mercoledì 21 luglio 2021

Il Salvini che si nasconde in te

 

 

Non c'è dubbio sul fatto che quello che detestiamo ci definisce come persone molto di più di quello che amiamo. Dopo vent'anni di Berlusconi l'uomo che ha raccolto il testimone di esponente politico più odiato dalla sinistra è stato questo signore, Matteo Salvini. 

Cosa si rimprovera a Salvini? Innanzitutto, l'atteggiamento xenofobo di chiusura verso i migranti, dipinti come una minaccia per la sicurezza e la prosperità degli gli italiani. Si tende a sorvolare sul fatto che queste paure non sono state inventate di sana pianta dal leader del Carroccio, ma erano e sono presenti nella società italiana, generate da un sistema in cui gli ultimi possono salvarsi solo a spese dei penultimi. Se hai il minimo dubbio, la più remota perplessità sulla sostenibilità di un'accoglienza illimitata, senza se e senza ma, sei razzista, fascista e via discorrendo. 

Un altro argomento contro Salvini è il suo stile comunicativo, che fa appello all'emotività piuttosto che alla ragionevolezza. La Lega trasforma la paura, il disorientamento, la frustrazione sociale in consenso, e questo non solo è moralmente censurabile, ma abbassa drasticamente il livello del dibattito politico.

Bene, facciamo una deviazione. Immaginiamo che al posto dei migranti ci siano gli "untori" e al posto dell'italianità la condizione di vaccinati; ecco che, come d'incanto, fare leva sulla paura è perfettamente accettabile, in nome della "scienza". Ecco che si possono tranquillamente indirizzare gli epiteti peggiori a coloro che minacciano la nostra illusione di immunità (che onestamente non trovo molto diversa dalle fantasie di purezze ancestrali condite da riti mistici in riva ai fiumi). I muri che si deprecavano quando servivano a tenere fuori l'altro (il messicano dagli USA, il siriano dall'Ungheria eccetera) adesso si invocano in formato digitale per escludere l'altro (il non credente nella nostra illusione di salvezza biochimica) dalla vita sociale. 

Lo vedete quello che state diventando? Naturalmente, sarete terribilmente offesi da questo paragone e vi affretterete a puntualizzare che i vostri argomenti sono validi. E perché, credete che il disagio sociale di cui si nutrono  le destre da decenni non fornisca argomenti validi a chi purtroppo lo vive per votare in un certo modo? E se la soluzione si trovasse non in una verità assoluta e, in quanto tale, impermeabile a ogni dialogo, bensì nella comprensione di altri punti di vista? E se si provasse a postulare che una società libera e giusta è una società che si guarda da più di una prospettiva? Perché temo che l'alternativa sia un mondo in cui i muri non si vedono, e proprio per questo sono spietatamente efficaci.

domenica 18 luglio 2021

Il monolocale angusto, i testimoni di Geova e il pensiero circolare

Come alcuni di voi sapranno, sono nato a Napoli ma vivo a Genova da alcuni anni, per la precisione dal 2014. Il secondo alloggio che ho abitato in questa città che ormai considero casa era un monolocale di 25 metri quadri affacciante su una piazza di spaccio del centro storico. Vi garantisco che niente, nell'annetto scarso che passai in quel budello oscuro, era normale. Non deve destare quindi sorpresa il fatto che, in un monotono pomeriggio d'estate, ricevetti la visita di alcuni testimoni di Geova e li feci entrare.

Ora, io non conosco i testimoni di Geova delle altre città (compresa Napoli, dove non ricordo mai di un loro tentativo di approccio), ma i testimoni di Geova di Genova hanno una strana reazione quando li inviti a entrare. Non si fidano. Deve essere uno scenario nuovo, insolito. Voi vi starete forse chiedendo se io avessi sentito una sorta di vocazione, un richiamo da parte di un ente supremo infinitamente buono; niente di tutto questo. Ero curioso di sentire cosa avrebbero detto. Dunque, dopo esserci studiati per qualche secondo con l'uscio di mezzo, finalmente vennero dentro.

Non sbagliai ad accoglierli. Quella fu una delle esperienze più istruttive della mia vita. Come vi ricorda il nome di questo blog, io sono un fesso reoconfesso. Penso di avere tanto da imparare, e quel pomeriggio imparai qualcosa. Sì, perché ogni volta che chiedevo a queste persone di giustificare le loro affermazioni, mi mostravano un passo della Bibbia. In pratica, nel loro testo di riferimento c'era una spiegazione completa e dettagliata di tutta l'esperienza umana. E questo mi sembra ovvio, visto che quel libro è stato messo insieme, editato, espunto e corretto nel corso dei secoli da chissà quante mani e quante teste molte più sofisticate delle nostre. Su quel libro si è fondata una religione che ha conquistato miliardi di persone in più continenti; è ovvio che abbia una certa coerenza interna, e che anche laddove sembra contraddirsi siano state proposte soluzioni per risolvere il contrasto.

La domanda era, in quell'assolato pomeriggio di luglio, e resta sempre la stessa: cosa rende la Bibbia una fonte affidabile? La Bibbia è la parola di Dio, mi venne risposto. A quel punto non c'era più niente da dire. Era diventato ovvio che il motivo per cui queste persone si erano avvicinate a un credo forte come quello che erano venute a propormi era proprio la sicurezza che mostravano nel rispondere a ogni mia obiezione. Non vacillavano mai. Penso che proprio a quello servisse la loro fede: a non vacillare. Ci lasciammo senza che nessuno convincesse nessuno, ma nel mutuo rispetto. Io con il mio rito assolutamente pagano della birretta alle sei, loro con Geova. Non li biasimo. In un certo senso, sono certamente più ricchi di me.

Biasimo, invece, coloro che applicano questo genere di atteggiamenti non già a insolubili domande di ordine metafisico, ma alla conoscenza del mondo sensibile. In quel campo l'unico lume possibile è il dubbio, la sperimentazione, il costruire sugli errori. Una spiegazione di un fenomeno fisiologico non è vera in quanto scritta da qualche parte, come la parola di Geova. L'autorevolezza del più grande scienziato deve necessariamente, in nome della scienza stessa, rinnovarsi giorno dopo giorno nel confronto con ipotesi diverse. Il vituperio, il rifiuto al dialogo, il ricorso a principi di autorità premoderni e indegni della nostra civiltà destano sospetti e preoccupazioni. Perché, vedete, i testimoni di Geova vi fanno una testa così, ma alla fine se ne vanno; i tribunali ecclesiastici e gli inquisitori, una volta che gli abbiamo aperto la porta, si piazzano lì e ci impongono di vivere come dicono loro.

giovedì 15 luglio 2021

Il mattacchione, gli occhiali a raggi X e il sacro rituale liberatorio

 

Cari adepti, seguaci e catecumeni, seguitemi, e vi porterò fuori dalla terra d'Egitto! Il Signore degli Eserciti aprirà un varco nel mare e lo richiuderà alle nostre spalle, annegandovi gli empi nostri nemici! Così è scritto, e così sia!

Scusate, mi sono fatto trascinare, deve essere il clima di questi giorni. Non sono un profeta né un intellettuale di riferimento, sono un mattacchione, e vi racconterò quindi una storia da mattacchioni, traendone un irriverente parallelo con la realtà che purtroppo siamo costretti a vivere da oltre un anno e mezzo.  

Quando i motorini andavano ancora a miscela e i giocatori di calcio erano numerati dall'1 all'11, senza nomi sulla maglia, quando la gente andava in giro nelle Fiat Uno se era figa (se no avevi la 500 o la 126) nel nostro paese circolavano pubblicazioni come Alan Ford, L'intrepido e tante altre. Si trattava di fumetti indirizzati a un pubblico adolescente in un'epoca in cui la sessualità era ancora oggetto di limiti e tabù. Non deve stupirci, dunque, che questi giornali tipo Lando pubblicizzassero gli indimenticabili occhiali a raggi X. Non sto a spiegarvi cosa fossero perché l'immagine lo fa in modo piuttosto esauriente.

Io ero un preadolescente credulone, eppure di fronte a questo presunto prodigio della Scienza restavo un po' scettico. Ammesso e non concesso che fosse possibile a un paio di occhiali proiettare dei raggi X, avrei visto lo scheletro delle donne, mica le vergogne, mi dicevo e dicevo ai miei amichetti di allora. Eppure questi inserti pubblicitari non mancavano mai nelle succitate pubblicazioni. Evidentemente, qualcuno doveva comprarli. La speranza di poter vedere la supplente di chimica nuda doveva essere più forte della voce della ragione.

Oggi che sono un ometto di mezza età e la maggior parte dei miei amici e conoscenti ha i capelli sale e pepe, mi ritrovo di fronte a un fenomeno per certi versi simile. Ci hanno spiegato che questo virus muta in modo rapidissimo, per cui esistono già chissà quanti ceppi sui quali i "vaccini" (che vaccini peraltro non sono) non possono nulla; abbiamo letto degli effetti avversi, talvolta gravissimi, provocati da vaccinazioni di massa indiscriminate che non tengono conto dei fattori di rischio individuali; siamo (o dovremmo essere) consapevoli del fatto che i tempi con cui si è arrivati alla commercializzazione di queste preparazioni sono stati abbreviati rispetto al normale iter; infine, prima di iniettarci il siero benedetto ci fanno firmare una liberatoria. Ora, per come ragiono io questi elementi dovrebbero essere sufficienti a instillare qualche dubbio sulla valenza messianica di siffatte inoculazioni; e invece assistiamo non solo a una disperata corsa alla puntura (fin qui niente di male) ma addirittura al vilipendio di chi preferisce non offrire il braccio all'ago.

Se ne deve dedurre, pare chiaro, che il desiderio di risolvere magicamente un problema che ormai devi avere il prosciutto sugli occhi per non riconoscere come principalmente politico, economico e sociale supera le barriere della razionalità, un po' come il desiderio degli adolescenti di antan di vedere la supplente di chimica nuda superava il buonsenso e la ragionevolezza. Per quanto mi riguarda, mi sembra facilmente deducibile che, di fronte a un successo così travolgente della prima campagna vaccinale, sarebbe stupido da parte delle grandi case farmaceutiche non fare il bis. E lo faranno, il prossimo autunno-inverno, e poi ancora chissà quante volte, perché... sorpresa! Il virus muta!

Chiudo questo testo di dubbio valore formale e contenutistico con due constatazioni dolorose: primo, che sei vuoi vedere la supplente di chimica nuda devi trovare il modo di convincerla a spogliarsi in tua presenza; secondo, che se vuoi uscire dal clima di terrore che ci hanno imposto non hai altro sistema che smettere di avere paura.

sabato 22 maggio 2021

Il dramma di Otello

 

Cari amici, il bradipo è ancora vivo. Certo, fra mascherine e coprifuoco parlare di vita è un clamoroso overstatement, come dicono a Battipaglia, ma sappiate che le mie funzioni vitali sono, grosso modo, nella norma.

Dopo il dramma di Vittorio Elia, che anni fa riscosse un discreto successo, torno dall'oblio per parlarvi di un altro dramma: quello del moro di Venezia. Come forse sapete, io ho il vizio di andare quasi sempre contro il sentire comune e le nozioni condivise; per questo vi dico che Otello NON è il dramma della gelosia, ma dell'integrità perduta.

Sì, tutti conosciamo la famosa citazione sul mostro dagli occhi verdi - la gelosia, ovviamente - che dileggia il cibo di cui si nutre. Ma ricordiamoci che quelle sono parole di Iago, il diabolico antagonista di Otello, che muove i personaggi come marionette attraverso le sue menzogne E allora, come se fossimo in una crime fiction, ricostruiamo gli eventi che hanno portato al delitto, e capiremo la verità.

Otello è un generale dell'esercito della Repubblica di Venezia, pur non essendo veneziano. Al suo servizio c'è un ufficiale, veterano di molte battaglie, di nome Iago. Nel momento in cui resta vacante un posto di prestigio nella gerarchia militare, Otello gli preferisce Cassio, un fiorentino senza molta esperienza come soldato. Insomma, un raccomandato, un damerino forestiero che non ha versato una sola goccia di sangue, né di sudore, al fianco del moro. Questo suscita la gelosia di Iago (certo, è il lui il primo a provarla), il quale architetta un piano per distruggere Otello: gli farà credere che la sua giovane moglie Desdemona, che lo ha sposato contro il volere il volere del padre e le convenzioni sociali, lo tradisce con Cassio. Due piccioni con una fava. 

Per raggiungere il suo scopo Iago sa di dover minare la fiducia di Otello in Desdemona; contemporaneamente, deve creare un motivo affinché Desdemona si mostri empatica nei confronti di Cassio. Deve, insomma, creare un'illusione coerente, credibile, che mandi in pezzi l'amore del suo generale per quella che noi sappiamo essere una ragazza non solo innocente, ma buona d'animo. Ci riesce convincendo sua moglie a rubare il fazzoletto donato da Otello a Desdemona come pegno d'amore. Il fazzoletto verrà poi usato per mettere la pulce nell'orecchio dell'uomo, quando Iago insinuerà di averlo visto addosso a Cassio. Il fatto che Desdemona interceda a favore del fiorentino presso il marito, dopo una rissa fra soldati in cui il primo era stato coinvolto, scatena i sospetti del moro. Questa è la prima picconata nell'edificio dell'amore di Otello: è così che comincia a rompersi l'integrità del suo mondo. 

Certo, da questo momento in poi, la gelosia comincerà a divorare il poveraccio, ma siamo già al terzo atto. Un altro mondo era già andato in pezzi: quello di Iago. Ed ecco che vediamo impazzire di gelosia Otello, i cui comportamenti diventano sempre più bizzarri, fino al limite del grottesco. E poi succede qualcosa di inatteso: Otello recupera la lucidità. Otello, e qui è il punto, non uccide Desdemona in un accesso di rabbia, ma in ossequio a una necessità morale. Soffocando Desdemona, che continua ad amare nonostante tutto, conta di riacquistare la propria integrità. Non si tratta di onore, no. Il vecchio generale afferma chiaramente che Desdemona deve morire, o tradirà altri uomini. Si tratta di giustizia, si tratta di rimettere a posto le cose, di fare pulizia. Il dramma di Otello, quello più vero, quello più atroce, non è il tradimento di Desdemona, ma quello di Iago, che lo spinge a privarsi di quanto di più prezioso ci fosse nella sua vita. Il dramma, insomma, può essere letto come una cautionary tale, secondo l'espressione comunemente usata a Cercola, Volla e San Giorgio a Cremano, che ci mette in guardia contro la menzogna, quel terribile veleno che corrode il tessuto della nostra integrità e ci trasforma in nemici inconsapevoli di noi stessi.

 

sabato 29 agosto 2020

Complotti e non...

 

 Buongiorno a tutti. Il mese di agosto sta finendo, settembre si avvicina, e con esso la riapertura delle scuole, per la quale tanto si stanno impegnando una pluralità di soggetti, dalla ministra ai presidi, fino ad arrivare ai soldati semplici di questo gaio esercito, gli insegnanti. Se il 14/09 è ormai dietro l'angolo, comunque abbastanza vicino è l'autunno, con la prossima ondata di influenza stagionale. Combiniamo questi due fattori, e aggiungiamoci lo stile comunicativo e la linea editoriale della maggor parte dei mezzi di informazione, e l'unico risultato possibile è il panico. Se questo ragionamento è tanto trasparente quanto scontato, ci si potrebbe chiedere per quale motivo i timonieri della nave dello Stato puntino dritto dritto contro l'iceberg, anziché virare con decisione. Bene, prendiamo le mosse da questo dubbio.

Ora, sappiamo bene come chiunque sollevi dubbi sul modo di inquadrare tutta una serie di eventi e fenomeni (dei quali il covid è solo l'ultimo in ordine temporale) venga immediatamente bollato come complottista. Per questo credo possa essere utile fare una distinzione: quella fra complotti e congiure da un lato, e qualcosa di più sottile e sfuggente dall'altro, che proveremo ad afferrare insieme con la stessa grazia e destrezza con la quale un ubriaco prova ad afferrare una farfalla; dopotutto siete nelle mani di un fesso, non ve lo dimenticate mai.

Orbene, e dico orbene, sappiamo che i complotti non mancano nella storia. Giulio Cesare non è morto cadendo dalle scale, a quanto ci risulta. La Rivoluzione Francese, da un certo punto in poi, non è altro che la cronaca di una serie di macchinazioni e tradimenti, con annessi omicidi.

 

 La congiura delle polveri ha lasciato un'impressione così viva nell'immaginario inglese da essere ricordata ogni anno, il 5 di novembre, con dei falò in cui la gente brucia oggetti non più desiderati. Ma questi complotti hanno tutti una caratteristica in comune: sono scontri fra potenti. Nessuno trama nell'ombra per accoltellare un poveraccio. Forse è questo l'elemento che rende ridicolo il complottismo propriamente detto.

Poi c'è una cosa diversa, che con i complotti c'entra veramente poco, e che  non è facile - almeno per questo fesso - definire in poche parole: chiamiamolo la capacità delle classi dominanti di orientare il discorso pubblico. Una volta si sarebbe potuto parlare di egemonia culturale, ma il mondo in cui ci troviamo a vivere è andato oltre; indebolendo i legami sociali e spingendo a tavoletta il pedale dell'individualismo, lascia i singoli soli davanti a uno schermo, terrorizzati dall'eventualità di rimanere soli, aggrappati all'unica forma di gregarietà che sopravvive ai cataclismi socioeconomici che ormai non ci danno tregua: l'identità di vedute. Siamo animali sociali, dobbiamo sentirci uniti agli altri in qualche modo. Che questo modo sia una comune fede religiosa, politica, calcistica, è poco più che un dettaglio. Abbiamo bisogno di sapere che altri esseri umani vedono lo stesso mondo che vediamo noi.

Naturalmente, l'AD di un grande gruppo industriale o finanziario non vede lo stesso mondo che vediamo noi, mi sembra chiaro. I suoi interessi non sono i nostri, i modi in cui tesse i suoi rapporti sociali e le finalità a cui essi sono ispirati sono profondamente diversi dai nostri. Ma, e questo è il punto cruciale, nel momento in cui queste persone controllano in modo capillare ed estremamente sofisticato il discorso (come è sempre accaduto in tutte le epoche, ma mai in modo così pervasivo), i loro occhi diventano i nostri. Quindi ha perfettamente ragione chi ride delle pur esistenti teorie del complotto, sostenendo che tutto avviene alla luce del sole. Certo che è così. Il punto non è cosa vediamo, ma come lo guardiamo. I giochi di prestigio, si sa, si eseguono proprio sotto il naso del pubblico.

 

venerdì 8 maggio 2020

Nelle mani di Biascica

Cari amici, ho la netta sensazione che il mondo sia oggi conteso fra due categorie di persone, delle quali non so quale sia la più temibile: gli sciocchi e gli amorali. Spesso queste due qualità coesistono negli stessi soggetti. E allora la missione del Bradipo, poiché tra l'idiozia e la sopraffazione, va detto, scarseggia anche l'esprit, è quella di intrattenervi con delle simpatiche arguzie.
Ogni tanto, lo confesso, leggo dei libri scritti fitti fitti e senza figure. Non so quale insana libido mi spinga a farlo, dal momento che viviamo in una società completamente immune alla forza delle idee, ridotte al ruolo di corredo dalla valenza estetica più o meno apprezzabile della inattaccabile etica dei cazzi propri. Mi piace però pensare che sia più serio dare pane al pane, vino al vino, e catene alle catene.
L'osservazione che vorrei fare è piuttosto semplice, e per illustrarla mi servirò di riferimenti a una serie televisiva che forse qualcuno di voi conosce, Boris. Questa serie l'ho amata, perché credo che mostri l'Italia più o meno per quello che è, e ci vogliono coraggio e bravura per raccontare la realtà, e non uno spaccato selezionato e sanificato della stessa. Ma basta con questi toni seriosi, veniamo al dunque without further ado, come dicono ad Atripalda.
Io sostengo che la storia dell'Europa dal 1989 ad oggi possa essere letta attraverso la calzante allegoria della troupe di René Ferretti. Nel 1989, in maniera inaspettata per il general public, come si suole designarlo a Cancello Arnone, viene giù il muro di Berlino. La notizia viene raccontata con trionfalismo, anche con una certa commozione di contorno, nella migliore tradizione di quella che nella parlata dell'agro nolano viene chiamata human interest story: la Germania è di nuovo una, uomini con tagli di capelli che necessitano di spiegazioni si abbracciano, le donne piangono, i giovani mostrano euforici i pezzi di sfravecatura che hanno preso al fu-muro come tanti scalpi, e le parole "libertà" e "democrazia" riecheggiano in ogni dove. Era successa una cosa molto semplice: qualcuno aveva gridato "apri tutto, Biascica!", perché la poetica del maestro in quel momento lì era la completa apertura. Ricordate la fotografia di Beautiful? Ecco, quella era la politica del neoliberismo degli anni '80, del "abbiamo l'esclusiva", del passaggio da una società densa di rapporti umani regolati e vincolanti in quanto carichi di aspettative, a una società sempre più fliuda e, infine, liquida.

Gradualmente, com'era inevitabile che fosse, ad aprire tutto, a inondare di luce un set pieno di attori cani, è venuto fuori il brutto. La soluzione è stata semplicissima: quando il dottor Giorgio faceva qualcosa di moralmente reprensibile, in realtà non era lui, ma il suo gemello cattivo. Il gemello cattivo in questione è stato chiamato, a turno o in sincrono, "fascista", "razzista", "sovranista" e via discorrendo. Strutturalmente, le stesse identiche politiche creavano la società più aperta alla differenza della storia della modernità e il degrado più abietto delle periferie, ma chi osava suggerire che, forse, si poteva anche pensare di chiudere un po', veniva immediatamente coperto di improperi, come fa  sempre Biascica con Lorenzo, lo stagista che è molto più competente di lui e di quasi tutti sul set, e proprio per questo è universalmente antipatico.

Tutto questo dare addosso a Lorenzo ha quindi un presupposto: la mancanza di professionalità e di etica professionale della troupe. Se tu a Duccio dici di aprire tutto, lui apre tutto; se gli dici di chiudere, lui chiude. Alla fine gli è indifferente. Le sue priorità, come sa bene chi conosce la serie, sono altre. Ultimamente, in modo inaspettato come era successo nel 1989, perché certi processi non sono visibili da vicino, ma solo in prospettiva storica, a Biascica è stato detto di chiudere tutto. A quella stessa regia che prima non si peritava di trasformare il set in un bagno di luce è parso opportuno regolarsi così. Adesso, se rivolete la luce, dovete accettare la poetica del maestro, la dovete smettere di rompere i coglioni. Intanto, ci hanno lasciati in mutande, come Lars von Trier. Per favore, non dite più che un'altra televisione è possibile, o il dottor Cane ci manda tutti per stracci.

lunedì 27 aprile 2020

Winston Smith col mandolino


Si sbagliava di grosso il rag. Filini quando ingiungeva a Fantozzi di "smetterla con quel mandolino, se no ci cacciano". Le strimpellate sul balcone, i "ce la faremo" (salvo poi sputare al passante di turno, si intenda), i tricolori e via dicendo sono graditissimi alle nuove classi dirigenti, che talvolta parlano tedesco, talvolta inglese, e talvolta anche italiano, ma con l'accento di Harvard. 

Cosa voglio dire? Voglio dire che mentre noi, con addosso la paura che sfocia nel ridicolo tipica del servo, infornavamo pizze mal lievitate e cantavamo in modo penosamente approssimativo Bella Ciao, c'era tutta una classe di persone che non era chiusa in casa, ma decideva, colà dove si puote, dove portarci.

Per chi non lo sapesse, Winston Smith è il protagonista di 1984, il capolavoro di George Orwell. Questo grigio ometto di mezza età, "giornalista" al servizio della menzogna, a un certo punto della sua vita non riesce più a tacitare la sua coscienza critica, il suo senso morale, e si ribella alla dittatura totale e panottica che gli è stata imposta. Insieme a una donna, con la quale sfida uno dei tabù più atroci del mondo in cui ha avuto la sfortuna di nascere, quella della proibizione dell'amore, trama contro l'ordine costituito. Purtroppo per lui, l'organizzazione alla quale si era affiliato per rovesciare la tirannide del Grande Fratello era un'esca: Julia e lui vengono arrestati, e Winston è sottoposto a orribili torture, che culminano in un lavaggio del cervello.

Ora, chi ha letto il libro si accorgerà che ci sono dei punti di somiglianza fra quella storia e l'attualità, anche se la nostra situazione mescola il comico al tragico come i migliori film di Monicelli. Andiamo dunque a elencare questi punti di contatto:
  1. la paura diffusa. Solo che i cittadini di Airstrip 1 temevano la più brutale delle repressioni poliziesche, noi gli starnuti;
  2. la psicopolizia; naturalmente, nella narrazione distopica orwelliana si veniva liquidati, qui ti trollano su Facebook;
  3. la proibizione del contatto fisico. Solo che Orwell si era limitato a immaginare un potere ostile al potenziale di sovversione di una sessualità vissuta liberamente, il metro di distanza non se lo sognava nemmeno;
  4. la penuria di generi di prima necessità: a Winston mancavano le lamette da barba, a noi le penne lisce e il papier hygiénique;
  5.  l'esistenza di un'organizzazione dal potere illimitato che mantiene un controllo assoluto e terroristico sulla popolazione: Ingsoc, il temibile Partito del perfido O' Brien nel romanzo, la comunità "scientifica" dei virologi-soubrettine da noialtri;
  6. la perdita della privacy, compromessa dai telescreens, alla quale Winston sfuggiva chiudendosi in bagno. Noi, che siamo più tecnologicamente avanzati, lo schermo che ci controlla ce lo portiamo ovunque, anche nella toilette;
  7. i due minuti di odio. Il nemico di Winston si può chiamare Eurasia o Estasia, il nostro Giulio Tarro o Stefano Montanari, ma la violenza degli attacchi è la stessa;
  8. l'esistenza di un volto familiare, di un leader paterno che veglia su di noi; solo che il Grande Fratello è un po' come il Megadirettore di Fantozzi, nessuno lo ha mai visto e non è neanche certo che esista; il nostro Giuseppi, invece, lo vediamo tutte le sere come un amico al bar;
  9. infine, come a Winston Smith, anche a noi hanno fatto il lavaggio del cervello. Poiché abbiamo un coraggio paragonabile a quello di Alberto Sordi in divisa, non c'è stato bisogno di torturarci con la corrente elettrica o con un topo dentro un cappuccio; è bastato farci vedere un reparto di terapia intensiva pieno di gente moribonda. Caspita, chi l'avrebbe mai detto che in terapia intensiva la gente muore... 
Bene, ora mi preparo all'arrivo della psicopolizia ripassando un po' il mio doublethink

L'ignoranza è forza.
La guerra è pace.
La libertà è schiavitù.

Era così, no?