sabato 22 ottobre 2011

Vivere in uno stadio


Signore e signori, buonasera. Mi dite che è ancora giorno? Da un punto di vista strettamente astronomico, può darsi. Ma per questo paese è notte fonda. L'argomento di cui vorrei parlarvi oggi è l'estrema faziosità del popolo italiano. Così estrema da precludere qualsiasi possibilità di reale dialogo, di vero confronto. Noi siamo tifosi intrappolati in uno stadio. La nostra identità si risolve per buona parte nei colori che portiamo, nella curva in cui ci stringiamo ai nostri compagni di tifo.

Ho scelto come foto introduttiva del post la curva dell'Hellas Verona perchè ritengo quella tifoseria e quell'ambiente, più in generale, un perfetto esempio di faziosità indifendibile. Avrete sentito e letto del vergognoso coro razzista intonato in occasione della presentazione della squadra dal suo allenatore Andrea Mandorlini, subito seguito dalla tifoseria e dai suoi giocatori. Ecco, il fatto che non solo gli ultrà, protetti dall'anonimato e mossi da dinamiche tipiche degli eventi e movimenti di massa; ma addirittura l'allenatore, i giocatori, lo staff di quella società abbiano pensato di poter cantare "terrone ti amo" e non essere travolti da virulente polemiche è indicativo dell'assoluta mancanza di oggettività e senso del fair play. Che queste persone nemmeno si rendessero conto dell'inaccettabilità di ciò che facevano è dimostrato dalla reazione sorpresa di Mandorlini alle accuse di razzismo.

Giorni fa leggevo di un'indagine della magistratura sul nuovo stadio della Juve, che pare sia stato costruito con materiali  non conformi alle norme. La notizia era stata condivisa da un amico su Facebook, e prontamente due o tre persone avevano lasciato commenti che in un paese normale li avrebbero messi ipso facto fuori dal consesso civile, e invece in Italia passano per ragionamenti pertinenti e arguti. I magistrati ce l'hanno con la Juve, si riapre la ferita di Calciopoli e via dicendo. Chissà se la ditta (o le ditte) coinvolte si sono preoccupate del destino della povera Vecchia Signora, qualora fossero venute alla luce le loro magagne. Viene da chiedersi anche per quale squadra tifassero i costruttori delle case di sabbia dell'Aquila. Questo, sempre perchè viviamo in una curva da stadio; altrimenti penseremmo che un illecito è un illecito, non c'entra niente con la squadra del cuore, o con la fazione politica di riferimento. Naturalmente la magistratura valuterà se esistano le condizioni per istruire un processo o prendere altre misure repressive o restrittive. Nel frattempo il sindaco Fassino si è attivato per assicurare che la squadra possa continuare a giocare in uno stadio che potrebbe avere serie debolezze strutturali.

Sempre all'interno di questa logica possiamo leggere la reazione mediatica e d'opinione ai fatti di Roma, in particolare alle gesta di quello che è diventato un'icona di questa epoca di confusione e generico malessere: Fabrizio Filippi, in arte er pelliccia. Io non guardo quasi mai la televisione. Ormai la accendo solo per le partite di calcio o il Sei Nazioni. Qualche volta Santoro, che però ritengo prigioniero di un format (peraltro lanciato proprio da lui molti anni fa con Samarcanda) che rende praticamente impossibile lo svolgimento di un dibattito serio e maturo. Sì, Santoro ha capito che l'Italia era uno stadio, e si è inventato un brillante modello di trasmissione "di approfondimento politico" che incanala proprio le dinamiche più care agli italiani. Quello che mi arriva, della TV italiana, mi arriva tramite Facebook. 
E proprio tramite un link ho avuto modo di assistere a uno spezzone di una trasmissione Mediaset, mi pare, con un conduttore assurdamente incompetente, in cui da una parte erano schierati Landini, Bernocchi e Ferrero, dall'altra Sallusti. 
Presto il dibattito è degenerato, e dall'estintore scagliato dal Filippi si è passati a discutere di un altro estintore, questo mai lanciato, perchè colui che lo brandiva fu raggiunto da un proiettile alla testa. Parlo naturalmente di Carlo Giuliani, l'uccisione del quale Alessandro Sallusti è arrivato non solo a giustificare ma addirittura a elogiare. Ovvio che a quel punto confrontarsi è diventato impossibile, e la trasmissione è degenerata in una rissa verbale.

Ma l'esempio più eclatante della nostra faziosità negli ultimi tempi è, a mio parere, la risposta della Rete al linciaggio di Muammar Gheddafi.
Gira una foto, condivisa da un numero di persone rispettabilissimo, che recita nel titolo "perchè abbiamo ucciso Gheddafi". Sarebbe il caso di puntualizzare che Gheddafi non lo abbiamo ucciso noi, a meno che l'autore dell'immagine non si identifichi nei ribelli che hanno sparato all'ex leader libico. C'è poi una notizia, assolutamente non corroborata da alcuna fonte, secondo cui Gheddafi sarebbe stato ucciso perchè stava cercando di liberare l'Africa (insieme ad altri simpaticoni identificati vagamente come "capi di stato del Nord Africa") dalla dittatura economica del FMI. Anche le rivoluzioni colorate di Egitto e Tunisia sarebbero dunque da inquadrare in una grande offensiva delle forze oscure del capitalismo per stroncare sul nascere una nuova stagione di socialismo islamico. 
Bene, adesso proviamo a guardare in faccia la realtà. Per quanto riguarda Egitto e Tunisia, abbiamo assistito a mobilitazioni di massa, centinaia di migliaia di persone scese in piazza anche a rischio di farsi sparare addosso. Insomma, non certo uno dei raduni anticastristi di Miami a cui partecipano quattro gatti sotto l'egida praticamente esplicita della CIA. 
In Libia Gheddafi governava da circa quarant'anni, durante i quali è riuscito a mantenere il suo popolo in un tale stato di arretratezza da ritrovarsi impantanato in una guerra civile di tipo tribale. Certo, c'erano elementi di socialismo nell'architettura economica e sociale della sua Libia; ma se in 40 anni di governo ininterrotto non riesci a cementare il tuo popolo, a farlo sentire partecipe di un unico destino, affratellato dalla convivenza e dalla condivisione di una lingua, una cultura, e un senso di appartenenza alla stessa comunità nazionale, allora il tuo è la schifezza del socialismo.
La guerra in Libia è scoppiata prima dell'intervento delle potenze occidentali, quando Gheddafi ha iniziato a bombardare una delle città del suo paese. Questa è la realtà. Fin quando il Colonnello ha avuto la situazione sotto controllo, i leader europei si sono guardati bene dall'andare a svegliare il proverbiale can che dorme. Bastava che ci vendesse il suo petrolio. Certo, siamo intervenuti per quello, non per difendere gli insorti di Misurata. Ma perdonatemi, trovo un po' di incoerenza nel fatto di criticare aspramente (e giustamente) il nostro Presidente del Consiglio per come si rapporta al genere femminile  e poi elogiare un cavernicolo che si presenta a Roma con tanto di amazzoni al seguito, e si fa procurare uno stuolo di belle ragazze dall'amico erotomane; indignarsi per la censura che il nostro governo prova ad attuare contro la Rete, e poi fare agiografia di un uomo che risponde al dissenso con le cannonate.


Insomma, siamo prigionieri di logiche di sterile contrapposizione. Sarebbe il caso di riflettere sul fatto che pochissimi uomini, nel corso della storia, sono stati in grado di prevedere dove andava il futuro. Non parlo di divinazione, naturalmente, ma della capacità di capire come si evolve una società, un sistema economico, un dibattito culturale e politico; questo perchè il futuro arriva quasi sempre da una direzione imprevista. Rimanere intrappolati in un noi contro loro è inutile e controproducente, perchè l'avvenire, qualsiasi esso sia, sarà lo stesso per tutti. E allora mi chiedo perchè non smettere di essere spettatori di partite in cui non abbiamo niente da vincere o perdere, e uscire da questo stadio che è l'eterno presente in cui ci hanno chiusi.

lunedì 17 ottobre 2011

Fantozzi, Folagra e il sanpietrino


Ieri ho pubblicato un post in cui facevo notare quanto fosse assurdo, all'indomani di una manifestazione come quella di due giorni fa, insistere solo e ossessivamente sugli incidenti causati da poche centinaia di persone, a fronte di una marea di gente che è sfilata in modo ordinato e composto. Facevo notare come quelle violenze sporadiche e circoscritte fossero poca cosa in confronto alla violenza sistematica di un sistema economico che ormai ha gettato la maschera e si dichiara per quello che è, ovvero il più sofisticato e spietato piano criminale nella storia del genere umano. Proprio in virtù del fatto che i nodi stanno venendo al pettine, un numero sempre crescente di persone sta cominciando a rendersi conto che c'è qualcosa di seriamente disfunzionale nel nostro modo di vivere. Il malessere che fino a poco tempo fa riusciva difficile da identificare e spingeva persone sole e confuse verso soluzioni individuali come la New Age, le religioni orientali o i molto più banali e tradizionali droghe e alcol, oggi sta assumendo contorni un po' più precisi. Come tutti i sistemi che l'hanno preceduto, il capitalismo è entrato in un fase di declino, che inevitabilmente si concluderà con la sua trasformazione in qualcosa di diverso.

Naturalmente, come è sempre avvenuto nella storia, le classi dominanti non stanno a guardare mentre i fondamenti della loro supremazia vengono messi in pericolo. Siccome il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza che chiamiamo "capitalismo" è fondato, perlomeno nella sua variante occidentale, sul consenso popolare (per quanto estorto con raffinate tecniche di disinformazione e distorsione dei dati reali), può resistere solo nella misura in cui mantiene un minimo di credibilità presso l'opinione pubblica. Nel momento in cui il proverbiale "uomo della strada" arriva a pensare che un dato ordine socioeconomico non solo non è il migliore possibile, ma neanche il male minore, per il capitalismo è finita. Semplice. La chiave di volta del cambiamento - sembrerà prosaico ma è così - è la classe media. 

Questo lo sanno bene i giornalisti, il cui mestiere consiste proprio nell'orientare l'opinione pubblica e, in una fase come questa, soprattutto il dissenso. Nell'instradarlo su binari morti. Significativo, ad esempio, che chiunque metta in luce la sostanziale identità di posizioni fra centro-destra e centro-sinistra venga tacciato di qualunquismo. Non si portano argomenti per confutare l'affermazione (del resto non ce ne sono), ci si limita a screditare chi ha prodotto l'enunciato. A questo proposito fa d'uopo riconoscere il merito del marchese Fulvio Abbate, che dalla sua Teledurruti ha fatto coraggiosa professione di qualunquismo, ricordandoci l'assenza e il susseguente silenzio del centro-sinistra rispetto alle ragioni del 15 ottobre, e concludendo che sono tutti - cito a memoria - dei "burocrati di merda". E se entra in crisi l'illusione della rappresentanza sono cazzi per tutti.

Molti altri, purtroppo, hanno seguito ingenuamente un altro tipo di dinamica. Sfortunatamente, proprio il tipo di dinamica che i mezzi di comunicazione "ufficiali" si sono sforzati di innescare e alimentare. Una dinamica che è a mio giudizio meravigliosamente esemplificata da una delle disavventure più pregne di senso filosofico e politico del rag. Fantozzi: il suo incontro con il Folagra, e la conseguente adesione all'ideologia e alle prassi della sinistra extraparlamentare, così come si esplicavano nei tardi anni Settanta.




Folagra è un comunista di quelli vecchio stampo, dalla folta barba, l'espressione intrisa di amarezza e il linguaggio praticamente incomprensibile, al limite del grammelot. Illuminato dall'incontro con lui, Fantozzi si dedica per tre mesi a "letture maledette", fino a rendersi conto di essere stato sempre sfruttato dalla megaditta, come qualsiasi altro lavoratore del mondo. Il povero ragioniere "si incazza come una bestia"; ma che fare? E' stato proprio il Folagra a indicargli uno sbocco per tutta la sua rabbia, in un farraginoso discorso che ha concluso affermando: "è a monte che dobbiamo distruggere." 

Quello che segue è una delle scene più amare e patetiche (e al contempo ciniche e sarcastiche) di tutta la saga cinematografica. Fantozzi va al lavoro con un sanpietrino avvolto in un foglio di giornale, e dopo aver fatto tragica professione del suo status di vittima scaglia il rudimentale proiettile contro una finestra della sede aziendale. Immediatamente tutti i colleghi si dileguano, e il Megadirettore spunta  come una sorta di apparizione soprannaturale, dietro la vetrata dell'ingresso. Fantozzi viene quindi portato nell'ufficio del dirigente, per subire un clamoroso lavaggio del cervello che alla fine lo vedrà supplicare il suo aguzzino di lasciargli fare la parte della triglia nel suo  acquario dei dipendenti.

Come può Fantozzi distruggere a monte, armato di un semplice sanpietrino? La sua non può essere che un'espressione di forte disagio, non certo un gesto rivoluzionario. Fornisce al padrone il pretesto per colpire in lui il dissenso, e aliena le potenziali simpatie dei colleghi. Questo è uno script che ha caratterizzato tutta la storia della sinistra antagonista italiana, e che l'ha messa essenzialmente in fuorigioco insieme alle sue posizioni, anche quelle giuste e condivisibili. Lo stesso che vediamo in azione in un'intervista a un "black bloc" pubblicata oggi da Repubblica, giornale chiaramente dedito a demonizzare le anime più radicali del multiforme dissenso che sta attraversando il nostro paese. Lo fece il 14 dicembre scorso con un memorabile editoriale di Don Saviano, e lo ha fatto di nuovo in occasione del 15 ottobre. Se, dopo aver letto le farneticazioni di questo idiota, io ne auspicavo mentalmente l'imminente arresto con la conseguente neutralizzazione del pericolo che chiaramente rappresenta per la collettività, figuriamoci un moderato.

Le auto e le camionette bruciate, le vetrine delle banche sfondate, e tutti gli altri danni fatti a Roma l'altro ieri sono come il sanpietrino di Fantozzi: servono solo a danneggiare le giuste idee e istanze di chi è sceso in piazza per costruire un'alternativa all'esistente, non per giocare a fare la guerra. C'è però una differenza: Fantozzi almeno era a volto scoperto. Lui ha commesso un gesto prometeico, per quanto patetico nella sua inefficacia. I deficienti di Roma no. Loro hanno seguito l'antica strategia dello scagliare la pietra e nascondere la manina. Alla fine tanto, loro lo sanno, chi ci rimette le penne sono gli altri, i più ingenui, quelli che non hanno capito che si fa per giocare. Folagra parla di distruggere a monte; ma poi è Fantozzi che lancia il sanpietrino e subisce la repressione. E allora io suggerirei a tutti i Fantozzi come me (e siamo tanti) di lasciar perdere i Folagra (che sono pochi) , e pensare a come si possa agire per smettere di essere vittime.

domenica 16 ottobre 2011

Il cane, la catena e il morso

Immaginate un cane perennemente legato a una pesante catena di metallo; immaginate un padrone che lo maltratti sistematicamente, picchiandolo, affamandolo, gridandogli contro, lasciandolo fuori al freddo, alla pioggia, negandogli ogni conforto. Immaginate che però questo cane si sia per qualche ragione convinto che sia normale tutto questo. In quanto cane, questo è il suo destino. Accetta la sua dura sorte con pacifica rassegnazione, e prova perfino gratitudine quando il padrone gli tira un osso da spolpare, di tanto in tanto.

Poi, a un certo punto, e per ragioni che il cane non riesce a comprendere, la situazione peggiora. Il padrone non gli tira più neanche più quello sporadico osso da spolpare, ma se lo tiene per sè. Non lo porta più a spasso, a fare i suoi bisogni, è tutto preso dai suoi problemi, dei quali il cane può solo cercare di indovinare la natura. Un giorno il padrone esce in giardino e sottrae al cane la sua ciotola, con quello poco di cibo che c'è dentro. Il cane ormai ne ha abbastanza, e lo morde. Non è un morso di quelli che ti staccano le dita, è solo una reazione di rabbia, un leggero stringersi delle fauci che il padrone sente appena.

Immaginate che, il giorno dopo, il vicinato non parli che di quel morso, e della ferocia del cane che se ne è reso responsabile. Ma dov'erano i vicini fino a quel momento? Non sanno di tutte le angherie che il cane è stato costretto a subire dal padrone? Per quale motivo vedono la ferocia del cane, occasionale e senza serie conseguenze, e non la fredda, calcolata, odiosa violenza del padrone che lo ha ridotto pelle e ossa, e ne minacciava la stessa sopravvivenza? Semplice: perchè sono esseri umani, padroni di cani, e quindi portati a solidarizzare con un loro simile, piuttosto che con il cane.

Ieri a Roma si sono verificati alcuni episodi di violenza. Roba da poco, checchè ne dicano i media, rispetto alla inusitata, disumana violenza di un capitalismo che per sopravvivere non esita a mettere mano alla ciotola del cane. Se oggi leggiamo tante condanne di quella violenza (che, ben inteso, è pur sempre esecrabile), è forse perchè i nostri mezzi di comunicazione sono come il vicinato di cui sopra: sono la voce dei padroni, non dei cani.

Cerchiamo di non farci infinocchiare. La violenza di piazza è un errore perchè non produce risultati politici e perchè non può essere indirizzata verso i suoi veri obiettivi. Perchè non fa veramente male. Non perchè non sarebbe giustificato ricorrervi, contro un ordine sociale ed economico che è diventato chiaramente indifendibile. Ma rendiamoci conto che chi, dopo una mobilitazione come quella di ieri, parla del morso del cane, sta parlando nell'interesse del padrone. 


sabato 15 ottobre 2011

La sorella di Shakespeare e il fratello di Parascandolo


Cari adepti, non ricordo se vi ho già parlato della sorella di Shakespeare, questo personaggio di fantasia frutto del genio di Virginia Woolf. Calmi, perchè scappate in ogni direzione? Chi ha paura di Virginia Woolf? Insomma, ricomponetevi e prestatemi le vostre retine. La sorella di Shakespeare è, secondo la Woolf, una donna dotata delle stesse abilità e delle stesse ambizioni del fratello William. Lei, però, vive in una società che non concede spazio alle donne, se non all'interno di rigidi schemi e ruoli prestabiliti. Pertanto, lasciando Stratford-upon-Avon per Londra, la poverina si condannerebbe non solo al fallimento artistico, ma addirittura alla prostituzione o alla follia.  Che altro potrebbe fare una donna sola a Londra, alla fine del Cinquecento? C'è anche una bella canzone degli Smiths ispirata a questa figura.

Facendo un piccolo salto culturale e concettuale, passiamo da Virginia Woolf a Così parlò Bellavista, per incontrare il fratello di Parascandolo. Vi ricordate Parascandolo, il batterista che accompagnò il famoso cantante Gennarino Savastano nel suo tour di Campania, Basilicata e Puglia? Bene, suo fratello è un fruttivendolo dall'aria non troppo sveglia. Però è il fratello di Parascandolo, e questo basta per essere ospite in una trasmissione di una piccola emittente locale. 

Secondo me questi due personaggi possono essere la chiave per capire l'Italia di oggi. Noi viviamo in un paese pieno di fratelli di Parascandolo, molti dei quali sistemati in posizioni di potere e responsabilità; le sorelle di Shakespeare, d'altro canto, non scarseggiano, ma essendo tali sono condannate alla prostituzione o alla follia. 
 
Io, per esempio, sono una sorella di Shakespeare. Per la mia creatività e la mia vulcanica simpatia meriterei ben altro che una stanza tutta per me; meriterei un fottutissimo vitalizio, e lo ius primae noctis su tutte le fanciulle del regno. Ma voi che rendete omaggio in modo anche un po' eccessivo e stucchevole al papà dell'iPod e dimenticate l'inventore del cavatappi non meritate altro che il fratello di Parascandolo. Per quanto mi riguarda, prenderò alloggio al Bethlem Royal Hospital, volgarmente detto Bedlam, e mi dedicherò a questo blog ed altre amene iniziative volte ad affermare il mio genio di fronte a una totale assenza di interlocutori. Nelle pause ricreative scaglierò le mie feci contro muri di gomma o, qualora ne abbia a portata di tiro, contro i secondini. Quando ne avrete avuto abbastanza dei fratelli di Parascandolo, venitemi a prendere. Ma badate bene: non mi muovo se non mi date il vitalizio. E non dimenticate lo ius primae noctis.


venerdì 14 ottobre 2011

Non si trova mai un lanzichenecco, quando serve...




Nel 1527 l'imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V d'Asburgo, scende su Roma alla testa di un esercito di lanzichenecchi e la saccheggia. Chi erano i lanzichenecchi? Secondo Wikipedia: 

"I lanzichenecchi erano dei soldati mercenari di fanteria provenienti dalle regioni del Sacro Romano Impero, che combatterono tra la fine del XV e la fine del XVII secolo." 

E così continua l'enciclopedia libera (che ci auguriamo rimanga online in secula seculorum): 

"Il termine deriva dal tedesco Landsknecht, cioè servo della regione (Land = terra, patria + Knecht = servitore), non era raro infatti che, con l'indebolirsi dei legami di servitù feudale tipico del periodo rinascimentale gli appartenenti a quell'umile ceto sociale tentassero la fortuna aggregandosi in compagnie mercenarie, sperando di arricchirsi con la rapina e il saccheggio."

In breve, immaginate uno Scilipoti più aitante e avvezzo all'uso dell'arma bianca, fategli indossare un buffo costume dai colori sgarcianti, e otterrete un lanzichenecco. Questi opportunisti del genocidio sono stati l'ago della bilancia su molti campi di battaglia europei nel periodo rinascimentale e nella prima Età Moderna. Al soldo di un sovrano spregiudicato e ambizioso hanno devastato la Città Eterna, vi hanno seminato la peste ed altri ameni morbi, l'hanno spogliata dei suoi tesori e l'hanno infine abbandonata dopo circa un anno di scorribande e ineffabili violenze. E poi un'assenza inspiegabile durata quasi cinquecento anni. 

Cari lanzichenecchi, non so dove voi siate in questo momento, nè cosa stiate facendo. Forse sorseggiate gustose birre al frumento nei biergarten di Monaco, o accompagnate i vostri figli in uno degli asili nido pubblici e assolutamente gratuiti di Berlino. Forse, in questa epoca di pacatezza e distacco, vi siete imborghesiti. Ma ricordatevi della vostra storia, ve ne prego. Oggi come allora, l'Italia è la pattumiera morale d'Europa. Allora metteste in fuga il laido pontefice Clemente VII, con la vostra baldanza e il vostro spirito da Giamburrasca luterani e molestamente ubriachi. Fate altrettanto con Silvio Berlusconi. Come potete constatare, è la Divina Provvidenza che ve lo chiede. Noi da soli non riusciamo a liberarcene. Ogni volta che sembra stia per cadere, si compra i voti di qualche disgraziato, proprio come li comprò il papa Borgia al conclave che lo vide ascendere al soglio di Pietro. Non è forse questa una forma di simonia? Cosa devo dirvi ancora, per convincervi a scendere una seconda volta su quella città blasfema e invisa al Signore?

Affinchè non disperdiate le vostre energie convergendo su obiettivi di scarso rilievo, vi fornisco anche indicazioni precise. Ecco dove si nascondono i vostri e i nostri nemici:


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E adesso, corpo di mille bombarde, andate a prenderli, e fateli a pezzi. Roma delenda est!

domenica 9 ottobre 2011

Pezzenteria di ritorno


Qualcuno di voi avrà sentito parlare dell'analfabetismo di ritorno, quel fenomeno per il quale persone pur scolarizzate regrediscono culturalmente a causa della pigrizia intellettuale e della mancanza di interessi. A questo problema è facile ovviare, soprattutto oggi che l'accesso alla produzione culturale è facilitato (e reso più accessibile anche economicamente) dalla Rete e dalle pratiche di sharing. 

Ma vi è un altro spauracchio ad attenderci nell'ombra dei vicoli maleodoranti e loschi di questa crisi economica senza fine: la regressione a uno status sociale inferiore a quello delle famiglie in cui siamo nati; la rinuncia al prosciutto crudo; la necessità di praticare altri due o tre fori alla nostra cintura, e vivere in una costante precarietà in appartamenti di periferia condivisi con altri cinque o sei disperati come noi. Ecco cosa intendo per pezzenteria di ritorno.

Io, come credo la maggior parte di voi, ho passato la mia infanzia circondato da un'abbondanza di cose, molte delle quali superflue; ma se Voltaire non s'inganna, il superfluo è qualcosa di assolutamente necessario. Dopo aver speso questa frase da incarto dei cioccolatini, mi spiego.

Io ho sempre avuto un tetto sulla testa, e ho sempre trovato un piatto a tavola, due volte al giorno. A periodi l'ho fatto da me (possedendo le risorse economiche per farlo), più spesso lo hanno fatto per me. Sono andato a scuola, poi all'università, ho frequentato corsi di formazione, tutto nella speranza di ottenere quello che fin da bambino vedevo come un obiettivo che era sacrosanto porsi: la realizzazione professionale ed economica; e, attraverso quella, la realizzazione di altre aspirazioni, più profonde, ma che devono necessariamente poggiare sulla solidità di un reddito più o meno costante e minimamente adeguato. 

Mentre crescevo, il mondo si è trasformato. Attraverso operazioni propagandistiche e mediatiche da quattro soldi (ma più che sufficienti a convincere masse prive di informazione e consapevolezza) si è sdoganata l'idea che l'economia debba essere lasciata libera di funzionare senza interferenze, di arrivare ai suoi verdetti senza che questi vengano messi in discussione, perchè i mercati non possono sbagliare. Nel post precedente parlavo del compromesso vittoriano; mi pare che si stia ritornando a una concezione simile del vivere sociale. Molto, se non tutto, è sacrificabile in nome di uno sviluppo grottescamente asimmetrico.

Una delle prime cose ad essere sacrificate è stato il diritto al lavoro. Per un lungo periodo nella storia del capitalismo, era comunemente accettata l'idea che fosse necessario mantenere livelli accettabili di occupazione, se non altro perchè i lavoratori sono anche consumatori, e se non hanno denaro da spendere ciò che producono non potrà essere venduto. Oggi sembra che si stia prendendo una direzione diversa: il capitale non chiede più semplici consumatori, ma debitori, vacche da mungere, limoni da spremere. Come possa evolversi una dinamica di questo tipo a me personalmente sembra ovvio, ma la politica è ormai paralizzata, e la società civile è stanca, sì, incazzata, sì, ma non matura per superare questo sistema, che ormai dimostra in modo palese di non essere in grado di generare un qualsivoglia ordine che sia degno di tale nome. Del resto come meravigliarsi, se un sistema basato sull'avidità e la sopraffazione produce miserie e squilibri?

Scusate la digressione, torniamo al nostro pezzente di ritorno. Istruito, umanizzato dal suo percorso formativo (perchè uomini, a differenza che signori, non si nasce ma si diventa), si affaccia al mondo con le sue aspirazioni, i suoi bisogni, e i suoi sogni. Un fardello che ha accumulato con tempo e fatica, e al quale non rinuncia facilmente; perchè, inutile che mi diate dello snob, sa bene che il Grande Fratello, Vasco Rossi, il gossip e tutto ciò che riempie il tempo e le vite dell'italiano medio sono come gli stronzi di Carnevale: sono cacca, e per giunta fasulla. 


Ma dove si avvia questo povero fesso? I soldi non te li danno certo per la tua umanità, la tua cultura, la tua simpatia (nel senso greco della parola) nei confronti del prossimo. Te li danno nella misura in cui sei utile a determinati rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza. E, da quel punto di vista, la tua situazione è adeguatamente espressa dall'immagine di cui sopra. Il mondo, sempre per non distaccarsi da questa tanto bella metafora, è degli stronzi.

Pazienza, mi direte. Trovati una stanza in qualche fatiscente baracca e accetta la tua condizione. Eh, no. Non è così facile. Perchè non è solo al prosciutto crudo che devi rinunciare. Devi rinunciare alla possibilità di tenere insieme le fila della tua vita. Devi assistere impotente alla diaspora di amici e conoscenti, colpevoli solo di un "peccato di latitudine". Devi subire la precarietà non solo del tuo lavoro e del tuo salario, ma delle relazioni umane che sono inevitabilmente condizionate dai rapporti economici. Devi subire lo scippo di ogni potere su te stesso, se non quello di una irriducibile quanto inane libertà di pensiero. Sei come lo schiavo nelle proverbiali piantagioni di cotone prima della Guerra Civile Americana: cantatelo quanto vuoi, questo blues che è la tua dimensione interiore. Alla fine non è che la colonna sonora della tua cattività. Non vedrai mai Miss Liza, nè il Mississipi...

giovedì 6 ottobre 2011

William Godwin, l'arcivescovo di Canterbury, Steve Jobs e...tua mamma.


Vi assicuro, cari amici, non mancano nella mia vita motivi di tristezza e rammarico. Ed è con invidia che prendo atto della valanga di post e link dedicati stamattina su Facebook alla morte di Steve Jobs. Sì, invidia, perchè se queste persone riescono ad essere dispiaciute per la morte di un completo estraneo vuol dire che le loro vite sono quello che in inglese si chiama un bed of roses. Tutte rose e fiori. Talmente prive di dolore da creare il bisogno di provarne per la scomparsa di una persona che non hanno mai conosciuto. Vale la pena a questo punto distinguere fra quelli che hanno voluto ricordarne il lavoro (sicuramente importante) e quelli che invece l'hanno ricordato come se fosse morto un loro caro.

Potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma forse sarà meglio ricordare che il rapporto fra noi persone qualsiasi e le celebrità come Steve Jobs è un rapporto fortemente asimmetrico: se io vedo Maradona per strada lo riconoscerò immediatamente e sentirò un afflato di amore e lussuria nei suoi confronti, visto che sono cresciuto guardandolo giocare e farci vincere due scudetti, una Coppa Uefa e altro ancora; lui, invece, non sa chi io sia. Per lui io non rappresento niente. Scontato, certo. Ma era opportuno esplicitarlo.

Il 1793 vide la pubblicazione di un'importante quanto poco conosciuto trattato di filosofia politica, il Political Justice di William Godwin. In esso Godwin, uno dei pionieri del pensiero anarchico, individua il fondamento morale di una società equa nel libero esercizio della ragione, rifiutando qualsiasi categorizzazione di bene e male come concetti assoluti, e assumendo invece una posizione utilitarista: è buono, dal punto di vista sociale, ciò che arreca il massimo beneficio al massimo numero possibile di individui. Da qui la convinzione, che può apparire ovvia a noi, ma non lo era affatto per i suoi contemporanei, che l'organizzazione politica di una comunità debba avere come fine l'estensione dei frutti del benessere e del progresso a tutti i suoi membri. Quanto apparisse estrema questa concezione alla fine del '700 in Inghilterra (non dico in Inculandia, ma nel paese allora più progredito e più libero del mondo) è dimostrato non solo dalle violente critiche che ricevette l'opera di Godwin, ma anche dal fatto che l'epoca vittoriana, qualche decennio più tardi, avrebbe visto l'affermazione più o meno esplicita di un principio ben diverso: la povertà, il degrado, l'infelicità a cui nascevano destinate le masse di sfruttati che trasformarono la Gran Bretagna in un impero sul quale il sole non tramontava mai erano un prezzo inevitabile e tutto sommato ragionevole da pagare, in cambio di un progresso socialmente selettivo. Di solito un compromesso si raggiunge fra due parti. Il compromesso vittoriano invece è paragonabile al gesto di qualcuno che ti taglia un braccio, ma poi si giustifica dicendo che serviva per sfamare i suoi cani.

Dunque, condivisibile il pensiero di Godwin (e io lo condivido pienamente), se non che... se non che, per spiegare questa sua posizione, il filosofo inglese usa un esempio che io reputo clamorosamente infelice. Immaginate di trovarvi di fronte a una casa in fiamme, ci dice. All'interno della casa ci sono vostra madre e l'Arcivescovo di Canterbury: chi salvate? La risposta di Godwin è che la scelta moralmente più giusta è salvare l'Arcivescovo di Canterbury, in quanto più "utile" alla società nel suo complesso, e quindi meritevole di essere preposto alla nostra cara mammina. Si tratta di un pessimo esempio perchè non tiene conto delle relazioni affettive che esistono fra membri della stessa famiglia. L'uomo non vive di solo pane, nè di sole fredde idee. Per capire quella che a prima vista potrebbe sembrare un'aberrazione, dobbiamo considerare che Godwin è appartenuto a una cultura che oggi pratica il culto dello stiff upper lip, figuriamoci allora; esistono inoltre anche elementi biografici che ci fanno pensare a un uomo piuttosto cerebrale e contenuto nelle sue passioni. Meno male, quindi, che la povera madre di William non si è mai ritrovata in una casa in fiamme insieme all'Arcivescovo di Canterbury.

Oggi nessuno di noi, credo, avrebbe dubbi sulla risposta al dilemma che ho riportato. Le persone a cui vogliamo bene sono più importanti degli estranei, a prescindere dai meriti di questi ultimi. Eppure le mie gonadi oggi sono rigonfie di innumerevoli in memoriam dedicati a questo signore che io proprio non vedo perchè dovrei piangermi. Ed è proprio quando le mie gonadi si gonfiano che sento con maggiore intensità e pathos la mancanza di un affetto nella mia vita, che regoli la pressione delle mie gonadi come una sorta di gommista dell'amore terreno...

E allora, mentre voi piangete per Steve Jobs, io dedicherò un pensiero al mio criceto e ai miei due pesci rossi scomparsi durante la mia infanzia, nessuno dei quali ha inventato il Mac o l'I-pod, ma che perlomeno hanno fatto parte della mia vita. Per quanto riguarda la mia cara mamma, starò ben attento a tenerla lontana da fiamme libere e fonti di calore.



mercoledì 5 ottobre 2011

Il Manhattan di René Ferretti


L'Italia è un bel paese. Un bel paese nel senso che è ricco di bellezze paesaggistiche, artistiche, vi si mangia e beve bene. Quello che lo rovina è la sua storia. Forse perchè, come ebbe a dire Mario Monicelli, non abbiamo mai avuto una bella rivoluzione. Dal Medio Evo ad oggi siamo andati avanti senza soluzione di continuità, sono cambiati i confini degli stati, le forme di governo, ma le strutture sociali sono rimaste profondamente arretrate. In questo paese non esiste l'individuo. Esistono famiglie, clan, gruppi di interesse. L'espressione del sè è virtualmente impossibile. 
Il singolo è costretto a operare all'interno di reti, dalle maglie strettissime, che si frappongono fra lui o lei e la collettività intesa nel senso più ampio. Mors tua, vita mea. Siamo ancora lì. Il risultato è che, se Tizio o Caio può di volta in volta beneficiare di tali dinamiche, il paese nel suo insieme ne è immensamente danneggiato, e viene annichilito in modo perentorio e spietato ogni tentativo di realizzare le proprie aspirazioni personali, di vivere secondo la propria natura e il proprio sentire. Di fare qualcosa che non sia previsto dal canovaccio secolare dell'opportunismo asservito al potere.

Del resto si tratta di un tema presente, se non centrale, nell'opera di scrittori e drammaturghi di primo piano del tardo Ottocento e Novecento, da Verga a Pirandello ed Eduardo, per citarne solo qualcuno. L'idea che per essere liberi bisogni morire è presente nel Fu Mattia Pascal, con il finto decesso inscenato dal protagonista per sfuggire a una famiglia che lo sta distruggendo, come ne Le voci di dentro, nella figura di Zi' Nicola, o nella famosa "pace senza morte" che il grande Eduardo cercava in una sua celebre poesia. Ma non si può guardare sempre dietro (un altro difetto molto italiano), la bellezza e il senso vanno ricercati anche nel presente. E quindi oggi parleremo di quel miracolo della televisione italiana che è stato Boris.

La serie, per chi non la conoscesse, è incentrata sul lavoro del regista televisivo René Ferretti e della sua squadra, alle prese con l'ingrato compito di girare fiction che vadano incontro all'inquietante gusto del pubblico televisivo italiano medio. Il set sembra una caserma, con le sue rigide gerarchie e il suo nonnismo, chi ci lavora lo fa male o di mala voglia, gli unici a mostrare un po' di entusiasmo e impegno sono in genere gli stagisti. 

Nella terza e ultima serie vediamo uno sviluppo: Renè, che fino a quel momento aveva sostanzialmente accettato di girare merda, limitandosi a salvare il salvabile, decide di provare a fare un'altra televisione. Così nasce il progetto Medical Dimension, una serie che dovrà rompere con il passato e parlare un nuovo linguaggio. Purtroppo, però, in un grottesco e geniale colpo di scena, scopriamo che questo progetto era stato avviato con il preciso intento di farlo naufragare, da parte della stessa rete televisiva che lo ha finanziato. Lo scopo era quello di dimostrare che un'altra televisione non è possibile, dando quindi licenza agli addetti ai lavori di continuare a produrre merda, mettendo a posto la coscienza con la scusa che il pubblico non desidera che quella. La coscienza di Renè, invece, è scossa, come è scossa la sua etica professionale (della quale conserva nonostante tutto qualche traccia), per non parlare del suo orgoglio e del suo entusiasmo. Ma ormai la sconfitta è inevitabile. Tutto è perduto. Tanto vale arrendersi e "sedarsi". Il dottor Cane, direttore di rete, è stato molto chiaro. E mentre gli parlava di una totale assurdità che per lui era normale amministrazione, nel suo ufficio riccamente arredato, si è concesso una digressione sul suo cocktail preferito: il Manhattan. Nel suo il dottor Cane ha sostenuto di gradire anche mezzo Lexotan, un ansiolitico piuttosto diffuso. E allora Renè decide di provarlo, evidentemente nella speranza che anche lui, dopo averlo bevuto, riesca a vedere la questione con la stessa strafottenza e totale distacco che ha riscontrato nel dirigente.

Per un po' questa pozione di confortevole infelicità funziona. Ma poi, mentre tutto introno a lui crolla, Renè scopre per caso di avere forse ritrovato il suo vecchio pesce rosso, chiamato appunto Boris, per via di un maneggio che sarebbe lungo spiegare. Parlando con lui, Renè trova una possibile soluzione a quello che ora vede come un problema, non come uno stato di fatto da accettare passivamente. Il pesce, a me almeno sembra chiaro, rappresenta la coscienza di Renè, il suo essere più intimo, un po' come il ritratto di Dorian Gray. La differenza è che, mentre il dipinto nel romanzo di Wilde invecchiava al posto del protagonista, in Boris il pesciolino viene cambiato ad ogni nuova fiction girata. Ritrovare Boris, per Renè, significa ritrovare la voglia di fare perduta. L'assalto piratesco allo yacht degli sceneggiatori nella puntata successiva è un altro esempio della grandissima creatività degli sceneggiatori (quelli veri), ed è, per quanto possa sembrare strano dire questo di una serie TV, uno statement morale e filosofico. C'è un alternativa all'amaro calice (pieno di Manhattan e Lexotan) della rinuncia a se stessi: la resistenza a oltranza, donchisciottesca se vogliamo, probabilmente destinata alla sconfitta, ma che trova in sè tutto il senso di cui ha bisogno. Alla fine della serie Renè finisce con Duccio, il suo esatto opposto per quanto riguarda l'etica del lavoro e l'approccio alla vita, nella Guardia Forestale. Li vediamo alle prese con la catalogazione di alcuni alberi nel Parco Nazionale d'Abruzzo. Duccio vorrebbe andare in capanna "a pensare", ma Renè lo richiama al suo dovere, proprio come faceva sul set. Alla fine questo meraviglioso personaggio ha perso il lavoro in cui si era ostinato a credere, ma ha conservato la sua etica, i suoi valori, diciamo la sua "anima". E questa, forse, è la battaglia che è più importante non perdere.



martedì 4 ottobre 2011

...and justice for all


Cari amici, oggi purtroppo non vi posso sollazzare con arguti motteggi e astrusi concetti sull'amore, la vita e quella grande posteggia che è la ricerca della felicità. Purtroppo ieri sera Gallo's si è trasformato da ameno luogo di sbarazzina socialità in teatro di una indignazione e di una rabbia da parte mia che molti dei presenti hanno probabilmente trovato eccessiva, e che comunque ha reso l'atmosfera un tantinello pesante. Di questo mi scuso con tutti e soprattutto con i festeggiati Simona e Mauro, ma una volta ogni tanto capita anche a me di essere scosso da emozioni e sentimenti estranei alla mia immagine pubblica da Oscar Wilde vestito da Pulcinella. 

Il motivo di cotanto scorno è stata la notizia, ricevuta in tempo reale dal nostro mescitore di ebbrezza Giacomo, della assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito nel processo d'appello per l'omicidio di Meredith Kercher. Prima di entrare nel vivo del post, vorrei ricordare chi era Meredith, e cosa le è successo.

Meredith Kercher era una studentessa inglese di 21 anni, a Perugia con il progetto Erasmus. La notte fra il 1 e il 2 novembre 2007 è stata molestata sessualmente (forse stuprata, la perizia non ha potuto darne la certezza) e accoltellata più volte alla gola e ad altre parti del corpo. La morte è avvenuta per soffocamento causato dal suo stesso sangue. I primi ad essere sospettati del delitto sono stati Sollecito e la Knox, in quanto le dichiarazioni da loro rilasciate alle forze dell'ordine prima sul posto (la casa di via Pergola 7, nel centro storico di Perugia), poi in commissariato, sono risultate subito lacunose e contraddittorie. Solo molto più tardi, dopo diversi altri interrogatori (con ulteriori contraddizioni e incongruenze, e con Amanda che ha cambiato per ben tre volte la sua versione dei fatti calunniando peraltro l'innocente Patrick Lumumba) è emersa la figura di Rudy Guede, l'ivoriano che è stato poi condannato a 16 anni con il rito abbreviato per concorso in omicidio. Fin da subito è apparsa chiara l'estrema imperizia con la quale sono state raccolte le prove scientifiche, imperizia che ha compromesso il castello accusatorio ed ha costituito il motivo centrale degli attacchi costantemente portati da buona parte dei media americani al nostro sistema poliziesco e giudiziario dal 2007 a oggi. Le uniche prove a essere risultate ammissibili e inconfutabili sono state quelle a carico di Rudy, per ovvi motivi: lui non è tornato nella casa di via Pergola, e non ha quindi avuto modo di cancellare le proprie tracce. Amanda Knox, la mattina del 2, aspettava l'apertura di un esercizio commerciale della zona per effettuare l'acquisto di alcuni prodotti per la pulizia della casa. Le perizie hanno evidenziato la presenza di tracce di sangue in uno dei bagni della casa, invisibili all'occhio nudo, appartenente sia a Meredith che ad Amanda. Lo sprovveduto Guede, al contrario, aveva addirittura dimenticato di tirare lo sciacquone dopo essere andato di corpo. Potrei continuare a tediarvi a lungo con prove, testimonianze e resoconti, ma il mio scopo con questo post non è dimostrare la colpevolezza di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Di quella sono profondamente convinto, ma ognuno di voi potrà farsi la propria idea, se vuole, informandosi altrove. Quello che vorrei fare qui è una considerazione sul rapporto fra la giustizia come valore fondante della convivenza civile e il modo in cui viene amministrata.

In un bellissimo film del 1979 che dà il titolo a questo post, Al Pacino interpreta Arthur Kirkland, un giovane avvocato che cerca di interpretare la sua professione con coscienza e senso morale. All'inizio della pellicola lo vediamo in cella, per aver aggredito fisicamente il guidice Fleming, responsabile a suo giudizio di aver condannato un suo cliente senza prove sufficienti. Dal seguito del film emerge chiaramente l'innocenza di Jeff, piccolo spacciatore accusato di omicidio per una semplice omonimia (vi dice niente?), ma il sistema (nella persona dello stesso Fleming) è sordo al suo grido di innocenza e alle iniziative di Arthur per farlo rilasciare. Potete immaginare la sorpresa di Arthur quando il giudice che aveva preso a pugni viene accusato di stupro e chiede proprio a lui di difenderlo, minacciandolo di tirar fuori una vecchia storia che gli stroncherebbe la carriera in caso di rifiuto. Mentre Arthur prepara la difesa del giudice Fleming, Jeff cerca di evadere dal carcere, dopo aver subito violenze da parte di altri detenuti, e viene ucciso da un cecchino. Il malessere di Arthur cresce esponenzialmente, e quando si rende conto della colpevolezza del suo assistito matura una decisione apparentemente folle. In una sequenza straordinaria, che valse a Pacino una candidatura all'Oscar, l'avvocato parla alla corte della discrepanza fra la giustizia come ricerca della verità e il modo effettivo di amministrare la giustizia nel sistema americano (che non è poi tanto diverso dal nostro, o da quello di qualsiasi altro paese occidentale). Tutti concordano sul fatto che gli innocenti vadano assolti e i colpevoli condannati, ma c'è un problema: entrambe le parti vogliono vincere, a prescindere dalla verità. Il PM (o procuratore distrettuale), prosegue l'avvocato Kirkland, non ha che la testimonianza della vittima, mentre dalla parte dell'imputato ci sono diversi testimoni e il prestigio che gli viene dalla sua posizione sociale e professionale. A questo punto l'uomo si sovrappone all'avvocato, e Arthur si chiede ad alta voce per quale motivo la vittima avrebbe dovuto mentire. Semplice: non esiste un motivo, perchè la vittima non ha mentito. Ed ecco il geniale colpo di scena: Arthur Kirkland punta il dito contro il suo assistito, e lo dichiara colpevole. Nell'aula non c'è più il legale di Fleming, ma un cittadino, un essere umano indignato e disgustato che si sbraccia e si accalora, rendendo la mia performance di ieri sera uno spettacolo di atarassia.


La professione di avvocato è ben remunerata, quando la si svolge con successo. Pertanto non meraviglia che attragga persone di acuto ingegno, e di notevole capacità e determinazione. L'avvocato vuole vincere, come osserva giustamente Kirkland, il suo obiettivo non è la ricerca della verità, non è la giustizia. E se si trova di fronte una pubblica accusa costretta a lavorare sulla base di prove forensi ingenuamente contaminate e in presenza di comportamenti non sempre corretti e rispettosi dei diritti dei fermati/indiziati da parte delle forze dell'ordine, il suo compito è notevolmente semplificato. E allora l'avvocato vince. E la giustizia?

 
Questa era Meredith Kercher, uccisa barbaramente a 21 anni senza neanche un motivo. Non mi interessano prove, perizie, esami del DNA e quant'altro. Mi interessa sapere chi l'ha accoltellata ed è poi fuggito via, lasciandola a soffocare mentre i suoi polmoni si riempivano di sangue. Mi interessano la verità e la giustizia.



lunedì 3 ottobre 2011

Tanto gentile e tanto onesta pare...

In occasione del mio penultimo post, il bestiario che tanto diletto ha arrecato a grandi e piccini, sono stato "redarguito" da una lettrice che non identificherò con nome e cognome per il rispetto della privacy e della non trattabilità dei dati personali, laddove non esista l'espresso consenso della persona in questione, come da legge 675/96 e successive modifiche. Mi riferirò a lei con il simpatico nomignolo di "betulla", che porta da tempo immemore, e che permetterà ad amici e conoscenti di individuarla, ma continuerà a tenere nascosta la sua esistenza e/o posizione geografica a Equitalia e a tutti quei furfanti istituzionalizzati che vanno sempre mozzicando lo stracciato. Ebbene, la betulla mi ha fatto notare che il mio bestiario conteneva solo figure maschili; e le donne? Io le ho risposto che, tanto per cominciare, le donne non le capisco e non le ho mai capite; e che comunque non trovo affatto divertente nè comico (nel senso migliore del termine) il loro modo di porsi rispetto all'amore. Ho rimandato a data da destinarsi il trattatello sulla donna innamorata, mettendo però bene in chiaro che non potevo promettere nulla.

A distanza di pochi giorni, la mia conoscenza e la mia comprensione dell'universo femminile non sono certo migliorate, ma sono arrivato a una consapevolezza: io sono un uomo eterosessuale (nonostante tutto) e non potrò mai guardare alle donne con il disincanto e il bonario intento satirico con cui guardo agli uomini. Posso dunque parlare del rapporto fra la donna e l'amore in questa nostra epoca sciagurata, ma posso farlo solo in un'ottica rigorosamente maschile. Questo post, pertanto, sarà un po' meno faceto del solito.

Cos'è la donna? La femmina della specie umana. Sì, ma si nota subito che in nessun'altra specie esiste una differenza fra i sessi così marcata. Questo, ovviamente, perchè noi esseri umani (scusate se mi intrometto) produciamo cultura. Intendo qui il termine in senso antropologico: anche la misoginia o il maschilismo, pertanto, sono  manifestazioni di una certa cultura. La premessa appena fatta significa che il modo in cui la donna viene rappresentata si sovrappone, accettato o subito che sia, a  quello che una donna, ciascuna donna, è in effetti. E come è rappresentata la donna?

La civiltà occidentale affonda indubbiamente le sue radici nel patriarcato. La donna, in tutte le culture europee, è stata considerata fino a tempi relativamente recentissimi una propaggine dell'uomo, o poco più. In diverse lingue esiste o è esistita confusione semantica fra il termine per "donna" e quello per "moglie". In castigliano mujer vuol dire entrambe le cose. Nei Canterbury Tales Chaucer ci parla della wif of Bath, laddove wif sta per "donna", e non moglie, come l'inglese moderno wife. Lo stesso termine woman deriva dall'inglese antico wīfman, che contiene chiaramente in sè la parola per uomo. Donna, brutta propaggine che non sei altro, vai in cucina e preparami la cena. A questo servi. Tale, purtroppo, è stata la concezione della progenie di Eva (e discendere da cotanta peccatrice non aiutava di certo) per molti secoli, e tale è tuttora in alcune comunità.

Accanto a questa concezione della donna come ciuccio di fatica/peccatrice, si sviluppa a partire dal Basso Medioevo una tendenza culturale, sulle cui origini ammetto di non potervi dare delucidazioni, a vedere la donna (quella di nobili natali, ovviamente) come una creatura potenzialmente perfetta nella sua purezza, il servigio alla quale nobilita l'uomo. Una concezione, si capisce subito, altrettanto limitante. O sei Eva la tentatrice o sei la Vergine Maria. Mi pare che questo binomio, nonostante le lezioni del femminismo e le trasformazioni del costume, sia ancora bello presente nella mente delle persone, uomini o donne che siano.

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.


Quello che viene descritto nel sonetto testè riportato, scritto dal signore raffigurato nel quadro che ho scelto di riprodurre all'inizio del post, non è una donna, ma un'idea astratta, e francamente irraggiungibile. Allora come oggi, gli uomini cercano di imporre alle donne modelli creati da loro, a loro uso e consumo. Conta quello che la donna pare; e quello che è? Solo che oggi la donna degli stilnovisti non ha più una funzione, se non quella di popolare gli equivoci amorosi di sprovveduti centauri. Se Dante aveva una donna dello schermo, i nostri schermi sono popolati di eserciti di veline, avventuriere, prostitute d'alto bordo e bionde svampite, che da una parte sollazzano il maschio italiano medio, i paradigmi del cui desiderio sono oltremodo rozzi e infantili, dall'altro forniscono modelli allucinanti alle nostre adolescenti.

Mi rendo conto che rischio a questo punto di scivolare nel moralismo politically correct, e dunque riequilibro subito la situazione: W la fica! Lode a Lando Buzzanca, Alvaro Vitali e Renzo Montagnani! Lino Banfi for president! La Fenech nuda!


Bene, riprendiamo a parlare seriamente. Siccome già ho scritto assai e so che vi sto perdendo, concludo. Donne, rifiutate i modelli che cercano di imporvi, rifiutate qualsiasi tipo di modello. Presentatevi a noi come siete. Spogliatevi dell'abito che la società vorrebbe cucirvi addosso. Spogliatevi di una storia di sopraffazioni e fraintendimenti. Spogliatevi...

domenica 2 ottobre 2011

L'assessore ai sentimenti

 "È proprio vero che la libertà è preziosa; così preziosa che dovrebbe essere razionata."
                          (Vladimir Il'ič Ul'janov detto Lenin)

Cari lettori, nutrite forse dei dubbi sul fatto che qualsiasi idea bislacca mi passi per la testa finisca su queste pagine? Se sì, mi preme dissiparli immediatamente. E voi che ve la prendete con Facebook, che ne parlate come di un futile perditempo, magari solo perchè siete al lavoro e invidiate gli allegri perdigiorno come me, fermatevi a ragionare e capirete che un contenitore va giudicato per quello che c'è dentro. Uno strumento che mi offre la possibilità di interagire con persone di qualità, intelligenti, sensibili, creative, è uno strumento utile. E quindi grazie Facebook, e perdona i tuoi critici, perchè non sanno quello che dicono.

Ora vi pongo una domanda, ma una domanda semplice semplice, di quelle che si fanno all'inizio dei quiz a premi. Qual è il problema più annoso del giovane (maturo) di estrazione e istruzione media nella nostra epoca? Potreste rispondermi: il lavoro. Certo, sarebbe una risposta valida. Ma il lavoro costituisce un problema solo per via della sua scarsità. Una volta ottenuto il "posto", è relativamente facile conservarlo, perchè ognuno di noi, al di là delle differenze caratteriali, ha ben chiare le regole che governano qualsiasi contesto professionale. E in genere tutti noi tendiamo a rispettarle, quelle regole. Il vero problema, cari lettori, è la vita sentimentale. E questo perchè in quel caso non abbiamo chiare regole di riferimento, condivise e rispettate da tutti, e anche perchè non esistono sanzioni predeterminate per chi viola quelle regole. Aggiungete che il rispetto reciproco è pratica di gran lunga minoritaria nella nostra epoca, e il risultato è che la conflittualità, la violenza psicologica sistematica, finanche la distruzione reciproca, sono sempre dietro l'angolo, e minacciano di trasformare la nostra potenziale e tanto agognata felicità in 150/200 grammi di macinato.

E allora io, da genio incompreso quale sono, propongo una soluzione: l'assessore ai sentimenti. Ogni cittadino sopra i 18 anni dovrebbe averne uno; ciascun assessore dovrebbe seguire una platea di non più di 10 persone, vista l'estrema difficoltà nelle relazioni romantiche oggigiorgio. Costui avrebbe funzioni consultive, ma anche decisionali: ad esempio, avrebbe il diritto di veto ogniqualvolta un cittadino/a sotto la sua giurisdizione si dovesse invaghire di una persona che non lo/la ricambia, e dovesse manifestare l'intenzione di agire al riguardo. Ai primi nitriti l'assessore interverrebbe e vieterebbe con ordinanza scritta qualsiasi tipo di contatto. Naturalmente, potrebbero verificarsi situazioni in cui si rendesse necessario l'uso della forza pubblica: per questo sarebbe opportuno istituire un corpo di polizia appositamente addestrato, e violentissimo, che reprimesse senza pietà tutti i centauri di questo paese e le loro controparti femminili. Andrebbero previste poi pene detentive per i trasgressori, o ammende pecuniarie per le infrazioni più lievi.

Ma che fare in caso di reiterate e sistematiche violazioni di quanto stabilito dall'assessore? Non vedo altra soluzione, in un simile frangente, che il commissariamento. Il prefetto nomina un commissario straordinario, dotato di pieni poteri; l'ufficiale giudiziario ti mette i sigilli al cuore, e se è necessario le ganasce ai genitali; a quel punto una task force di esperti si siede intorno  a un tavolo e ti organizza la vita amorosa, visto che tu hai fallito così clamorosamente. Potresti recalcitrare, all'inizio, ma alla fine li ringrazierai.

Qual è l'alternativa? Finire per inondare Facebook di frasi melense che nessuno vuole leggere, o ancora peggio: scrivere a quella vecchia baldracca di Natalia Aspesi, che a occhio e croce non deve essersela cavata benissimo neanche lei...




Non so voi, ma a questo punto io invoco l'assessore, perfino il commissariamento. Alla fine la felicità è una cosa piuttosto lineare: basta avere un po' di disciplina. Imponetecela, orsù!