Cari amici, l'estate sta finendo, e un anno se ne va. Devo tornare a scuola, angoscia a volontà. In spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più. Mio blog prediletto, mi resti solo tu... Una amena filastrocca, ma ridendo e scherzando si dicono le più grandi verità. Se pesiamo questa vita al netto dell'immondizia che ci propina dalla mattina alla sera in varie forme, soprattutto per colpa nostra che ci ostiniamo a voler vedere Padre Pio nelle bustine del tè, come direbbe il compianto Dermot Morgan, rimane veramente poco. L'idiozia e la violenza (che poi sono parenti stretti) hanno invaso ogni centimetro quadrato del nostro habitat, costringendoci a cibarcene o a retrocedere nelle ombre, chiuderci negli armadi di un buonsenso a cui ormai manca l'ossigeno. Moriremo magari savii, ma moriremo presto. Prima, però, ci dibatteremo come il pesce nel secchio del pescatore.
Ce l'avete presente il kilt, il gonnellino scozzese? Forse saprete che i complessi motivi riprodotti su questo capo di abbigliamento erano un tempo precisi segni distintivi: indicavano l'appartenenza a un clan. Qui, se siete curiosi, ne trovate una breve lista. La società scozzese nel Medio Evo, in particolare nelle Highlands, era caratterizzata da un'organizzazione basata appunto su questo tipo di raggruppamento sociale. Non stupisce che agli inglesi, molto più avanti nel processo di formazione nazionale, i figli di William Wallace e Robert Bruce apparissero come dei selvaggi. E non era solo nelle forme di organizzazione politica e sociale che gli inglesi avevano un vantaggio: alla battaglia di Culloden, nel 1746, i gacobiti scozzesi affrontarono i moschetti delle Giubbe Rosse armati di spade. Tanto di cappello al coraggio, ma io una bolletta con i giacobiti vincenti non me la sarei mai giocata. E voi?
Per organizzare il lavoro, i commerci e tutto quant'altro consente a una società di mettere le basi del proprio progresso materiale e spirituale è necessario andare oltre la logica del clan. Quest'ultima è però ottima a trasmettere valori e norme culturali. I quali, naturalmente, saranno sempre sconfitti da quelli che producono società più avanzate. Il clan è la forma associativa, detto senza il minimo senso spregiativo, del selvaggio.
Non a caso il termine è stato spesso usato nel linguaggio giornalistico per riferirsi a organizzazioni criminali (in quel caso, probabilmente, una punta di disprezzo e senso di superiorità morale poteva esserci). Dopo tutto, mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti avevano rituali di affiliazione, una visione del mondo molto conservatrice, e una logica in cui da una parte c'era il loro gruppo, e dall'altra il resto del mondo. Ma non bisogna pensare, secondo questo umile fesso, che i criminali italiani si associno in quelle forme perchè selvaggi; lo fanno in quanto italiani.
Non ho le basi teoriche per sostanziare questa mia intuizione, essendo, come voi tutti sapete, un semi-analfabeta. Ma qualche giorno di delirio collettivo sul mio social network preferito mi ha convinto oltre ogni ragionevole dubbio di questa lampante verità. Mentre io, vittima di studi anglistici e smodate libagioni in compagnia di figli della perfida Albione e dellle sue tante colonie, riflettevo su questo umile blog intorno all'anomia preoccupante che ci sta distruggendo quello che in inglese si chiama the fabric of society, i miei amici internauti dibattevano se fosse necessario e/o opportuno fermarsi all'alt di un carabiniere, e se fosse accettabile sparare a chi contravvenisse a quell'ordine. Nel mio mondo di esule virtuale dall'italica patria (un esilio che onestamente non mi pesa più di tanto) le risposte sono entrambe scontate: sì alla prima domanda e no alla seconda. Ma questo, fate attenzione al passaggio fondamentale del (tentativo di) ragionamento, questo perchè io non ho un clan di appartenenza.
Quando si nasce e si vive in un paese costruito e retto su menzogne, abusi, prepotenza e assenza di principi chiari e validi per tutti, diventa difficile farsi un concetto della convivenza civile, e della fondamentale idea di cittadinanza. Si preferisce spesso aderire a un clan, indossarne il tartan e costruire, almeno in quell'ambito ristretto, rapporti di solidarietà, riconoscimento reciproco, equità. E non si capisce, o perlomeno non si dà mostra di aver capito, che in quella scelta c'è il seme delle propria inevitabile sconfitta, le premesse della condanna a rimanere selvaggi, alla mercè di chi ha raggiunto una concezione più evoluta del vivere sociale. Ed ora, viisto che non sono in grado di trovare una chiusa all'altezza del mio alato pensiero, finisco il post con un'allegra canzoncina scozzese.
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