martedì 1 novembre 2016

Narcodemocrazia

Da un po' non scrivevo, tutto preso com'ero dall'erculeo quanto vano sforzo di salvare qualche vita umana dal baratro del che "cazzo sta succedendo?" perpetuo. Il ponte dei morti mi ha portato consiglio. Questa pausa di riflessione e riposo, unita alla più recente delle mie periodiche ossessioncine, mi ha spinto a scrivere la presente. Se, come me, siete affascinati dalla figura di Pablo Escobar, vi consiglio due serie televisive e un documentario: le serie le trovate entrambe su Netflix, e sono Narcos e Pablo Escobar, el patron del mal. La prima è una produzione statunitense, e quindi è fatta molto bene, ma è parecchio romanzata e non coglie, a mio modestissimo parere, certi aspetti della vicenda del "capo dei capi"; la seconda è stata prodotta dalla televisione di stato colombiana, ed è quindi più modesta dal punto di vista qualitativo, ma certamente più attenta alla cornice politica e sociale della Colobia negli anni Ottanta e all'inizio dei Novanta. Il documentario, che consente di separare quanto c'è di reale nelle due serie dall'inventato (che è tanto, soprattutto in Narcos), si intitola Los tiempos de Pablo Escobar, e lo trovate qui.
Prima di addentrarci nella vicenda del "Robin Hood paisa", come fu definito Escobar, vi linko un articolo di Diego Fusaro. Che cosa c'entra? C'entra, in qualche modo. Parla della fine della borghesia, quella classe sociale che, tanto vituperata e tanto demonizzata, ha prodotto Charles Dickens, tanto per dirne uno. Ecco, Charles Dickens, uno che quando scriveva (e ha scritto tanto, come sappiamo), si occupava e si preoccupava del giusto e dello sbagliato, del morale e dell'immorale. La borghesia imperialista, razzista, classista dell'Ottocento sottoponeva a giudizio se stessa. Si assolveva, il più delle volte, ma si giudicava. 
E torniamo a  Escobar. Con i soldi della cocaina la Colombia si è arricchita, e di brutto. Ecco perché Escobar è diventato il criminale più ricco di tutti i tempi, ed ecco perché la società colombiana gli ha offerto per molti anni un sostegno più o meno unanime, con il silenzio e l'omertà, quando non proprio con l'aperta ammirazione. Con la sua politica di plata o plomo, denaro o piombo, Escobar ha creato un paese in cui l'accettazione della corruzione, ovvero della completa rimozione di ogni sistema di regole a favore del potere assoluto del soldo, spalancava le porte al benessere; ha inventato la narcodemocrazia. Non si fondava solo, né forse prevalentemente sulle armi, il potere di Don Pablo. Il popolo lo amava, per il suo impegno nella lotta alla miseria (Escobar avviò un programma edilizio per dare alloggi ai poveri di Medellin), per il suo ruolo di mecenate dello sport, ma quasi certamente anche perché vedeva in lui un uomo semplice che si era tirato fuori dalla povertà grazie alla sua berraquera, che sarebbe la cazzimma colombiana. 

Leggete l'articolo di Fusaro, leggetelo con attenzione. Forse converrete con me che Pablo Escobar, finalmente sconfitto dai suoi rivali (cartello di Cali in testa) più che dalla società cosiddetta "civile", è stato un araldo della nostra democrazia, dei nostri valori, della nostra visione della vita e del mondo. Berraquera, plata y plomo. Forse con questa faccia da Nobel per la pace vi piace di più.



domenica 11 settembre 2016

Sputare sul futuro

Questa è un'immagine molto italiana. Quando, una quindicina d'anni fa, il giocatore che vedete in foto sputò addosso a un difensore della nazionale danese, mi meravigliò la clemenza dei nostri media. Ora, che conosco un po' meglio questo paese, non mi sorprende più tanto. Il fair play non ci appartiene, purtroppo. Il nostro antagonista, rivale o avversario deve morire, è una merda, e noi proveremo a sopraffarlo con ogni mezzo. Per rimanere nell'ambito calcistico, abbiamo vinto un Mondiale nel 2006 anche grazie alle ingiurie di Materazzi rivolte alla sorella di Zidane. 
 
Ma non è solo il nostro spirito di competizione che ci porta ad attaccare il prossimo nei modi più bassi e volgari; spesso e volentieri, lo facciamo semplicemente per dare sfogo ai nostri peggiori istinti, forse per trovare uno sbocco a pulsioni nefaste che ci mangiano da dentro. Non potendo, non sapendo come migliorare la nostra condizione personale, ci rifacciamo sul vicino di casa, sul collega, non di rado sull'amico, senza capire che il nostro malessere non è causato certo da loro; e che, anzi, compattandoci fra di noi potremmo magari fare qualche passettino avanti, facendo indietreggiare i nostri reali nemici.
 
Una categoria particolarmente soggetta a questi attacchi è quella degli insegnanti. I quali, perlomeno per la maggior parte, non hanno mai truffato risparmiatori, non hanno sotterrato rifiuti tossici, non hanno insanguinato le strade delle nostre città con faide criminali, non hanno utilizzato denaro pubblico per mettere su reti di malaffare. Qual è, dunque, il nostro imperdonabile peccato? Che, rispetto a molte altre categorie professionali, ridotte ormai in uno stato di semi-schiavitù, godiamo di maggiori sicurezze contrattuali, e che lavoriamo poco.
 
Io adesso non voglio perdere tempo a spiegare tutta una serie di cose sul mio lavoro che potrebbero far riflettere qualcuno su cosa voglia dire essere un insegnante. Fino a due anni fa non le sospettavo neanche, e scoprirle ha significato la più profonda trasformazione della mia vita. Questa esperienza me la tengo per me, col cazzo che la espongo alla leggera idiozia delle genti. Vorrei farvi notare, invece, che ognuno di noi è quello che è, in buona parte, grazie alla scuola. I bravi studenti diventano, di regola, persone che sanno vivere. Che affrontano mille difficoltà, certo, e non è detto che escano vincitori da questa battaglia di tutti contro tutti che è diventata la società, ma comunque persone che hanno gli strumenti per capire cosa stanno vivendo. Quando i genitori dei nostri alunni capiscono perché siamo lì e perché rompiamo le scatole ai loro figli, ci ringraziano. Un giorno anche i loro figli lo faranno, forse.

Quando ci sputano addosso, senza capirlo, stanno sputando sul futuro dei loro figli. Quando accolgono con soddisfazione la precarizzazione della nostra categoria, perché "siamo dei privilegiati", non si rendono conto che stanno dando la loro approvazione a misure volte a scoraggiare i più capaci e volitivi dall'intraprendere una carriera da insegnanti. Quando si scandalizzano del nostro disappunto di fronte al peggioramento costante della gestione della scuola, non hanno la percezione del fatto che questo peggioramento non colpisce solo noi, ma anche le persone che hanno più care al mondo (almeno in teoria...), i loro figli. Lo so che nel call centre trattano peggio i lavoratori, ed è vergognoso che il legislatore non intervenga per arginare forme estreme di sfruttamento. Ma, con tutto il rispetto per chi in un call centre ci lavora, noi non siamo dipendenti di Vodafone o Wind; siamo dipendenti dello Stato, e quindi di tutti coloro che vivono in questo paese. Ci pagate per aiutarvi a dare il meglio ai vostri pargoli e rampolli, o no? Bene, e allora prendeteci pure con la mazza quando facciamo i furbi e i lavativi; quando lavoriamo con serietà, rispettateci e aiutateci. E ricordatevi una cosa: di Francesco Totti ne nasce uno ogni venti o trenta anni. Gli ignoranti qualsiasi, prima di sputare, farebbero meglio a stare attenti. Come dicono a Sutton on sea, Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna.
 
 
 

venerdì 9 settembre 2016

Postulanti alla meta

 
Da piccoli ci hanno insegnato che le cose si chiedono per favore. Se siete stati bambini obbedienti e coscienziosi come il vostro Bradipo, avete imparato la lezione e preso quindi l'abitudine di non esigere con arroganza, né tantomeno appropriarvi di quello che volevate con la forza. Ma poi siamo cresciuti, e ci siamo accorti che non tutti erano venuti su educati e rispettosi del prossimo; qualcuno aveva seguito la sempreverde vocazione del fetente di merda, ancora  attraente per il genere umano in quanto inspiegabilmente tollerata dalle genti. Le quali genti, anziché prendere il fetente di turno e impalarlo sulla pubblica piazza, onde evitare che la fetenzia prendesse il sopravento, lo hanno additato a modello di successo. 
 
"Guarda quel fetente come veste bene! E che savoir faire!"
 
E così i fetenti sono diventati la classe dominante. Si prendevano quello che non apparteneva loro senza chiedere il permesso a nessuno, non solo con il beneplacito, ma proprio con l'aiuto del resto della popolazione. Andavano dal contadino che si spezzava la schiena a lavorare nei campi per sfamare la famiglia (quando andava bene) e gli leggevano l'editto in base al quale doveva lasciare casa e lavoro e andare a combattere per i fetenti. E quello ci andava. E se non ci andava succedeva una cosa di un'assurdità grottesca e tragica: il fetente diventava lui. Allo stesso modo se si rifiutava di pagare tributi o prestare opera gratuitamente al fetente. La legge la facevano i fetenti.
 
Gradualmente, e viene quasi di dire suo malgrado, la specie umana ha cominciato a capire che questo stato di cose era insostenibile, in quanto sprecava risorse e talenti in quantità gigantesche. E allora ha iniziato a mettere argini ai fetenti. Fra questi, quello senz'altro più significativo è stata la messa in discussione della proprietà privata.
 
"Nè, fetente di merda, posa la roba ché ti cionchiamo le mani!"
 
Così si sarebbero espressi i padri del Socialismo, se fossero stati originari del Wiltshire settentrionale. E la specie umana, per molti decenni, ha preso sul serio queste critiche al diritto dei fetenti di accumulare a danno della gente per bene, quella che lavora. Le ha prese tanto sul serio che persino i fetenti hanno dovuto fare delle concessioni, e abbiamo avuto i diritti.
 
Ma poi, e tutto questo è successo nell'arco di decenni terribilmente brevi, i fetenti hanno cominciato a lusingarci con beni voluttuosi e promesse di potere:
 
"Anche tu puoi essere come noi! La fatica la fanno i ciucci! Vieni anche tu nel club dei fetenti di merda!"
 
Così la civiltà è diventata una lotteria, una specie di giostra sulla quale puoi continuare a girare solo se sei il fortunato che ha preso al volo il fiocchettino. I diritti sono spariti mentre facevamo il giro della morte, e i fetenti sono più agguerriti che mai. Cosa ci resta, dunque? L'educazione che ci ha dato mammà. Teniamola da conto, perché dovremo passare la vita a chiedere, a supplicare, a implorare che ci diano quel poco che ci spetta, nella speranza che i fetenti non ritengano di prendersi anche quello. 

lunedì 5 settembre 2016

Ma quale libertà?

"Sono alto due metri e faccio quello che mi pare". Così il professore di archeologia interpretato da John Cleese in questo divertente sketch, prima di colpire con un plateale uppercut il conduttore del programma a cui era stato invitato. Non vi sto a spiegare tutto lo sketch, andatelo a guardare, se volete. Quello su cui mi voglio soffermare è la battuta. Sono alto due metri e faccio quello che mi pare.

Piccola deviazione di percorso. Per aspera ad astra, come dicono a Casavatore. Dunque, oggi mi è arrivata a casa una splendida Gibson J45, il regalo che mi sono fatto per aver superato il concorso a cattedra. Sono stato a lungo indeciso fra quella e una Martin D18, strumento altrettanto valido ma con un suono piuttosto diverso. Alla fine ho fatto una scelta basata su tutta una serie di criteri che non sto a elencare per non tediarvi. Si fa presto a dire chitarra; se avessi scelto la Martin adesso avrei a casa un altro strumento, con altri pregi e altri limiti. Ho dovuto scegliere.
 
Per la libertà va fatto esattamente lo stesso discorso. Ognuno di noi sceglie, spesso senza rendersene conto, la concezione che più gli aggrada. In base a quali criteri? Essenzialmente, in base alla propria visione del mondo, alla propria ideologia. C'è chi si vede (o si crede) alto due metri e reclama il diritto a fare quello che gli pare, e c'è chi intende la libertà essenzialmente come il diritto a non essere calpestato da chi è alto due metri e pretende di fare quello che gli pare. Io rientro nella seconda categoria.
 
In quale categoria rientra, invece, la nuova "sinistra", quella che si identifica con chi offende, irride e disprezza le masse popolari? Quella che, finalmente libera dalla necessità di fingersi interessata alla sorte dei lavoratori (che ormai votano in massa a destra, o non votano) può dare libero sfogo al suo disprezzo di chi non ha fatto l'università e non mangia biologico? Quando lo avete capito, fatemi un fischio. Nel frattempo, salutatemi Charlie Hebdo e il professor Eversley, che è alto due metri e fa quello che gli pare. 

sabato 3 settembre 2016

Il sacro fuoco

Sì, perché alla fine la domanda che dovremmo porci è una sola, e ora provo a enunciarla nel modo più chiaro e conciso possibile: il fatto che tu abbia letto i libri scritti fitti fitti e senza figure ti mette su un piano diverso rispetto ai comuni mortali? La tua (presunta) superiorità intellettuale ti conferisce il diritto di guardare il genere umano dall'alto in basso, come una sorta di semi-dio o, quantomeno, eroe da saga epica? Il sacro fuoco che sei convinto di aver rubato ti fa migliore di me?
 
Non voglio nemmeno affrontare un altro discorso, relativo alla tua comprensione di tutti i libri che hai letto, o alla reale qualità del tuo ingegno o del tuo senso dell'umorismo. Ammettiamolo pure, che tu sia una cima, uno spiritosone, un fine analista della politica nazionale ed estera. Sei per questo altro dall'ignorante, dal rozzo, dal becero salviniano? Non condividete la stessa natura umana? Non condividete una parte consistente dei vostri destini, vivendo sotto l'ombrello della stessa oppressione, delle stesse elaborate menzogne, della stessa violenza? Non per provocare, per capire... ma allora di chi saresti "compagno" tu?
 
Mettiamo pure che tu lo abbia colto, quel sacro fuoco: adesso che ci fai? Lo condividi con tutti noi o ne fai una torcia alla luce della quale brillare, e da brandire come un'arma nei confronti delle forme di vita inferiori? Il tuo è il fuoco di Prometeo o quello dell'Inquisizione?
 
Tutti i discorsi, oggi, riportano a questo. Se vuoi veramente una società di uguali, smettila di brandire quella torcia come un'arma, dismetti i panni del gran dottore e indossa quelli del coglione qualunque; forse, se mettiamo tante fiaccole insieme, riusciamo a fare un po' di luce sul buio spaventoso di questa epoca di inaudita ferocia. 
 

venerdì 2 settembre 2016

A chi mozzica il cane?

Allo stracciato. Sempre a lui. Per esempio, se un terremoto uccide centinaia di persone (per ragioni ovvie, hanno fatto le case con la sabbia, lo sappiamo dal 2009 purtroppo), arriva il cane sotto forma di spiritosone d'Oltralpe e fa la battuta sulla pasta. Con la gente che ha perso la casa e tutto quello che aveva dentro, quando non i propri cari o addirittura la stessa vita. Lo spiritosone ha bisogno di clic, di visibilità, e azzanna lo stracciato senza pensarci due volte. Poi si scatena il putiferio, e lo spiritosone fa un'altra vignetta, in cui al luogo comune della pasta si sostituisce quello della mafia. Attendiamo con ansia il mandolino
 
Qualcuno in tutto questo difende la libertà di satira, perché forse gli è sfuggito che lo spiritosone è francese, o magari non sa come è nato questo paese, e che rapporti ha storicamente con la Francia. E non si rende conto, perché magari lui o lei non è emigrato o non ha mai lavorato in un call centre e non capisce che vuol dire essere lo stracciato, della ferocia che sottende a quelle vignette. Nel momento in cui questo paese avrebbe bisogno di interrogarsi seriamente sul proprio stato e sul proprio futuro, si ritrova stretto in una morsa da una casuale ma non per questo meno letale manovra a tenaglia che vede da un lato l'indefinibile campagna del Ministero della Salute sulla fertilità, e dall'altro le speculazioni di ogni genere sul sisma che ancora una volta gli ha squarciato le viscere.

Io dico sempre le stesse cose, lo so bene. In realtà, qualche volta cambio anche idea. Ad esempio, al tempo della guerra in Libia scrissi dei post che oggi non condividerei. Ma, tutto sommato, i miei valori e la mia visione restano ormai costanti. Questo anche perché la realtà, come suggerisce il titolo del post, resta ferma, stantia, non si evolve. Mentre cerchiamo su Facebook la nostra identità, un partner, l'illusione di non essere dei poveri stronzi, ci fanno sistematicamente terra bruciata intorno. E noi, fessi, ancora non abbiamo capito che lo stracciato siamo sempre noi.
 

lunedì 1 agosto 2016

Smart

Cari adepti, iniziati, epigoni e catecumeni, buongiorno. Oggi parliamo di come ci stiamo rincoglionendo. Voi sapete che il vostro umile servo è da svariati anni dedito allo studio dell'idioma della perfida Albione, che parla come il partigiano Johnny, ovvero come un maledettissimo lord. Eppure sono in pochi a essere infastiditi quanto lui dall'uso improprio di lessemi mutuati da questa bella lingua. Ad esempio, la parola che dà il titolo al post. Tutto bene fin quando usiamo il termine anglosassone per riferirci al computer: lo hanno inventato loro, pertanto non esisteva un termine in italiano per designarlo. Lo si può chiamare "calcolatore", traducendo il suo nome inglese, ma non cambia poi molto. Cosa diversa quando esiste una parola in italiano per esprimere un concetto, ed esiste da secoli. Smart vuol dire "intelligente". Non è un concetto importato dall'estero: le fonti storiche attestano la presenza di esseri intelligenti in Italia quando gli inglesi erano perlopiù dediti a scavare a mani nude nelle paludi per raccogliere torba, o a scappare quando vedevano un vichingo. Ma oggi essere intelligente non ha più senso: oggi possiamo essere tutti smart.
 
Quell'oggetto che vedete nella foto è uno smartphone, un "telefono intelligente". La domanda, almeno per quanto mi riguarda, sorge spontanea: per quale motivo, e in che modo, un telefono dovrebbe essere intelligente? Per carità, capiamoci, si tratta di un arnese utilissimo, se lo si usa con criterio, ma perchè definirlo "intelligente"? Sembra quasi che si chieda a questa macchina di sopperire a eventuali carenze intellettive dell'utente...
 
Non sembra, è così. In due anni di insegnamento, ho visto usare gli smartphone per mettere in atto praticamente qualsiasi comportamento scorretto e diametralmente opposto ai fini dell'educazione. Risposte a domande sulla letteratura scaricate da siti tipo "skuola.it" (sì, con la K...) fino all'uso dei traduttori automatici, passando per la consultazione di amici "bravi" su Whatsapp. L'intelligenza è a portata di clic; non è una qualità, è un prodotto di consumo, un'offerta commerciale. 
 
So che in moltissimi non si rendono conto dell'importanza dell'educazione; si tratta di una di quelle cose delle quali capisci l'importanza quando vengono a mancare. Chi ne ha ricevuto una non ha idea di cosa voglia dire l'ignoranza, quella vera, fin quando non la vede. Relazionarsi con un adolescente che ha passato la vita a scaldare un banco è come trovarsi di fronte a una persona con dei moncherini al posto delle braccia. Hanno diciotto anni e ragionano come se ne avessero dodici; sono palesemente incapaci di fare scelte e prendere decisioni. Non sono smart. Però hanno tutti lo smartphone. Meno male.

sabato 23 luglio 2016

La casetta di marzapane e i fessi che ci cascano sempre


Ma veramente vi state intossicando per Higuain? Non voglio fare il cinico, ma questa era una foregone conclusion, come si suol dire a Torre del Greco. Ma non sentivate, nell'ultima fase del campionato, una punta di tristezza mista alla gioia a ogni suo gol? Non capivate che, ogni volta che la metteva dentro, si allontanava un po' di più da questo club accattone e cazzaro? Gonzalo Higuain non è un giocatore che il Napoli può trattenere. E non è nemmeno - e questa è la cosa più importante - un giocatore che il Napoli vuole trattenere.

Ve la ricordate la fiaba di Hansel e Gretel? La casetta di marzapane attira i due bambini, con il suo aspetto delizioso; la strega che ci abita mette i due pargoli all'ingrasso, ma con una finalità precisa e orrenda: mangiarli. Spolparli fino all'osso. I bambini si salvano solo perché capiscono il gioco della megera e diventano più furbi di lei.

Noi tifosi del Napoli, invece, nonostante i luoghi comuni sulla presunta furbizia dei Napoletani, ci facciamo puntualmente raggirare da Aurelio de Laurentiis a ogni finestra di mercato. Ogni volta che promette un top player ci sbizzarriamo con i nomi più assurdi e improbabili - imbeccati spesso da giornalisti dalla dubbia professionalità - per poi renderci conto che abbiamo preso Grassi e Regini. La differenza fra noi e i due giovani protagonisti della fiaba dei fratelli Grimm è che loro venivano rimpinzati meglio. Noi dodici anni fa navigavamo in cattive acque, per dire con un eufemismo quello che il nostro presidente ha espresso in modo più colorito; ma è anche vero che prima avevamo vinto due scudetti e una Coppa Uefa, oltre che le coppette di cui si può fregiare il Napoli della stagione ADL. Noi sappiamo cosa voglia dire guardare il resto dell'Italia calcistica dall'alto verso il basso. Eppure continuiamo a entrare in quella maledetta casetta di marzapane, in cui quello che si mette a tavola non corrisponde mai al menu.

Lasciate perdere le giaculatorie e gli anatemi. I calciatori sono professionisti, e praticano lo sport a livello competitivo: vogliono soldi, e vogliono vincere. Se questo vuol dire essere mercenari, allora sono tutti mercenari. Lo sono, perlomeno, quelli bravi, quelli richiesti. E sono gente che guadagnerà anche i sempre vituperati milioni di euro (voi li buttereste nel cesso?), ma si fa un culo così fra allenamenti, palestra e diete, sotto una pressione costante che spezzerebbe la schiena in tre o quattro giorni a chiunque di noi. A differenza della strega cattiva, che si nutre degli ingenui. Usciamo da questa casetta di marzapane, o smettiamola di lamentarci quando la delusione ci brucia. Non è il tradimento di Tizio o Caio, è il forno in cui finiscono i bambini sprovveduti...

venerdì 15 luglio 2016

La strafiga e lo sfigato

Cari amici del Bradipo, oggi ignoreremo volutamente l'ennesimo insensato massacro di civili inermi per occuparci di quello che sarà con ogni probabilità lo sperpetuo dell'estate per noi tifosi del Napoli: il Pipita ci lascia? E, se è così, ci farà l'affronto di andarsi ad accasare proprio nella tanto odiata rivale di sempre? In questo mondo martoriato dal dogma e dall'irrazionalità, concedetemi di provare a usare un po' di logica. Mi raccomando, do not try this at home, come dicono a Casapesenna.
 
Quando il Napoli ha preso Gonzalo Higuain, l'attaccante argentino era reduce da alcune stagioni non esaltanti al Real Madrid. La concorrenza era tanta e di qualità eccelsa, e il nostro non aveva avuto modo di mettersi nella giusta evidenza. Desiderava quindi un rilancio, e forse una squadra in cui poter fare da primo violino. Volendo fare un paragone, è come se il vostro umile servo adescasse una bellissima donna appena lasciata dal compagno, con l'autostima sotto i tacchi, e la mettesse al centro del suo mondo. Tra una focaccia col formaggio a Recco e un aperitivo a Piazza Lavagna (noto luogo di libagioni a buon mercato nel centro storico di Genova), ella rifiorirebbe, come quel giovanotto che vedete nella foto. Ma poi, inevitabilmente, si accorgerebbe che tanti uomini la guardano con insistenza, infrangendo spavaldamente il settimo comandamento, mi pare, quello che vieta di desiderare la donna d'altri. A quel punto, forte di una rinnovata consapevolezza del suo valore di mercato, comincerebbe ad avanzare pretese:
 
- Amore, quest'estate mi porti alle Mauritius o a Saint Tropez?
 
C'è bisogno di precisare, cari lettori, che per me un weekend a Forio d'Ischia rappresenterebbe già un notevole sforzo? A quel punto la pulzella mi inquadrerebbe per lo sfigato che sono e mi getterebbe via come un paio di collant smagliati, per cercarsi un agente di borsa o un camorrista. 
 
Questo sta succedendo al Napoli e a Higuain. Cogliendo l'occasione per ricordarvi che Aurelio De Laurentiis è un saponaro (e chiedo scusa ai robivecchi per il paragone ingiurioso), vi faccio notare che a gennaio, quando il Napoli lottava per il primo posto, il nostro facondo e munifico benefattore ha preso due rincalzi che hanno visto a malapena il campo. Se voi foste una strafiga, lo piantereste esattamente come sta per fare Gonzalo.
 
Una sola speranza resta: che si faccia avanti un altro club. Vedere andare la donna dei tuoi sogni con il vicino di casa che si tromba tua moglie da anni sarebbe troppo...

giovedì 7 luglio 2016

Siamo del commando ultrà

Voi mi dovete schifare! Lo avete capito o no? C'è ancora gente che mi saluta per strada, mi contatta su whatsapp...evidentemente devo fare meglio. Proviamoci, orsù!
 
A Fermo, che mi pare si trovi nelle Marche (una regione la cui esistenza, come quella del Molise, è ancora oggetto di dibattito), un nigeriano di 36 anni è stato picchiato a morte da un individuo di nazionalità italiana. I giornali, secondo me a ragione, una volta tanto, lo hanno definito come ultrà di una squadra locale. Su Facebook, meraviglioso barometro degli umori del paese (o perlomeno di quelle fasce sociali che compongono la maggior parte dei tuoi amici sul social network in questione), leggo un parere discordante: non va definito ultrà l'assassino di Emmanuel Chidi Namdi, ma fascista. In effetti, pare che l'omicida (in questo caso non ci sono dubbi in merito alla colpevolezza dell'arrestato) appartenesse a un gruppo di estrema destra. Dunque, si tratterebbe di un atto motivato politicamente.
 
Una volta al San Paolo si cantava "siamo tifosi degli azzurri, siamo del commando ultrà, foza azzurri alè alè" ecc. Essere del commando ultrà era un motivo d'orgoglio, significava essere entrati in una sorta di inner circle, come dicono a Pignataro Maggiore; chi faceva parte di questa concione di optimi se ne vantava. Probabilmente perchè, eccetto l'appartenenza al commando l'ultrà in questione, costui era nella quasi totalità dei casi un marginale, un numero zero, una assoluta nullità sistematicamente calpestata da tutti e da tutto. Esiste all'interno dei gruppi ultrà una componente borghese fatta di ragazzi annoiati e vuoti dentro, ma credo si possa dire senza tema di smentita che la maggioranza di questi sono poveri cristi provenienti dalle periferie o comunque dalle fasce più vulnerabili della popolazione; in una parola, sottoproletari.
 
Per queste persone la violenza non è devianza, ma l'unica possibilità di reagire: sono ignoranti, incapaci di capire quali forze muovono e decidono, consentono o proibiscono, in breve dispongono delle loro vite più o meno a piacimento. Se voi viveste in queste condizioni, non avreste una riserva di rabbia e rancore a cui trovare uno sfogo, pena la perdita della vostra salute mentale? Di qui la necessità di fare gruppo, e di affermarsi. Di qui il commando ultrà, di qui il saluto romano e la frequentazione di gruppuscoli neofascisti. Del fascismo come ideologia e come fenomeno storico questi poveracci hanno una comprensione estremamente limitata, da ignoranti quali sono. Non aderiscono a una visione del mondo, ma a uno stile di vita. Si aggrappano a un salvagente.
 
Noi che abbiamo studiato e ci consentiamo il lusso di perdere tempo a leggere il blog di un deficiente dovremmo fare di meglio. Perchè, vedete, se noi affermiamo che Emmanuel è stato ucciso da un fascista, noi stiamo riproducendo esattamente la stessa mentalità pecorescamente identitaria, liquidando un fenomeno serio e preoccupante soprattutto perchè complesso come l'ostilità all'immigrazione con una parolina magica fatta apposta per spiegare - ed esorcizzare - ogni male. Affinchè non ci siano altri Emmanuel non è necessario combattere il fascismo (sarebbe facile se fosse così) ma qualcosa di profondamente radicato nel carattere italiano, trasversalmente alle classi sociali; è necessario superare quella essenziale amoralità che porta ogni commando ultrà a farsi la propria legge e la propria giustizia, senza capire che solo l'aderenza a una legge e una giustizia possono garantire una convivenza civile e degna di esseri umani. Perchè il commando ultrà, qualunque sia la sua squadra del cuore, tira pugni e basta.

sabato 2 luglio 2016

Disgustosamente medio

Cari amici, credo di aver capito la natura di tutti i miei problemi. Spesso, come ben sapete, mi lamento di questo e di quello, prendendomela ora con uno, ora con un altro dei miei innumerevoli aguzzini, visibili e invisibili. Ma, a un'analisi attenta e sincera, posso veramente dire di averne il diritto? Posso io effettivamente pretendere di ricevere un trattamento rispettoso ed equo dai miei simili? Vediamo.
 
Bene, io sono, come tanti altri miei connazionali, un insegnante precario. Faccio parte della nutrita schiera di meridionali che hanno lasciato il proprio luogo d'origine per trovare occupazione. Non provengo da una famiglia indigente, ma non guadagno, né guadagnerò mai quanto i miei genitori: appartengo, insomma, al numerosissimo ceto medio impoverito. Non sono omosessuale, bisessuale o transessuale, non sono vegano né vegetariano, non sono celiaco e non appartengo a nessuna setta, religiosa o di altra natura. In breve, non faccio parte di una minoranza. Possiamo dire, alla luce di questa tragica constatazione, che io sia degno di sopravvivere?
 
Orbene, appurato che il mondo fa bene a trattarmi come una mappina, vorrei pormi - e porvi - un interrogativo generico: perché oggi sono solo le minoranze ad essere sistematicamente difese a spada tratta dai "progressisti"? Voglio dire, perché il geometra Rossi, quel signore un po' stempiato che ha l'abbonamento a Sky e le rate della macchina da pagare, fa così schifo ai nostri maitres a penser? Ve lo siete chiesto mai? Io, quando bevevo una birra dopo l'altra mentre strimpellavo orrendamente con i miei amici in umidi anfratti popolati di simpatici perdigiorno, non me lo chiedevo; adesso che sono un precario stempiato e pago le bollette della luce e del gas, me lo chiedo. Voi avete una risposta? Io credo di essermela già data mentre scrivevo questo capoverso.
 
Prima di andare nella toilette ad espletare un bisogno talmente comune da risultare assolutamente ripugnante a qualsiasi intellettuale che non provi autentico odio per Michele Serra, voglio fare una considerazione. Banale, come si addice alla gente della mia risma. Nella storia di questo disgraziato pianeta, sono stati sempre i pochi a sfruttare i tanti, a far loro violenza, a rubare loro la dignità. Una minoranza di ricchi hanno banchettato togliendo il pane da bocca a una maggioranza di poveri. Una minoranza di bianchi hanno colonizzato, derubato e massacrato una maggioranza di non bianchi. Una minoranza di colti, e questa è la peggiore vergogna di tutte, hanno ingannato, deriso e disprezzato una maggioranza di ignoranti. 
 
Io, cari amici, faccio parte della maggioranza violentata, derubata, derisa, insultata e ingannata. E pure voi. E adesso vado a fare la cacca. E poi sfido chiunque a distinguere lo stronzo che sto per depositare dal nostro comune destino.

lunedì 27 giugno 2016

Multiple choice

E adesso vi tocca un post al giorno! E tutti sugli stessi due argomenti: la scuola e il Brexit, ovvero la mia vecchia e la mia nuova ossessione. Che volete, come tutti gli anziani mi ripeto. Si è creato un vuoto spaventoso nelle nostre vite. Un elefante ha lasciato la stanza, e mi sembra assurdo come in molti, la maggior parte di noi, non se ne sia accorta (o faccia finta di non essersene accorta). Quell'elefante era il collante sociale che ci teneva più o meno uniti, che ci faceva sentire compartecipi di un destino comune. Oltre la politica, oltre le differenze sociali (fino a un certo punto), perfino oltre la squadra del cuore. Quell'elefante si chiamava buon senso, o common sense, come dicono a Mugnano di Napoli: quel magnifico bagaglio di esperienze condivise, e di idee e posizioni basate su quelle esperienze. La visione del mondo di ciascuno di noi era frutto di un rapporto dialettico con la realtà, non di un indottrinamento internautico. Chi operava nel sistema mediatico scriveva o parlava di quella realtà da un punto di vista dialettico, schierandosi ovviamente, ma schierandosi su questioni reali. Oggi molti dei miei alunni non hanno mai visto un film di Fantozzi (e io insegno a Genova, eh); come pretendiamo che convivano e comunichino fra loro? Il vegano se la farà con il vegano, l'hipster con l'hipster, il rapper con il rapper e così via. A ognuno la sua setta, la sua nicchia, e le sue verità, ovviamente preconfezionate e mai passate al vaglio della ragione. Perché, è chiaro, se la tua fragilissima identità si costruisce su una serie di dogmi, tu poi quei dogmi li devi difendere tooth and nail, come dicono a Monteruscello.

Provate a leggere questa intervista. Notate come il giornalista pone le domande: la risposta è già contenuta nella formulazione della domanda stessa, e il filosofo se ne accorge e lo fa notare. Non c'è ricerca, non c'è indagine, non c'è sforzo conoscitivo. Ci sono risposte imparate più o meno a memoria, una lettera su cui mettere ogni crocetta. Io lo so da dove viene questa mentalità. Io lavoro nella fabbrica di questa mentalità del belino, e dico del belino. Chiedi ai tuoi alunni di imparare a replicare una serie di affermazioni apodittiche, e la maggior parte non avrà problemi; fai leggere un testo e invitali a commentarlo liberamente, e li vedi andare nel panico. Questi sono i ventenni oggi. Da una parte del voto e anche dall'altra.

Vi faccio una domanda, e ve la faccio perché veramente non ho una risposta, per quanto sembri incredibile, in questa epoca di certezza universale. La domanda è: un'altra Unione Europea è possibile? Ora, una risposta affermativa implicherebbe un processo di trasformazione. Ma, ammesso e non concesso che questo processo di trasformazione possa essere avviato, chi dovrebbe portarlo avanti? I tecnocrati che oggi governano l'Europa? Beh, sono loro che l'hanno plasmata così, perché dovrebbero modificarla? It works a treat, come dicono a Palma Campania. Al massimo potrebbero apportare qualche correttivo per limitare ulteriormente le ingerenze dell'opinione pubblica e della volontà popolare nei loro affari. Dunque, se riforma ci deve essere, va fatta dai popoli. Da quei popoli che sbagliano i test a scelta multipla. Ma allora il problema è la presunta "ignoranza" dei popoli o il test a scelta multipla? State attenti a dove mettete la crocetta.
 

domenica 26 giugno 2016

Il collegio dei docenti e l'abuso di democrazia

Cari amici, come potete vedere non trovo pace. Da qualche giorno a questa parte, un po' perché la scuola è sospesa, un po' perché i britannici hanno fatto la marachella, ho tanta voglia di scrivere. Anche perché poi, fra una partita e l'altra di Euro 2016, leggo le dichiarazioni di questo o di quel sadico antisociale (in Italia abbiamo una cantera di questa gente, che il Barcellona ci fa un baffo), il quale ci spiega come il Brexit sia stato un'onta inaudita, una macchia indelebile sulla camicia buona dell'Occidente.
 
Nel titolo del post faccio riferimento proprio a una di queste dichiarazioni, quella dell'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Roberto Saviano tira fuori dal cascione addirittura Hitler e Mussolini. Lui dice di ricordare come le folle acclamavano i due leader (lui "ricorda" tutto, probabilmente era anche compagno di banco di Göring). Insomma, siamo di nuovo al popolo bue che non sa, non deve decidere.
 
E cosa c'entra il collegio docenti? Un po' di pazienza. Ché poi, se mi leggete, è certamente per questo mio modo di costruire i post, mica per attingere al mio Verbo. O almeno spero. Dunque, se non fate gli insegnanti e dunque non siete mai stati a un collegio docenti, vi spiego cos'è: è un luogo in cui viene data la possibilità a noi professori di ratificare decisioni prese da altri. Il DS (dirigente scolastico, oggi il preside si chiama così) parla, parla, parla fino a sfinirti, e poi ti fa alzare la mano. Non importa come voti. Un voto contrario alla linea della dirigenza non è che un temporaneo ostacolo, una battuta d'arresto; tanto comunque una proposta alternativa dovrà essere stilata per forza da loro. Tu non deciderai mai niente, perché non hai diritto di ingresso colà dove si puote. La scuola è governata da un'idea tecnocratica, non democratica.

Ma cosa vogliono dire questi due termini? Entrambi contengono la parola greca antica kratos, ovvero "potere". Potere del popolo contro potere della competenza, della techné. La democrazia, nella nostra epoca, deve essere maquillage, una bella facciata dietro la quale il palazzo trama contro i villici. Stare con questi ultimi (dei quali del resto fai parte, 999 volte su mille) ti fa bollare immediatamente come "populista", come se il popolo fosse cacca. E loro, questo, lo pensano davvero. Disprezzano il popolo per la sua ignoranza (guardate i social e datemi torto, se potete), come se l'gnoranza fosse colpa di chi la subisce, e non di chi ha preso a colpi di maglio per decenni il diritto universale all'educazione. Diritto che era stato affermato proprio perché potessimo esercitare come si deve la democrazia, non per insegnarci a essere bravi sudditi, mentre comanda chi sa farlo. La disobbedienza, cari i miei tecno-fascistelli, non è un abuso della democrazia; la disobbedienza è la democrazia. Quella cosa che, quando alzi la mano, puoi decidere.
 
 

venerdì 24 giugno 2016

Una chitarra da riaccordare

Cari lettori, buongiorno! Vi sarete accorti del panico generato dal voto britannico. Si è scatenata un'isteria millenaristica intorno alla decisione di questo popolo evidentemente becero e razzista, salviniano senza sapere di esserlo. Geova li punirà, non c'è dubbio. Fire and brimstone, come dicono a Pontecagnano. La quasi totalità dei miei amici su Facebook ha detto la sua, in termini prevalentemente apocalittici. Potevo mai io, re indiscusso degli idioti, perdere un'occasione per confermarmi tale?
 
Saprete, e se non lo sapete ve lo dico io adesso, che fra le tante onte che arreco all'Universo c'è quella di violentare orrendamente la chitarra, cercando di estorcerle suoni dotati di un minimo di armonia e costrutto. Ovviamente non ci riesco, ma non è quello adesso il punto. Il punto è che io ed alcuni dei miei amici suoniamo la chitarra, o ci proviamo. Il primo ostacolo, nel prendere lo strumento in mano, è costituito dall'accordatura. La chitarra è uno strumento che la perde facilmente. Ora, fin quando le corde sono in dissonanza fra di loro è facile: ti accorgi subito che la chitarra è scordata. Il difficile è quando tutte le corde si sono abbassate o alzate di tonalità nella stessa misura, e dunque lo strumento risulta apparentemente intonato. Sospetti che non lo sia quando ti metti a suonare insieme al tuo amico e senti che le vostre chitarre non sono in assonanza. Verifichi che non lo è quando ti affidi alla oggettività del diapason (tiempe belle 'e na vota...) o di un accordatore elettronico. C'è, dunque, una prova del nove che dirime ogni dubbio, una fonte di certezza terza rispetto alle due chitarre. 
 
Ma se invece  entrambe le chitarre fossero scordate in modo da risultare accordate fra loro? Questo è difficile che accada, perlomeno a me non è mai capitato di sentirlo. A meno che... 
 
Oggi - e per la verità già da un po' - la "destra" e la "sinistra" mainstream si sono accordate, è proprio il caso di dire, su uno spartito quasi perfetto. Hanno dato il LA a una profonda ristrutturazione della psicologia collettiva dei popoli, del nostro modo di percepire la realtà e, soprattutto, noi stessi. Si suonano un contrappunto continuo che, più che marcare differenza, esprime complementarietà. Non sono visioni alternative del mondo; sono visioni perfettamente atte a convivere (e, anzi, interdipendenti) destinate a diversi segmenti del mercato del consenso. L'effetto è un'armonia rassicurante, che ci culla nelle nostre certezze, fino a che... fino a che il diapason della realtà irrompe sulla scena e ci fa capire che sono tutti fuori tonalità.
Lavoro, giustizia sociale, libertà innanzitutto economica, diritti. Questo è il LA. Su questo va accordata la chitarra. Facciamolo, per la miseria, e poi ci renderemo conto degli stucchevoli barocchismi dietro i quali si nasconde il trasversalissimo partito dell'ingiustizia, del privilegio, dello sfruttamento. E poi magari mettiamo via le velleità da concertisti e lo spartito di Segovia, e iniziamo a suonare la canzone semplice e autentica che parla di chi siamo e dove vogliamo andare.

giovedì 23 giugno 2016

Il sacro bue e la rivoluzione possibile.

Cari lettori, buonasera. Dal momento che il caldo è ormai arrivato, i raggi del sole si abbattono impietosi su chiunque abbia l'ardire di esporvisi, e le mosche ronzano intorno alla carcassa putrefatta della civiltà occidentale come intorno a una testa di porco, non v'è che una soluzione: chiudersi in casa e non aprire a nessuno. Ma come sopravvivere? Al di là di qualche rapida sortita per approvigionarsi, come passare il tempo che ci separa dal prossimo autunno, quando sarà di nuovo sicuro avventurarsi nel mondo esterno? Io posso dire solo che mi impegnerò per fare la mia parte. Comincio subito.

Il successo elettorale del M5S in diversi comuni (in particolare Roma e Torino) nelle ultime amministrative ha scatenato un'ondata di ironia e sarcasmo. Sappiamo bene che, con l'avvento dei social network, siamo diventati tutti grandi filosofi e/o comici. Nulla sfugge alla nostra comprensione, e mai e poi mai perderemmo la possibilità di sfoggiare il nostro sublime senso dell'umorismo attraverso qualche arguto motteggio, che naturalmente non manca mai di suggerirsi alle nostre eccelse menti. Grazie a Mark Zuckerberg e compagnia, non siamo più costretti ad essere dei poveri coglioni che lavorano tutta la vita per pagarsi il mutuo e, magari, comprarsi la macchina nuova ogni cinque o sei anni. Oggi possiamo essere tutti qualcuno. Guardate, perfino io!

Però devo confessarvi che a volte dubito della mia intelligenza. A dirla tutta, ne dubito quasi sempre. Il fatto è che non vi capisco. Avendo un'intelligenza rozza e poco sviluppata, non arrivo dove volano le acquile come voi. Ad esempio, non sono mai riuscito a capire una cosa, ve lo confesso con tutto il candore del caso (tè tè, beccati questa allitterazione!): com'è che il popolo qualche volta è bue, mentre altre è un'entità di ineffabile purezza, una fonte di suprema legittimazione morale alla quale solo i giusti hanno il diritto di abbeverarsi?

In attesa delle vostre risposte, che spero arrivino presto e numerose (parlo con voi, sommi sacerdoti della ragione!), proverò ad arrangiare qualcosa da solo. E, poiché sono così stupido, non posso che andare avanti a botte di domande. Di quelle ne ho tante; di risposte, ahimé, poche. La prossima domanda è questa: ma chi è il popolo?

No, perchè il linguaggio è complesso (scusate se ogni tanto mi concedo un'affermazione) e c'è una cosa che si chiama "polisemia": le parole hanno più significati. A volte questi sono distanti fra loro, e allora possiamo distinguerli chiaramente. Ad esempio, "canto" può essere l'atto del cantare, ma anche un angolo (sebbene questo secondo significato sia un po' desueto). Altre volte, invece, i vari significati di un lemma possono essere più vicini. Ed è lì che l'affare si imbroglia. Il popolo, ad esempio, può essere l'insieme dei cittadini di un paese (il popolo italiano, il popolo francese ecc.) ma anche qualcosa di diverso, meno neutrale, più connotato. Vediamo un po' di definizioni. Secondo il Sabatini/Colletti, consultabile sul sito del Corriere, nell'accezione numero 4:

In senso sociale, il complesso dei cittadini che costituiscono la parte più numerosa, meno agiata di uno stato.

Per il Garzanti online:

L’insieme delle classi sociali di più modeste condizioni economiche e civili.

Per l'Hoepli, consultabile sul sito di Repubblica:

Il complesso delle classi sociali meno abbienti della popolazione di uno Stato.

Dunque, oi polloi, come dicevano i pederasti olivofagi, la moltitudine, la turba, la zantraglia, la mazzamma. La sfaccimma della gente. Gente che ha poco e conta poco. Cari amici, se ci togliamo il prosciutto dagli occhi ci rendiamo conto che noi ne facciamo parte. Se la smettiamo di confondere ottocentesche narrative romantiche sul proletariato con la realtà che abbiamo fuori da quella porta (oltre la quale torno a implorarvi di non mettere piede nelle ore più calde, e comunque mai più del tempo strettamente necessario) ci renderemo conto che il popolo oggi, quella sentina della storia disgustosa e nauseabonda, siamo noi. Se mi stai leggendo vuol dire che non sei su un panfilo, circondato da donnine in topless; e quindi anche tu, che ti piaccia o no, sei popolo.

E qui sono certo di aver causato a molti profonda insofferenza. Dice "noi abbiamo studiato!" E 'sticazzi, le menti raffinate che mandano avanti la baracca saranno sempre un passo avanti. Dice "il dentista e l'avvocato non sono come l'operaio!" Certo che non lo sono. E l'operaio non è come il precario del call centre, il quale a sua volta non è come il disoccupato. E perfino il disoccupato, se può godere di qualche rete sociale (in genere la famiglia) non è come il nullatentente costretto a chiedere la carità per non morire di fame. Ma è anche vero che, più sei ai margini di una società, più sei disperato, meno riesci a interessarti alla cosa pubblica. Non è che sei bue. Hai altri cazzi per la testa. E questo non ti nobilita.

Un processo politico rivoluzionario, per avere successo, deve essere portato avanti da una base di consenso quanto più ampia è possibile, specialmente se te la stai giocando con un nemico che riesce a produrre tanto consenso, giocando sporco. I marginali in una società non hanno mai prodotto, e mai produrranno, significativi cambiamenti politici. Questo mi arrischio ad affermarlo con certezza. Le rivoluzioni le fanno oi polloi: il che in Italia nel 2016 vuol dire l'operaio, l'impiegato, il salumiere, il farmacista e pure l'amministratore di condominio. Ecco perchè il M5S guadagna voti. Vuole fare la rivoluzione che si può fare, quella del bue che si è stancato di arare il campo al padrone e poi essere disprezzato, di essere insomma cornuto e mazziato. E il bue magari non sarà intelligente come voi che avete studiato e leggete i libri scritti fitti fitti e senza le figure, ma è forte. E la forza si sconfigge con la forza, non con le citazioni e le battute di spirito. Per questo, essendo io un idiota, chiudo parafrasando Majakovskij: attenti al bue, non sia mai gli venisse in mente di torcere il collo ai canarini che cinguettano contro la sua rivoluzione.  

martedì 7 giugno 2016

Tutti insieme appassionatamente

Cari amici, ho capito di essere come Concetta Cupiello: mi sono fatto vecchio, sono diventato aspro... sarà che in questi giorni si sta chiudendo l'anno scolastico e, per quanto possa sembrare incredibile a gente della nostra generazione, che ai primi di giugno si "ritirava", i miei alunni stanno sostenendo ancora interrogazioni. Perfino domani, ultima giornata ufficiale di lezioni, dovrò sentire due persone. Di questo, come di ogni altra manchevolezza dei miei studenti, il responsabile sono naturalmente io; io, che ho osato mettere in discussione il dogma del lieto fine, in cui questi ragazzi sono stati allevati.
 
Sono diventato, come dicevo, aspro. Un tempo, quando io stesso ero fra i banchi di scuola e sul mio capo cresceva qualcosa di simile alla scarola, ero propenso ai frizzi e ai lazzi. Allietavo i compagni col mio buonumore e le mie rime spiritose e mordaci. Oggi questo continua ad accadere, in una certa misura, in aula professori; non più, ahimé, in classe. Sapete com'è, oggi sono un insegnante. Sento di avere delle responsabilità. Per questo somministro insufficienze e traumi psicologici, e per questo devo temere la tremenda vendetta dello spirito di Julie Andrews.
 
Ma non è solo uno sfogo personale, questo. Come spesso accadde, o mythos deloi, ovvero, per i non grecisti, il fatterello da cui parto non è che uno spunto aneddotico per insinuare le mie teorie più o meno bislacche. Quando vedo i giovani radical chic, penso due cose: la prima, naturalmente, è una semplice constatazione di quanto ossigeno si sprechi all'interno dell'atmosfera terrestre; la seconda è che un simile scempio debba avere delle cause. Dove sono, dunque, le radici del male?
 
Come dicevo, i miei studenti sono stati presi da un improvviso, irrefrenabile impulso a parlarmi di Wordsworth e Coleridge. Per questo mi fermano ognora nei corridoi, al che io non posso fare a meno di domandare, come l'ospite dello sposalizio della famosa poesia, quella dove qualcuno spara a un gabbiano (cit.), 
 
Now wherefore stopp'st thou me?
 
Ma non sono che affettazioni di maniera. So bene cosa vogliano. Vogliono portarmi nella terra of ice and snow del gelo psicoevolutivo,  quel luogo in cui l'ingegno umano è
 
as idle as a painted ship upon a painted ocean
 
e lì sottopormi al supplizio che mi spetta per aver abbattuto l'albatros della loro spensieratezza con i miei voti "rossi". Vogliono valicare le frontiere che separano il successo dall'insuccesso, senza dimostrare il minimo rispetto per chi ha lavorato per costruirlo, il successo. Vengono a provare l'interrogazione, come se il loro insegnante fosse una slot machine. E pensano che il mero fatto di provarci debba determinare l'ammissione in seno alla ecclesia, in quanto eterni catecumeni che non imparano mai, una buona volta, quei cazzo di dieci comandamenti, manco fossero cento.
 
Non esistono problemi da risolvere, ostacoli da sormontare, prove da affrontare (con la conseguente possibilità di non farcela). C'è solo una pretesa di avere la tavola apparecchiata. Questo è l'uomo nuovo che vogliono i miei alunni. Ecco da dove vengono i coglioni che parlano di solidarietà e accoglienza con i soldi di papà sul cellulare, in un paese in cui i posti di lavoro spariscono a velocità vertiginose. Ed ecco perchè io continuerò a sparare all'albatros, e riempire di rosso la sezione VOTI del registro elettronico, nella speranza che il finale di questa nostra triste vicenda collettiva veda  l'inetto di oggi risvegliarsi un giorno
 
A sadder and a wiser man
 
... 

mercoledì 25 maggio 2016

Uomini come bestiame

Forse non tutti sanno che... Così è intitolata una vecchia e ben nota rubrica della Settimana enigmistica. Da quasi discreto solutore di rebus, anche io voglio dirvi qualcosa che forse non sapete: il concetto di macchina del tempo, che tanto diletto ha prodigato a grandi e piccini per svariati decenni, lo dobbiamo a uno scrittore inglese di nome H. G. Wells. Come vi ho fatto spesso notare, gli inglesi hanno inventato, creato o ideato quasi tutto ciò che non è monnezza del mondo moderno e contemporaneo. Per questo continuo a parlare ossessivamente di loro, e lodarli in modo quasi untuoso e servile. 
Un'altra mia ossessione, come sapete, è la scuola. Nonostante faccia l'insegnante, io credo che la scuola sia una cosa seria. Una cosa seria rovinata dagli stronzi, che riescono ad avere la meglio grazie a due fattori:
1) la loro palese superiorità numerica;
2) il fascino perverso del nichilismo, la irresistibile forza centripeta del nulla, unica soluzione al cocente paradosso di una coscienza potenzialmente infinita ma penosamente limitata in atto.
Gli stronzi, padroni di tutto ciò che è in quanto capaci di ridurlo alla condizione di non essere, hanno voluto distruggere la nostra scuola. Il loro progetto è chiaro: creare una nuova razza di subumani inebetiti e giulivi, alla mercè della parte più feroce (e dunque più potente) del genere umano. Wells aveva previsto tutto questo, ma da ottimista qual era l'aveva ambientato in un remoto futuro. Non poteva immaginare che la scuola italiana dell'inizio del XXI secolo sarebbe stata popolata da creature preoccupantemente simili ai suoi Eloi, l'evoluzione debosciata di un genere umano destituito da ogni responsabilità e pressione. Per ottenere uno dei suoi esserini spensieratamente inetti, deboli e terrorizzati dal buio, è sufficiente creare un sistema scolastico che non presenti sfide educative, e che non faccia sostanziali differenze fra il successo e l'insuccesso. Tutti, alla fine, ce la fanno. Dunque, perché penare, sforzarsi, perdere tempo in un'attività essenzialmente inutile come lo studio? 
Un'altra è però la domanda che dobbiamo realmente porci: perché creare una generazione di Eloi? La risposta, naturalmente, ce la da Wells: per dar da mangiare ai Morlock. Chi sono i Morlock? Sono coloro che si cibano della nostra ignoranza, della nostra debolezza, della nostra incoscienza. Quando gli Eloi usciranno dall'ente che li ha formati come tali, i Morlock emergeranno dal sottosuolo per esigere il loro tributo di carne umana, sotto forma di stage non retribuiti, contratti a tempo determinato con retribuzioni da paese in via di sviluppo, corsi di formazione farlocchi e quant'altro. E per fuggire da questo futuro inquietante non ci sarà, ahinoi, nessuna macchina del tempo.

domenica 3 aprile 2016

Il campanile più alto

Stasera non si parla di scuola. Per una volta tanto, mi dimentico dei miei pargoletti, e vi parlo di qualcosa di ancora più rovinoso e malandato del mondo dei giovani: vi parlo di quello dei vecchi. E se "giovani merda" è una parola d'ordine sacrosanta, non dobbiamo pensare che è tutt'oro quello che bofonchia sul pullman. I vecchi si distinguono in due categorie: quelli che hanno il potere e quelli che sono invecchiati bene. De primi, in questo post, parlerò.

Concedetemi, per pietà, una breve incursione in classe. Sapete perché mi sforzo tanto per insegnare qualcosa ai miei alunni? Perché so che fuori dalla scuola c'è tutta un curricolo informale pronto a traviarli e trasformarli in un gregge di pecore da portare all'infelicità e all'insuccesso collettivi. I pastori di questo gregge sono i vecchi. Non quelli anagrafici, che potremmo definire anche "giovani maturi", ma quelli "ontologici". In essi la vecchiaia è un dato costitutivo, un elemento fondante, non sopraggiunto con il passare del tempo. E te ne accorgi anche se li incontri a vent'anni, che sono vecchi. E ne devi avere paura. But I digress, come dicono a Crispano. Veniamo al punto.

Oggi il Napoli ha probabilmente perso la possibilità di giocarsi il primo posto, grazie a una prestazione pessima contro un avversario motivatissimo ma oggettivamente inferiore. Che le cose non andassero per il verso giusto, in casa degli azzurri, si era cominciato a capire da qualche turno; la pausa pasquale, durante la quale molti dei nostri calciatori sono stati impegnati nelle rispettive nazionali, ha aggiunto ulteriore ruggine, ed è arrivata una sconfitta meritata. Mi addolora constatare che tanti amici diano la colpa all'arbitraggio, quando l'inadeguatezza dell'approccio alla partita dei nostri è stata così palese. Preferirei assistere, in un momento come questo, a reazioni più composte e sportive. Sì, è vero che il campionato di serie A non ha quasi mai uno svolgimento corretto e un esito non falsato da sviste arbitrali in buona o in mala fede. Lo sappiamo bene. Il nostro campionato di calcio rispecchia semplicemente il nostro modo di essere, nel quale il fair play, purtroppo, occupa un posto men che marginale. La colpa è dei vecchi, naturalmente. Loro, tanti e tanti anni fa, hanno costruito i campanili, e a secoli di distanza noi siamo ancora impegnati a fare a chi ce l'ha più alto. Perché? Perché i vecchi, che possano andare tutti a percolato in una discarica abusiva, ce li hanno fatti venerare come totem mentre ci rubavano la gioventù. Sono secoli che lo fanno, e ancora non ce ne rendiamo conto. 

Se vogliamo guardare un campionato pulito, dallo svolgimento regolare, dobbiamo abbattere prima il campanile. E, vedete, il calcio è fra le ragioni meno importanti per cui dovremmo farlo. Per favore, comportiamoci da esseri dotati di moralità, smettiamola di "stringerci a coorte" continuamente in nome della nostra parrocchia, del nostro gruppetto, del nostro branco, e cominciamo a vivere da esseri umani; oppure smettiamo di ripetere "Juve merda" e invocare una giustizia che, a ben vedere, non è altro che difesa del proprio campanile. Basta, per pietà, con questa logica. Si è fatta vecchia.

 

mercoledì 30 marzo 2016

Quando mamma e papà non hanno fatto i compiti


Buonasera a lor signori. Parliamo, tanto per cambiare, di scuola. Tanto ormai lo avrete capito, ci sono fissato. Il lavoro debilita, certo, l'uomo, ma al contempo lo nobilita. Senza il mio lavoro io sarei un coglione dalla rada capigliatura che scrive idiozie su Facebook, strimpella orrendamente la chitarra e consuma le risorse del pianeta. Lo so per certo, perché fino a un paio di anni fa lo ero. 

Dunque, come potreste aver evinto dal titolo, parliamo delle colpe dei genitori rispetto all'indeguatezza scolastica dei figli. Lungi da me assolvere gli orridi mutanti che riempiono le mie classi da tutti i loro innumerevoli vizi, una vastissima gamma di nequizie che va dall'incontinenza al sadismo; piuttosto, mi interessa individuarne le cause scatenanti.

Imparare vuol dire interagire con il mondo, e fin qui non credo di dover dimostrare nulla. Tutti abbiamo un amico o un parente che, dopo un periodo più o meno lungo trascorso all'estero, è tornato in Italia onusto della conoscenza di una lingua straniera. Il malvagio John Peter Sloan, alfiere dell'imparare divertendosi e pertanto nemico naturale di ogni docente di inglese, vorrebbe farvi credere che l'idioma della perfida Albione è tutto una gag. Io, invece, vi dico che lo zio emigrante ha imparato a parlarlo soprattutto grazie all'immenso valore educativo della frustrazione. Il bambino impara a dire "acqua" nel momento in cui la madre decide di dargli da bere fuori dai pasti solo in seguito a una richiesta verbale. Se questa vi sembra una crudeltà, andatevi a guardare due gag del mio nemico e non mi leggete più. Frustrare il bambino, entro certi limiti, vuol dire fare il suo bene. Se lo zio emigrante ha imparato a esprimersi in inglese è stato per soddisfare le sue necessità, per sottrarsi a uno stato di perenne disagio. Ed è per lo stesso motivo che i nostri lontani antenati hanno imparato ad accendere il fuoco, inventato la ruota, ed escogitato sistemi di simboli per rappresentare il linguaggio. La frsutrazione è una sfida, e vincerla ci fa crescere, in ogni senso.

La domanda che scatta a questo punto è la seguente: i genitori vogliono che i loro figli crescano? Sono in grado di volerlo? Vi sembra un quesito strano? Bene, partiamo da lontano. Ve la ricordate la bufala dei gatti bonsai? L'idea di poter distorcere lo sviluppo di una forma di vita a fini estetici, sebbene abbia dei risvolti evidentemente grotteschi, non è così lontana dalla mentalità di molti genitori, sapete. I figli sono qualcosa di loro, quasi come una proprietà personale, da imbottigliare nelle loro aspettative, da assoggettare alle loro dinamiche, e soprattutto da esibire. E, in un'epoca di infelicità tragicamente dilagante, la prima cosa da esibire è proprio la felicità. La persona che non ha strumenti di analisi adeguati confonde la frustrazione di cui si parlava prima, quella che può essere vinta, con un altro tipo di frustrazione, perenne e strutturale, e cerca disperatamente di sottrarsi, e sottrarre coloro che ama, al malessere più tetro, soddisfacendo immediatamente ogni pulsione soddisfacibile. In breve, pratica il consumismo. Lo pratica in ogni ambito della vita sociale in cui gli sia possibile praticarlo. Dal momento che ormai la scuola è un servizio erogato ai singoli, non più alla collettività (con tutto il carico di responsabilità sociale che ne conseguiva), lo pratica anche nel rapporto con quella e con gli altri enti formativi.

Ecco qui, caro/a signore/a, perchè tuo/a figlio/a non impara. Non sa gestire la frustrazione, e non sa distinguere quella buona da quella cattiva. La colpa dei suoi insuccessi ha dunque un peso insostenibile, che lui o lei getterà immediatamente e immancabilmente sul docente. E tu, povero/a imbecille, lo/a asseconderai. E continuerete a comprare un sollievo effimero quanto incompleto, per tutta la vita. Gli comprerai l'iPhone, e in modo non dissimile gli comprerai un titolo di studio che senza "aiuto" non riuscirà mai a conseguire. Lo/a hai allevato al fallimento e all'incapacità di capire perché fallisce. L'impreparato che ti ha mandato su tutte le furie, mettitelo in testa, è tuo prima che suo.

 

mercoledì 23 marzo 2016

Tertium non datur

Da un po' ormai latito dalle lunghe, estenuanti discussioni sulla politica nazionale a cui per un periodo mi sono dedicato su Facebook. La ragione è semplice: adesso ho modo di agire, in una professione secondo me cruciale nel forgiare il futuro di un paese, laddove prima non mi era concessa che un'inane chiacchiera. Oggi, come insegnante, io esercito un potere, che non è certo quello di scrivere numerini su un registro (e non mi sorprende che quegli alunni e quei genitori che ci vedono solo in tale veste ci considerino dei coglioni); il vero potere di un insegnante sta nell'opportunità che ha di risvegliare il senso critico dei suoi alunni, facendoli uscire dal dogmatismo e dal feticismo di nozioni morte che puzzano di cadavere.
 
Per questo, cari i miei loro, non parlo più di politica su Facebook. Preferisco dedicare le mie energie al lavoro, un'ora del quale vale più di mesi di sterili ciance. Questo perché sono i fatti, come si suol dire, che contano. I trionfi intellettuali ci danno soddisfazione, ma lasciano il tempo che trovano. E, soprattutto, i trionfi intellettuali spesso si realizzano in un nichilismo che nega ogni prassi, mentre conserva una purezza inutile quanto puerile. 
 
Eppure, di tanto in tanto, mi ritrovo taggato in qualche discussione. Ed ora che sono in vacanza, il vuoto temporaneo lasciato dai miei amati mostriciattoli dalla mente virginea come la prima neve deve essere occupato.Torno a chiedermi, dunque, perché ce l'avete così tanto con il M5S. Non sarà mica che anche voi vi siete chiusi nella cieca venerazione di nozioni morte che puzzano di cadavere? Perché, se guardiamo i fatti, la situazione è estremamente semplice: esiste un establishment politico che ha affossato questo paese, da qualunque prospettiva si voglia guardare la cosa. Per fermarlo, prima che ci riduca ancora peggio di come siamo ridotti, occorre una forza che coaguli intorno a sé consenso di massa. Questa forza, oggi, può essere solo il M5S. Non ne esistono altre, né è ipotizzabile che ne sorgano, nella situazione attuale. Chi vuole agire politicamente (agire, non elucubrare) oggi in Italia, deve necessariamente muoversi nella scia di questa forza, se non dentro di essa. Questo perché oggi in Italia l'unico tema generativo, per usare un'espressione mutuata dalla pedagogia, è l'onestà. Tutto il resto è chiacchiera liturgica. E l'onestà è una delle facce della giustizia. Fino a quando non si affermerà nel senso comune dell'italiano la necessità di rispettare delle regole, e di pretenderne il rispetto da chi gestisce il potere politico, qualsiasi cambiamento significativo sarà impossibile. 

Dunque, scegliete fra una visione opportunistica, vile e parassitaria della politica, e una imperfetta, eterogenea, contraddittoria forza di opposizione con una leadership discutibile. Tertium non datur. La vostra superiorità analitica e morale non ha valenza politica, e se non siete stupidi lo capite bene. O 1 oppure 0. O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. O ti tieni la classe politica della "buona scuola", o li mandi a casa. Tertium non datur. O resti a sviluppare raffinatissime costruzioni mentali mentre ti smantellano il paese intorno, o smetti di sedere e rimirare, e ti sporgi per guardare cosa c'è effettivamente oltre la siepe. Vedrai, esimio professore, un popolo esausto e moralmente distrutto. Se gli vuoi parlare, comincia da ciò che gli sta a cuore; oppure continua a parlare di lui, e mai con lui. O l'una o l'altra. Tertium non datur.

martedì 1 marzo 2016

Guai ai vinti!

Una volta esisteva una chiara differenza fra Destra e Sinistra. Al di là di ogni possibilità di confusione o di convergenza sul piano teorico, c'era un elemento che le distingueva immediatamente nel discorso quotidiano, informale, non accademico. Si trattava di un aspetto "sentimentale", sebbene indubbiamente collegato a una Weltanschauung precisa e strutturata: la Sinistra aveva pietà dei vinti. 
Quel signore che getta la spada sulla bilancia, facendola ulteriormente abboccare a danno dei poveri Romani, è Brenno. Nel 390 a.C. assediò l'Urbe, riducendone la popolazione allo stremo delle forze, fino a che non fu raggiunto un accordo per il pagamento di un tributo aureo da parte dei nostri antenati. Secondo le fonti romane, la bilancia con cui fu pesato l'oro da consegnare a Brenno era stata truccata dai Galli. Alle italiche proteste, il baffuto duce ribattè compiendo il suddetto gesto e pronunciando la frase riprodotta nel fumetto, e che io ho scelto come titolo di questo post.
Dov'è la ragione di Brenno? Nella forza. Nel mondo antico, il forte ha ragione e il debole ha torto. Ciò che distingue il debole dal forte, in quel momento storico, è il valore militare. In altre parole, chi ha il vigore e l'abilità necessarie per annichilire le ragioni dell'altro trionfa. Se sia giusto o meno questo principio lo lascio giudicare a voi, o augusti lettori.
Che differenza passa fra il mondo di Brenno e Furio Camillo e il nostro? Ecco, quando ci spostiamo dal passato al presente abbiamo subito un evidente vantaggio: la disponibilità di fonti dirette. Andate a fare un giro nei quartieri della vostra città abitati dagli immigrati, dalla "classe meno abbiente",  da chi oggi è assediato da parte di una forza al cospetto della quale le truppe di Brenno fanno sorridere. Poi accendete la televisione o leggete un giornale. Ecco, basta tanto a capire chi sono i forti oggi, e su cosa si fonda il loro diritto. Un diritto declinato in svariate forme, ma sempre riconducibile all'archetipo di tutti i diritti borghesi, cioè quello alla proprietà dei mezzi di produzione. Di tutti  i mezzi di produzione. Anche un utero, un ventre, sono mezzi di produzione. Guai ai vinti, che per sopravvivere all'assedio dell'altrui diritto sono costretti a gettare finanche la propria carne su una bilancia che insulta la giustizia quanto la pietà.