pragmatismo" è, per questi alti funzionari della Motorizzazione del ben pensare, una parolaccia. Se non ti rilasciano prima la patente di rivoluzionario, non puoi circolare. Il lavoro? E che ne sanno questi del lavoro? Ne possono parlare in termini astratti, ma la verità è che non lo capiscono. La canzone di Victor Jara è una critica intelligente e ironicamente severa della classe media, e della sua assurda pretesa di consumare senza lavorare. Questa è la sfida: ripensare noi stessi, da consumatori (passivi, assoggettati alle scelte e alle decisioni altrui, umanamente immaturi) in lavoratori, e quindi artefici del mondo di cui vogliamo godere. Non basta ripartire più equamente il prodotto di un lavoro del quale non siamo protagonisti; dobbiamo riprenderci il lavoro, altrimenti continueremo a oscillare fra l'uomo di ieri e quello di domani, fra una concezione e un'altra dell'esperienza umana. Non saremo ni chicha ni
Mi induce ad una serie di osservazioni, come sempre, il nostro "coscientizzante" Bradipo-Palermo. Il nazi-fascismo in Italia ha letteralmente ed abilmente saccheggiato parole e concetti del movimiento operaio e rivoluzionario (d'altronde il primo Mussolini era compagno dello stesso partito di provenienza di Gramsci, Bordiga, Matteotti... la canzone stessa, definisce il fascista "vile traditore", della causa rivoluzionaria e socialista, ovviamente): "il lavoro rende liberi", scrivevano sui loro campi di concentramento... un esempio fra i tanti. I dottrinari dalle voluminose epe, i professoroni d'accademia, pare preferiscano rifugiarsi nel "panphletario", per utilizzare un termine caro ai compagni venezuelani. Spesso hanno una concezione limitata e limitante del lavoro. Il lavoratore, quello vero, non è semplicemente chi riceve un salario, un compenso, a fronte di una prestazione d'opera, un dipendente da e di qualcun'altro, è, come dice bene ppp, "l'artefice del mondo di cui vogliamo godere", e per essere tali non possiamo che essere creativi, e non si può essere creativi se non si crede in quello che si sta facendo: creativi sono coloro che si applicano nel costruire, nel crescere il metodo nel loro lavoro, ciò che si costruisce e ciò che nasce al momento non sono necessariamente nemici inconciliabili. Come ci faceva notare ieri Andrea Tartaglia ci sono alcune parole in castigliano che quasi non si distinguono: "crear, creer, criar (creare, credere, crescere) son la misma cosa, creo".
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