mercoledì 30 gennaio 2013

L'uso e l'abuso


Ricordate Mazzarò, avido protagonista de La roba di Verga? Quel ricco contadino che accumulava senza sosta, e che di fronte alla morte imminente perde il lume della ragione, perché non riesce ad accettare di doversi separare dalla sua proprietà? E ricordate il Marchese del Grillo, che non sa nemmeno dove finiscono le sue terre, e brucia mobili di pregio per scaldarsi nel suo casale abbandonato e fatiscente? E adesso pensate alla vostra cameretta da adolescenti, all'amore con cui la "arredavate" con quei pochi soldi che avevate a disposizione. Il poster di Maradona, la chitarra appesa al muro (magari era quella che aveva suonato papà da giovane), i bonghetti sullo scaffale, i libri (quelli economici, ovviamente, tipo i tascabili Newton da mille lire) e così via. Da una parte, la logica della proprietà, dello spreco che le è inevitabilmente connaturato, della gara a chi arraffa di più; dall'altra, la logica dell'uso.

Una mente ingenua spesso affronta la questione nei termini dell'avere troppo, o troppo poco. E così il buon Dickens, pieno delle migliori intenzioni, ma anche borghese fino al midollo, in A Christmas Carol risolve l'enorme e annosa questione della cupidigia eretta a sistema attraverso l'intervento del soprannaturale, sotto forma di visioni che trasformano l'egoista Scrooge in un uomo sensibile e generoso. Ma è la carità, nel senso di elemosina, che redimerà dalla loro miseria e infelicità le classi lavoratrici, schiave dei dark satanic mills proprio come un tempo erano state rese schiave dalla servitù della gleba? Will it bollocks, come direbbero a Grumo Nevano. I paradigmi restano identici. Il buon cuore del singolo è un poor substitute di un ordinamento razionale e, perciò, equo.

Per mille fregate battenti bandiera britannica, mi rendo conto che mi sto facendo prendere la mano. Riferimenti letterari e locuzioni più o meno colloquiali ci allontanano dall'itale sponde per approdare a quelle della perfida Albione. Prima che io impazzisca del tutto e scenda di casa in pantofole per un piatto di pie and mash che non troverei in tutta la circoscrizione Arenella, sarà bene che mi dia un sussiego degno della mia età e, soprattutto, della mia epa. Get a grip on yourself, mi direbbero a San Marcellino. 

Attraversiamo ordunque l'Atlantico, anziché costeggiarlo da Gibilterra fino a Southampton; rechiamoci in Uruguay, il paese del Matador Cavani, di Eduardo Galeano, e del presidente Pepe Mujica. Molti di voi sapranno che il leader della nazione sudamericana ha rinunciato a una parte consistente del suo stipendio per usarla nella lotta alla povertà. Non un'elemosina quindi, sporadica e di entità limitata, bensì la costante rinuncia al lusso. Ma l'elemento più importante non è questo. Quello che mi interessa di più è il motivo per cui Mujica devolve circa il 90% del suo stipendio di Presidente della Repubblica. 

“Quiero tener tiempo para dedicarlo a las cosas que me motivan. Y si tuviera muchas cosas tendría que ocuparme de atenderlas y no podría hacer lo que realmente me gusta. Esa es la verdadera libertad, la austeridad, el consumir poco. La casa pequeña, para poder dedicar el tiempo a lo que verdaderamente disfruto. Si no, tendría que tener una empleada y ya tendría una interventora dentro de la casa. Y si tengo muchas cosas me tengo que dedicar a cuidarlas para que no me las lleven. No, con tres piecitas me alcanza. Les pasamos la escoba entre la vieja y yo; y ya, se acabó. Entonces sí tenemos tiempo para lo que realmente nos entusiasma. No somos pobres”

Non siamo poveri, mia moglie (la vieja) ed io. Abbiamo quello che desideriamo, che ci rende felici. Abbiamo ciò di cui possiamo godere, e non dobbiamo preoccuparci che possano sottrarci la nostra proprietà. Abbiamo la libertà di fare ciò che ci piace. E a lungo andare, questo lo aggiungo io, ciò che fai diventa ciò che sei.

Non so voi, ma io ho l'impressione che se questa nostra Italia, e più in generale questa nostra Europa, si ispirasse un po' meno a Mazzarò e un po' di più a Pepe Mujica, forse potrebbe approdare a un futuro in cui si possa dire con serenità: no somos pobres.

martedì 29 gennaio 2013

Il diritto alla stortura

 Cari lettori, dopo una serie di post polemici il vostro Bradipo, in un'ottica di riconciliazione e distensione, ha deciso di allietarvi con una bella favoletta. Procuratevi dunque una coperta, una sedia a dondolo, e un paio di pantofole. Lasciate che una tazza di tè caldo vi scaldi le mani e il pancino, ché io vi scalderò il cuore.

Orbene, eravi in un luogo non ben precisato, in un tempo che non ci è dato di conoscere, un giovinetto amante dei giuochi e dei sollazzi. Costui, figlio di un ricco barone, e abituato ad avere tutto ciò che desiderasse  a un semplice schiocco delle dita delicate, non avvezze alle tribolazioni che compravano il pane quotidiano dei suoi servitori, era egoista e arrogante. Non v'era modo di contraddirlo, per quanto educatamente e rispettosamente lo si facesse, senza suscitarne le rimostranze e l'indignazione.
Un giorno questo fanciullo si imbattè in un vasaio che lavorava nel grande cortile del patrio ostello, alla fattura di alcune suppellettili che il facondo patrizio gli aveva ordinato.
"Tu sei in grado di plasmare la materia!" esclamò il bimbetto, stupefatto e incredulo. E non v'è da stranirsi d'una tale reazione: il pargolo, cresciuto in un mondo traboccante di ricchezze costruite dalle altrui braccia, aveva scoperto per la prima volta in vita sua il lavoro.
"O domatore della volubile argilla! O rustico demiurgo! Tu costruirai per me una città in miniatura, affinché io possa tiranneggiare su di essa nella fantasia, e prepararmi così ad assumere in età adulta quei compiti e quelle responsabilità che il mio rango mi assegna".
L'artigiano imprecò sotto voce contro l'assurdo capriccio del paffuto pre-adolescente, che lo avrebbe condannato a molte ore di lavoro in più del previsto; ma non poté rifiutarsi, perché in tal caso avrebbe rischiato di perdere la benevolenza di uno dei pochi signori che gli offrivano impiego. Dunque, si mise al lavoro, e in poche ore presentò al giovinetto la riproduzione in scala di un'intera città, con i suoi palazzi, giardini, officine, botteghe e via dicendo. Prima di consegnargliela, gli rivolse però un bonario ammonimento:
"Fate attezione, padroncino, l'argilla è un materiale malleabile, e bisognerà attendere qualche ora prima che si asciughi del tutto, e quindi si indurisca. Fino ad allora resterà sensibile al più leggero contatto, alla più lieve pressione."
Il nobile omettino non prestò ascolto alle sagge parole del vasaio, tutto preso com'era dall'impazienza di sollazzarsi con il suo nuovo balocco. Lo fece portare nella sua stanza da un paio di servitori, e subito iniziò a gingillarvisi. Inutile dire che il modellino, sotto le mani inesperte e incoscienti del rampollo, subì alterazioni sostanziali della forma iniziale, che lo resero disarmonico e sgradevole a vedersi. Il ragazzetto, tuttavia, non se ne avvide punto. Non aveva idea di come fosse fatta una città, conoscendone solo i luoghi di svago e diporto. Della bottega di un fabbro o quella di un panettiere egli non aveva alcuna nozione. Dell'ingegno e della fatica che generavano tutto quanto la sua famiglia consumasse in abbondante quantità, non sospettava. Dunque, deturpò il bel lavoro del vasaio in maniera considerevole, per quanto involontaria (ma non sarà questa un'aggravante?), mentre si divertiva ad amministrare, tassare, governare, incarcerare e appendere alla forca i suoi sudditi invisibili. Al termine di svariate ore di giuoco, il giovinetto sentì le membra oltremodo fiacche, e decise di cedere al richiamo del soffice materasso, uno dei tanti privilegi del suo lignaggio."A domani, miei amati sudditi" furono le ultime parole che profferì, prima di smorzare la candela.

All'indomani, appena sceso dal letto, il nostro baroncino si fiondò sulla città d'argilla, alla quale aveva in animo di imporre un nuovo editto, forse partorito nel sogno, e consistente nell'obbligo di leva militare per tutti i maschi di età superiore ai sedici anni. Ma prima che potesse consegnarlo all'araldo perchè se ne facesse tramite, qualcosa lo lasciò a bocca aperta. Una scoperta molto più sorprendente di quella fatta il giorno prima: la sua città d'argilla era popolata di gente in carne ed ossa. Piccoli come lillipuziani, ma reali. Artigiani, contadini, studenti, servi, preti, soldati, ladri, assassini, prostitute, scienziati, filosofi. C'era di tutto. Rumori di vario genere e voci si mescolavano gli uni agli altri. La maggior parte, notò il pargolo, provenivano dalla piazza principale della città, nella quale si erano riuniti molti dei suoi sudditi. Avevano tutta l'aria di essere irritati per qualcosa. Il ragazzuolo, a cui piaceva pensare di essere un sovrano illuminato, volle capire perché.
"Ebbene, di che vi lagnate? Non ho forse provveduto a tutte le vostre necessità? Non ho amministrato la giustizia in modo equanime? Non regnano fra voi il progresso, l'abbondanza, la virtù?"
Il giovinetto fu investito da una gragnuola di epiteti, uno meno lusinghiero dell'altro. Finalmente, dopo molto vociare e inveire, un anziano cittadino riuscì a placare gli animi, e prese la parola:
"Mio signore, il popolo ha ben donde rimostrare; la vostra città è colma di storture. Le nostre case hanno i soffitti troppo bassi, le botteghe hanno il pavimento mal livellato, gli argini del fiume che l'attraversa non sono sicuri. Qui la strada è troppo stretta, lì è piena di buche. Lavoriamo male e riposiamo peggio. Insomma, un vero disastro. E alcuni dei nostri giovani più irrequieti cominciano a pensare che in una città così storta non possa regnare il diritto."
Il pargolo fu così turbato e contrariato da queste parole che decise di rispondere con una repressione durissima. Ordinò ai suoi soldati di arrestare e imprigionare i facinorosi, e mettere a morte i loro capi. Dovette aggiungere alla sua città una prigione, plasmata da lui stesso con un po' d'argilla sottratta a strutture che riteneva meno importanti, come la scuola o l'ospedale. Non poteva rivolgersi al vasaio, poiché temeva che la città gli sarebbe stata sottratta dagli adulti, se avessero scoperto la sua prodigiosa particolarità. E così i suoi cittadini persero il diritto all'istruzione e alla salute, ricevendo in cambio un luogo orribile ma, quello sì, spazioso. I soldati riempirono questa sgarrupata galera in pochi giorni, mentre il giudice e il boia, lavorando sulla pubblica piazza un po' per mancanza di un trubunale vero e proprio, un po' per impartire un terribile esempio, sradicavano il dissenso con l'eliminazione fisica dei dissidenti. Presto la popolazione insorse, e quello che era iniziato come una ragionevole protesta sfociò in una guerra civile. La fonderia che aveva prodotto martelli e chiodi prese a sfornare moschetti e cannoni; il dotto che fino al giorno prima era immerso nella contemplazione dei misteri dell'universo ora si dedicava alla balistica, ed esortava gli studenti alla pugna.
E non mancavano, in cotanta babilonia, coloro che, traendo vantaggio personale e collettivo dalle storture prodotte dalle mani insipienti del fanciullo, si opponevano strenuamente a qualsiasi cambiamento in tal senso. "Abbiamo diritto alla stortura! In essa è il segreto della notra prosperità!" gridavano, mentre la guardia regia proteggeva i loro cortei. Ora dopo ora, battaglia dopo battaglia, l'argilla si macchiava del sangue di quei minuti cittadini. L'odore ferroso di quello si mescolava all'acre e pungente puzzo di polvere da sparo, e le urla dei feriti si sovrapponevano al cupo ruttare delle bocche di fuoco e ai nitriti dei cavalli lanciati alla carica negli ampi viali in cui si riversavano i rivoltosi.
Il pingue giovinetto, vista l'impossibilità di riconciliare i propri sudditi, e stanco del frastuono insopportabile, chiuse la stanza a chiave dall'esterno e si recò in giardino per raccogliere le idee. In fondo temeva anche, grande e grosso com'era, che i rivoltosi potessero avere la meglio, e rivolgere verso di lui quell'artiglieria che, seppur piccina, sparava vero piombo. Dopo alcune ore il nostro fanciulletto si decise a tornare nella sua stanza, per informarsi sull'andamento del conflitto. Con un po' di fortuna, avrebbe constatato che l'ordine era stato ristabilito. Aprì la porta, se la richiuse dietro, e si avvicinò trepidante alla città d'argilla. Fu allora che per il bamboccio arrivò una seconda prima volta, nel giro di pochi giorni: la città era ormai ridotta a un cumulo di macerie, e i cadaveri dei suoi abitanti marcivano nelle strade. Nella piazza principale, un manipolo di soldati e cittadini sopravvissuti al massacro esultava: nella città non vi era la benché minima traccia di simmetria e armonia: il diritto aveva trionfato.

sabato 26 gennaio 2013

Chiamare le cose con il loro nome

o

la legge che fa piangere 

La Genesi dice che il buon dio, dopo aver collocato Adamo nell'Eden, creò ogni sorta di animale  per non lasciarlo solo. Erano le prove tecniche della donna, presumo. Ad ogni modo, dopo aver creato ciascuna bestiola, il signore la presentava al primo uomo, affinchè costui le desse un nome; quello avrebbe dovuto essere, da allora in poi, l'appellativo della forma di vita in questione.

Naturalmente le cose sono un po' più complesse di così. Il racconto di cui sopra non è che l'ennesima testimonianza di come la Bibbia sia il prodotto di una umanità allo stadio infantile. Oggi è ben chiaro, non solo al linguista ma anche al profano, che il rapporto fra referente e segno linguistico è arbitrario, e dunque il linguaggio è soggetto a evoluzione, come qualsiasi altra espressione della natura umana. Tuttavia, due millenni e mezzo di oppressione religiosa, politica ed economica hanno fatto sì che perduri nelle menti poco avvezze al pesiero critico una certa accettazione passiva del linguaggio, come se non fosse una cosa nostra, che ci appartiene, ma una questione di correttezza e conformità a un qualche tipo di autorità benevola ma al contempo severa e rigida.

Un tizio di nome Norman Fairclough, di nazionalità inglese e di professione linguista, partendo dal pensiero di Gramsci, Foucalt ed altri sovversivi di cotal risma, ha sviluppato un modello di analisi del discorso chiamato Critical Discourse Analysis. Il discorso, non solo quello specificamente politico, è terreno di uno scontro ideologico quasi costante. Risulta difficile sostenere una qualsiasi conversazione senza tradire, con un vocabolo, una struttura sintattica, un'intonazione, le nostre convinzioni più profonde; che spesso, e qui casca l'asino, non sono nemmeno consapevoli. Spesso, come il prof. Fairclough ha brillantemente dimostrato rispetto al vile e vergognoso lavoro degli spin doctors di Tony Blair, il linguaggio viene usato per creare - in modo surrettizio - un'opinione, una visione delle cose. Questo equivale ovviamente, in termini politici, a estorcere il consenso. E il fatto che Alistair Campbell e la sua lurida masnada siano riusciti, trasformando socialism in social-ism, ovvero con la banalissima aggiunta di un hyphen, un trattino, a far prendere una valanga di voti all'uomo che ha definitivamente demolito la sinistra britannica, ci deve far riflettere.

Odo garrule voci intonare vivaci motteggi: "Ma che ce ne fotte a noi di questi inglesi? Noi siamo italiani. Anzi, napoletani." Giusto. E allora veniamo a noi. E che questo dativo di tristo retaggio non vi sgomenti (vedete quate cose si nascondono nelle parole?).

Corruzione, camorra, legalità. Tre lessemi, tre campi di battaglia. Cominciamo dalla corruzione. Corruzione, ovvero il processo del corrompersi, o lo stato dell'essere corrotto. Una cosa o una persona viene deviata da qualche causa dalla propria natura, e diventa qualcosa d'altro, in senso ovviamente peggiorativo. Ma allora, quando parliamo di una corruzione eretta a sistema, non stiamo forse esprimendo una contraddizione in termini? In Italia non esiste corruzione, ma una tragica discrasia fra il sistema giuridico e quello economico. Camorra. Sull'etimo di questo termine si dibatte da decenni, e non si è ancora arrivati a un punto fermo. Sull'origine del fenomeno a Napoli, invece, sappiamo abbastanza. Nasce all'inizio dell'Ottocento come società segreta, sul modello della Massoneria, ma è espressione dei ceti popolari anziché della nobiltà e della borghesia. Regolata da rigide norme e rituali, è quanto di più diverso si possa immaginare dalla criminalità organizzata attiva oggi a Napoli e in Campania. Eppure si continua a parlare di camorra, male onnipresente, apparentemente congenito a questa disgraziata etnia che sono i napoletani, con i loro mandolini e le loro sfogliatelle, ma anche le mollette per fare la zompata, come in certi film che si facevano una volta, o il ferro per fare il pezzo, nella versione aggiornata e corretta della camorra moderna (anche il Diavolo si fa l'iPhone!). E veniamo alla legalità, il nodo centrale del discorso.

Legalità: la qualità di essere legale, ovvero conforme alla legge. Che cos'è la legge? Naturalmente, se ci addentrassimo in una discussione approfondita sull'argomento, ne usciremmo vegliardi e canuti, senza peraltro aver raggiunto, molto probabilmente, un punto fermo che fosse uno. Sappiamo tutti, però, che esistono diversi orientamenti al riguardo, diverse idee di quale dovrebbe essere il fine dell'attività legislativa. Giustizia, equità, progresso; ma anche proibizione, castigo, repressione. Il concetto di legge contiene tutto ciò. Ma confesso, nella mia pochezza filosofica e intellettuale, di essere molto più attratto da un'altra antinomia: quella, di eduardiana memoria, fra la legge che fa ridere e quella che fa piangere. Quella di Filumena Marturano, da un lato, e quella del "mondo che si difende con la carta e con la penna" dall'altro. Quella di Domenico Soriano, commerciante, per cui tutto è una questione di dare e avere. Il cognome è mio, e lo voglio dare solo a mio figlio. 

Allora vedete che questo tipo di discorso basato su un concetto formalistico dei rapporti economici e istituzionali, del fenomeno criminale (peraltro vasto e complesso) e della tanto invocata legalità sembra fatto apposta per gettare fumo negli occhi (e difatti lo è). Non è altro che il modo in cui il pensiero unico, nella sua sconfinata miseria intellettuale e morale, pretende di ricomporre contraddizioni di origine chiaramente economica all'insegna di un'architettura morale ammantata di progressismo, ma sostanzialmente ultraconservatrice. La legalità diventa un'arma, un oggetto contundente. L'ennesima variante del manganello, che tanto titilla, con quella sua forma vagamente fallica e quel suo virile turgore, la fantasia dell'italo fallocrate. Una variante più educata, più colta, più politicamente corretta. Ma alla fine Domenico Soriano, Ignazio La Russa e Roberto Saviano stanno tutti dalla stessa parte: da quella della legge che fa piangere. E c'è veramente poco da ridere...

lunedì 14 gennaio 2013

La mafia, questa terza persona plurale...


Cari letturi di 'stu blog, oggi vi vogghiu parrari della mafia. Quannu 'nu cristianu si mette la coppula e pigghia 'a lupara pe gghiri a sparari a autri cristiani, chiddu si chiama mafiusu. 'U mafiusu di solitu ave i baffi e 'a pelle scura, e jè sicilianu. Sciuri, sciuri, sciuri di tuttu l'annu, l'amuri ca me disti te lu rennu...

Bene, potrei continuare per tutto il post con questo siciliano inventato, ma credo di aver ormai ottenuto lo scopo che mi ero prefisso. Avrete capito, se non avete di recente subito l'asportazione di quella parte del cervello preposta all'ironia, che sto cugghiunannu. Ma siccome nessuna realtà sociale ed economica è oggetto di tanti equivoci e tante convinzioni errate e infondate quanto la fantomatica mafia, sarà il caso di spiegarsi meglio.

La mafia non esiste. Ah!!! Anatema! Come osi!!!! Ma che stai dicendo!!!! Lapidate subito questo eretico!!!!
Ripeto: la mafia non esiste. Non più. Quel signore ritratto in foto è una testimonianza storica. Nell'Italia di oggi (Sicilia compresa) lo stereotipo che incarna non trova più corrispondenza. La mafia, quella vera, era un'organizzazione di carattere eminentemente politico e militare. Lo stesso dicasi per la camorra, sua omologa campana. Si trattava di società segrete, al pari della Carboneria o della Massoneria, con rigidi codici e ferree gerarchie. Ma mentre queste ultime erano composte da borghesi e nobili illuminati, mafiosi e camorristi erano di estrazione popolare, e si opponevano con la forza al potere borghese. Per finanziarsi e sussistere, ricorrevano esattamente agli stessi metodi praticati dallo stato e dalla società "civile: solo che un governo "legittimo" tassa, un'organizzazione nata per difendere gli interessi dei morti di fame "taglieggia".

Naturalmente non c'è posto, nel mondo di oggi, per organizzazioni simili. Il mafioso, il camorrista, nel mondo di oggi non durerebbe cinque minuti. Attenzione, non sto elogiando quell'etica impregnata di violenza e pregiudizi, sono ben conscio che per ricomporre un dissidio il dialogo è un sistema migliore della zompata, ma è importante capire che cosa c'era alla base delle vecchie mafie, quelle vere. E che anche il criminale, come chiunque altro, è figlio del suo tempo. E adesso vi sconvolgerò ulteriormente, affermando che i valori del criminale sono, nella stragrande maggioranza dei casi, i valori trasmessi dalla cultura egemone. Nel caso della nostra epoca, i valori del capitalismo senza freni, del mercato selvaggio, del denaro come misura del valore di una persona. La differenza tra il criminale e Sergio Marchionne è che quest'ultimo, pur essendo socialmente assai più pericoloso di Pascale naso 'e cane o di Giggino Bombammano, opera nell'alveo della legalità.

Capirete allora che conviene, ai Marchionne di questo mondo e a chi ne fa le veci, farci credere che i "mafiosi" siano gente, per così dire, venuta da Marte, anzichè operatori economici che un particolare sistema di leggi ha lasciato scoperti dall'ombrello della liceità. Non staremo a discutere dei perchè e dei percome; ci limiteremo a osservare che sono almeno trent'anni che si parla ossessivamente di "lotta alla mafia", e che la presenza criminale non accenna a diminuire. Tutt'altro. I "mafiosi", ovvero gli avventurieri dell'economia, i pezzenti che arrivano in cima perchè hanno una fame feroce di successo e autoaffermazione e nessuno scrupolo, sono presenti nelle stanze del potere, nella finanza, in tutti i giri di soldi più importanti. Non hanno più codici, nè regole, nè coscienza. Saranno anche guappi di cartone come il Malacarne, ma il duello con il professore vesuviano, ultimo fautore di una criminalità ormai anacronistica, lo hanno vinto loro. Vedete, quello che Cutolo non aveva capito è che con lo stato non si entra in antagonismo, come la vecchia camorra, ma ci si mette d'accordo. C'è posto per tutti. La cocaina non può mica venderla il tabaccaio, non vi pare? I rifiuti tossici da qualche parte dovranno pur andare a finire. E che male c'è se uno che lavora tutto il santo giorno, fra omicidi da commissionare e transazioni da concludere, la domenica si svaga un po' con il pallone?

Ci sono tanti, ma tanti soldi nel mondo del calcio professionistico. Si può scommettere sulle partite; una volta c'era il Totonero, adesso c'è la Snai, non è nemmeno più necessario tenere in piedi tutta una macchina organizzativa. Lo fanno altri per te. Tu devi solo preoccuparti di truccare le partite, e a quanto pare non mancano calciatori disposti a prestarsi al gioco per qualche migliaio di euro in più (nonostante percepiscano stipendi piuttosto ragguardevoli). Adesso si insinua, in seguito alle dichiarazioni di un "pentito" (parola che trasforma d'incanto il malavitoso traditore, e quindi ancor più spregevole, in figliuol prodigo), che alcuni calciatori siano stati "spinti", "aiutati" da questo o quel boss (termine che, curiosa combinazione, in inglese indica il padrone). Insomma, sono stati raccomandati. Come milioni di italiani, dirà qualcuno. Esattamente. Solo che c'è sempre la stessa discriminante: prima notavamo che al governo dell'equo e democratico Re Bomba si riconosceva il diritto di esigere tributi, all'Onorata Società no; allo stesso modo osserviamo che quando il raccomandato sono io o un mio amico non c'è niente di strano, la società purtroppo funziona così e via discorrendo; se la raccomandazione la riceve un calciatore da un criminale è inaccettabile e scandaloso.

Svegliatevi. E, se siete già svegli, smettetela di fare gli ipocriti. La criminalità è un problema principalmente sistemico, non morale. L'ipocrisia la favorisce, perchè ci impedisce di capire che le leggi vanno modellate in base a concetti di equità, a partire da un'analisi onesta e disinteressata della realtà. Ma in un paese e in un mondo che hanno rinunciato a chiedersi cosa è giusto e cosa è sbagliato da un punto di vista politico (perchè la giustizia è un problema intrinsecamente politico), la lotta alla mafia non si può fare. Si può additare di volta in volta questo o quel partecipante alle molteplici dinamiche dell'illegalità, con le varie gradazioni e sfumature di responsabilità, ed esclamare, presi da un sacro di furore di retta e borghesissima indignazione: Talìa, u mafiusu! E poi tornare alle nostre dinamiche legali, per bene e senza coppole e lupare.



 

venerdì 11 gennaio 2013

Il monopolio della forza e lo spicciolo della vergogna


Orbene, questo post è da considerarsi un'appendice al precedente, ed è motivato dalle critiche mossemi da alcuni amici su Facciabucco. Il succo di tali critiche, se ho ben capito, è che il parcheggiatore abusivo non avrebbe alcun diritto di esigere lo spicciolo dal cittadino (nè con le cattive, nè con le buone). Diverso è il caso in cui lo stato o le istituzioni locali esigono da noi tasse, dazi, balzelli, tributi e quant'altro; a loro tutto è dovuto. Ci si può lamentare, certo, si può invocare la calva, lucente calotta cranica di un Benito o il baffo imponente e importante di un Giuseppe, a seconda dell'orientamento ideologico; tutto rimarrà naturalmente al livello del più inane sfogo, giacché entrambi i convocati giacciono in pace da svariati decenni, e per fortuna non hanno troppi epigoni al giorno d'oggi. Alla fine, quando l'uomo in divisa ti intima l'ALT, ti fermi; quando l'astrusa formulazione di codici e codicilli ti ingiunge di aprire i cordoni della borsa, li apri; quando il grigio e tristo esercito dei burocrati, armato di penne notoriamente più letali delle spade, ti comunica che il tal giorno alla tale ora dovrai espletare il tale obbligo, ti presenti come un soldatino, ed è capace che ti metti anche il maglioncino un poco meglio.

Tutto questo perchè esiste un principio nel mondo in cui viviamo, un'abitudine storicamente costituita a rispettare l'autorità pubblica e obbedire a chi ne è investito: il principio del cosiddetto monopolio della forza da parte dello stato e delle istituzioni locali ad esso subordinate. Sarà il caso di notare che questo principio non è universalmente riconosciuto; chiunque sia cresciuto a Napoli sa bene quanto assoluto sia il disprezzo del sottoproletariato di questa città per tutto ciò che è "stato", o assimilabile ad esso. Se ci piacciono Fabio Fazio, Roberto Saviano e la disfunzione erettile, vedremo in questo una prova di ineffabile grettezza; se qualche cosa l'abbiamo appresa, dai quattro libri che abbiamo letto e dalle discussioni un po' più "impegnate" fatte con quei quattro stronzi dei nostri amici, ci interrogheremo sulle ragioni storiche di una così netta divergenza di opinioni.

Che cos'è lo stato? Una forma di organizzazione del potere politico e giuridico, nient'altro.  Nasce, nella sua forma moderna, con l'ascesa della borghesia, e cresce e si sviluppa insieme a quella. La sua comparsa è inseparabile dal fenomeno dell'inurbamento (del resto il termine "borghese" indica proprio l'abitante di un borgo, una piccola cittadina). Queste sono conoscenze ampiamente condivise, e spero che non mi si contesteranno. A cosa serve lo stato? A creare un clima di sicurezza, attraverso rapporti di forza ben definiti, che consenta al cittadino (borghese) di esercitare i suoi commerci o la sua attività artigianale senza il timore di essere taglieggiato da svariate masnade. Tutta la storia del Medioevo, e parliamo di secoli e secoli, vede un costante sforzo da parte dei poteri più forti di rafforzare e consolidare il controllo su determinati territori, sui quali immancabilmente si muovono e operano altri poteri, più o meno autoreferenziali, in competizione fra loro e con il primo. Di sviluppo economico, in una tale situazione, difficilmente può essercene. Bisogna sapere chi comanda. Bisogna limitare l'uso organizzato, militare, della violenza alle contese con altri stati, e lasciare che a mantenere l'ordine a casa propria sia un potere forte e riconosciuto da tutti. Naturalmente, per tutti intendiamo la borghesia e l'alta nobiltà (la piccola e media nobiltà hanno spesso combattuto questo processo, che ne minacciava il prestigio e i privilegi, e che di fatto è sfociato nella Rivoluzione Francese). Il popolo questo nuovo assetto sociale lo subiva come aveva sempre subito qualsiasi altro mutamento ed evento storico.

Alcuni filosofi, ovviamente di estrazione borghese, hanno provato a dare un fondamento razionale e giuridico al potere statale, che evidentemente appariva loro come cosa "naturale" e confacente ai loro interessi. Hanno parlato di "contratto sociale". Semmai sia accettabile la tesi di un contratto stipulato per tacito assenso, e mai rinnovato e ridiscusso, va tenuto presente che questa sorta di accordo lascia comunque fuori tutti coloro che, privi di istruzione e completamente disinformati sulla realtà che li circonda, non hanno neanche mai sentito parlare di Locke. Quelli, i miserabili, hanno fatto la rivoluzione per cacciare il re e la regina, e si sono ritrovati, pochi decenni dopo, un imperatore borghese. Hanno imparato dalla scuola dell'esperienza che cambiano i titoli e le fogge degli abiti, ma non la loro sorte. E si sono organizzati anche loro.

Quando hanno provato la strada del riscatto collettivo, li hanno chiamati sovversivi e gli hanno puntato le mitragliatrici addosso; quando si sono armati, i membri di quella classe egemone che si era resa responsabile di due guerre mondiali, causando decine di milioni di morti, li hanno chiamati criminali. E allora io mi chiedo che cosa debbano fare i Gennaro Esposito di questo mondo per campare. Forse mettersi una camicia di un determinato colore e marciare ben inquadrati per mazzolare altri Gennaro Esposito, e difendere così gli interessi della gente "per bene"? Sì, effettivamente la borghesia li ha molto apprezzati in quella versione. Oggi hanno altre  divise, quei Gennaro Esposito supporters del potere statale, e hanno dovuto rinunciare a certuni sollazzi, come ad esempio la somministrazione forzata dell'olio di ricino, ma se la passano ancora discretamente, e soprattutto hanno l'approvazione e il rispetto di chi vive e prospera sotto l'ombrello di quel potere. Sì, dunque dev'essere questo il criterio: se hai la divisa mi puoi opprimere, reprimere, sopprimere, sputare sui miei resti e rifiutarti di renderli al petto della madre mesta. Se la tua divisa è una faccia scolpita dal sole, dal vento e dalla pioggia, non ti permettere neanche di avvicinarti, che grido al bruto. E vergognati di chiedere un euro a una persona che lavora.

A scanso di equivoci, e per evitare interminabili polemiche, vorrei chiarire una volta per tutte il mio pensiero. Per me divise e timbri non validano un beato cazzo, mi si perdoni il francesismo. Se rispetto una norma è perchè la ritengo giusta, o perchè non voglio incorrere nella sanzione che comporta la sua infrazione; non certo perchè riconosco l'autorità di chi me la impone. L'unico potere che reputo legittimo è quello - ipotetico e futuribile - di ciascuno su se stesso, e tutti su tutti. Rispetto, senso civico, e l'ambiguissima legalità, per me sono concetti che hanno valore solo in relazione al mio prossimo (prossimo, colui che mi è vicino), non a un potere che è il risultato di una storia in confronto alla quale la faida di Scampia è una barzelletta. Sì, avete ragione, il crimine non è una soluzione. E allora, la prossima volta che parcheggiate l'auto sulle strisce blu, invece del grattino, lasciate in bella mostra un cartello con su scritto, bello grande: "QUESTO AUTOMOBILISTA NON PAGA I CAMORRISTI".

giovedì 10 gennaio 2013

Prego, dottò!

 
Cari amici del Bradipo, oggi affrontiamo un tema che mi si è rivelato ancora più spinoso di quanto pensassi: quello dei parcheggiatori abusivi. Adesso voi mi direte: con tutti i problemi che ci sono in Italia, e in particolare a Napoli, che cosa sarà mai l'euro da dare al guardamacchine? E invece a molti quell'euro gli brucia, e tanto. Cerchiamo allora di fare qualche considerazione su questo problema ingiustamente sottovalutato.
 
Il mestiere di parcheggiatore abusivo ha una lunga tradizione in Italia. Totò lo esercitava in Totò, Peppino e la dolce vita, arrivando a un certo punto del film a capeggiare una protesta per la regolarizzazione di tutta la categoria. Salvo poi, all'arrivo delle madame, dileguarsi al grido di battaglia di "arrangiatevi"; ed è proprio questo il nocciolo della questione.

Esiste in economia un concetto, quello di disoccupazione strutturale. Wikipedia la definisce come "la mancanza di un impiego legata all'assenza di corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro. In altre parole, è la mancata corrispondenza tra abilità del lavoratore e richiesta del datore, oppure la differenza di posizione geografica." Tradotto per gli umanisti come me, la disoccupazione strutturale è quel concetto in base al quale un terzo della popolazione di Napoli, a occhio e croce, è tagliato fuori da tutte quelle opportunità di impiego che prevedono competenze acquisite attraverso un determinato percorso formativo, o la residenza in una zona con un certo sviluppo industriale. Semplificando ulteriormente il concetto, la disoccupazione strutturale dice, in termini non meno perentori dei dieci comandamenti, che se sei nato povero a Milano puoi fare l'operaio, se sei nato borghese - tanto a Napoli quanto a Milano - puoi fare il web designer; ma se sei nato povero a Napoli ti devi arrangiare

Che cosa vuol dire arrangiarsi? Vuol dire procurarsi il denaro, valore di scambio indispensabile all'ottenimento dei generi di prima necessità e al pagamento di affitti e utenze, nei modi che ti prospettano i circuiti economici a te accessibili.Ora, per quanto questo possa turbarci e indignarci, e vi assicuro che mi turba e mi indigna non meno di voi, l'unico circuito economico accessibile a moltissimi napoletani è la cosiddetta camorra. Parola che noi usiamo a sproposito, che in passato designava un particolare tipo di società criminale ormai scomparsa, ma che noi continuiamo imperterriti a utilizzare. Forse, e perdonatemi la malizia, per rimarcare una differenza dal sottobosco dell'illegalità che a ben vedere è piuttosto tenue.

Non avrei mai creduto di fare riferimento a una parabola evangelica in questo blog. Come sapete, o avrete capito, sono tutt'altro che un  devoto cristiano. Eppure la storia dell'adultera che Gesù avrebbe salvato dalla lapidazione è così calzante che la tentazione di servirmene è stata troppa. Chi è senza peccato, dunque, scagli la prima pietra. Chi ha sempre operato nell'alveo della legalità, chi non si è mai reso complice di un raggiro, di un imbroglio, di una piccola infrazione, spari pure a zero su questa categoria di prepotenti estorsori di spiccioli. E poi, cortesemente, mostri a noi comuni mortali la strada per la santità. Attenzione però a dove mette l'aureola: sembriamo tutti gente per bene, ma 'na vutata d'uocchie e scompaiono l'aureola, l'accendino e le sigarette. 

L'ovvia obiezione, a questo punto, è che nei paesi civili queste cose non si fanno. Certo che no. Nei paesi civili esiste uno stato sociale serio, in base a un principio saldamente radicato, nonostante l'opposizione che ha sempre incontrato e che continua a incontrare: la povertà è un problema sociale, e a livello sociale va risolta. Se Tizio non ha di che mangiare, non ci possiamo seriamente aspettare che si accomodi su un cartone, all'entrata di un grande magazzino o di una chiesa, e si metta a chiedere l'elemosia. Non è realistico pensare che tutti i disoccupati, magari con famiglia, si riducano a questo, e a mio giudizio non è neanche morale. I protestanti del Nord Europa guarderebbero anche con indifferenza gli infelici che dio ha predestinato all'inferno morire di fame e di freddo, ma si sono fatti i loro conti e hanno capito che aiutarli era più conveniente.
 
Inoltre, e con questo chiudo la mia breve disquisizione sull'argomento (affinché da breve non arrivi a meritare gli appellativi di interminabile e tediosa), non vedo grande differenza, in termini pratici, fra pagare un parcheggiatore o un grattino. Anzi, il parcheggio abusivo è custodito. Il ladro sa che da qui a lì le macchine non si toccano. Lo garantisce un potere criminale, nefasto, esecrabile, ma funzionale. Quali straordinari servizi vengono offerti ai cittadini "onesti" in cambio delle loro tasse? Ci costano più i parcheggiatori o politicucci, faccendieri, raccomandati e affini? Suvvia, dunque, critichiamo tutto quello che non va nel nostro paese e nella nostra città, ma ricordiamoci che il pesce puzza dalla testa. E lasciamo perdere la retorica degli anatema e della superiorità morale; finisce che qualche pietra, nella foga lapidatoria, arriva anche addosso a noi.


lunedì 7 gennaio 2013

Lo sciroppo della coscienza


Signore e signori, ecco a voi la camorra! Camorra a colazione, camorra a pranzo, camorra a cena, camorra per merenda e per lo spuntino di mezzanotte. Dimenticate ipocrisia, cerchiobottismo, evasione fiscale, ingerenze clericali, corruzione, nepotismo, arretratezza economica, carenza di infrastrutture, ancora corruzione, assenza di valori e progettualità nei nostri giovani. Il male di questo paese sono Cicciotto di Mezzanotte, Sandokan, i Di Lauro e i parcheggiatori abusivi. E si sconfiggono con l'indignazione, ma soprattutto sfruttando il tema per diecimila prodotti di intrattenimento più o meno "intelligente" e "impegnato", dal libro al film, dallo spettacolo teatrale alla fiction. Chissà, magari faranno anche un videogioco in cui tu sei Saviano e devi andare in Vespa da Scampia fino a Casal di Principe, senza farti uccidere dai sicari.

Cosa dite? Che la criminalità organizzata è la prima industria di questo paese? Che le industrie che sversano rifiuti tossici fra Napoli e Caserta sono perlopiù del Nord Italia? Che il problema ha una dimensione nazionale (e per certi aspetti transnazionale)? Anatema su di voi!!! Così distraete l'attenzione dai gaglioffi che terrorizzano la gente onesta (espressione cara a quella brava persona di Bassolino) nell'inenarrabile disagio delle Vele. Ma che dico, inenarrabile? Quel disagio VA NARRATO! Ce li dovete far filmare, quei ballatoi sporchi e fatiscenti, li dobbiamo far vedere a tutti gli italiani, ma che dico a tutti gli italiani, a tutto il mondo! Eccoli i cattivi, i manigoldi, i fetentoni! I bigotti, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto bisogno di capri espiatori. In questo infausto paese l'evasione fiscale la praticano milioni di persone, senza l'attenuante dell'ignoranza e della disperazione; ma si tratta pur sempre di brave persone, persone che vanno al cinema e qualche volta leggono pure un libro, persone che puoi incontrare ogni giorno al supermercato, o mentre fai la fila all'ufficio postale. O magari alla riunione di condominio, perchè sono i tuoi vicini di casa. Oppure quei signori così simpatici e per bene che hai conosciuto l'estate scorsa al mare (e che al mare ci sono andati con i soldi truffati all'erario). E allora che vuoi fare, vuoi prendertela con loro se questo paese va a rotoli, e ci sono posti come Scampia? No,che non puoi. Scampia fa schifo perchè è abitata da una razza di subumani, magari tu non lo sai, ma non fa niente, rimediamo subito: facciamo una bella fiction e la mandiamo in onda su RAI 1, così le casalinghe rincoglionite da otto ore al giorno di TV (se otto ore vi sembran poche...) aggiungono anche quello al repertorio dei luoghi comuni. 

Eh, ragazzi, qui c'è gente che lavora. Parliamoci chiaramente, chiunque conti qualcosa se lo fa passare per il cazzo che il vostro potere d'acquisto è sempre minore, che i vostri figli non trovano lavoro, che i servizi pubblici (o che tali dovrebbero essere) sono sempre peggiori e vi costano sempre di più. Se ne fregano altamente del fatto che il salvataggio dell'euro sta mettendo in ginocchio centinaia di migliaia di famiglie, e che, parlando più in generale, il capitalismo sta attraversando una crisi di portata gigantesca. Crisi che, come è ovvio, pagano i fessi che non contano niente. Cioè voi. Però non siamo così malvagi e senza cuore da lasciarvi in questo pozzo di pessimismo senza un raggio di luce. Dai, una possibilità ve la lasciamo: quella di arrangiarvi come potete, fra piccole infrazioni, raccomandazioni, imbrogliucci, piccole ipocrisie quotidiane. Questo è il messaggio che noi, classe dirigente di questo paese, vi lanciamo: parafrasando il pelato quanto carismatico Telly Savalas, "fate come noi".

Odo una vocina fastidiosa provenire dal fondo della sala. Dice che anche i gaglioffi di Scampia si arrangiano. Che non fanno altro che seguire l'esempio delle classi egemoni, aggiunge, facendo un antipatico utilizzo di un'espressione di origine inconfutabilmente pedofaga. No, così non va. Adesso state esagerando. Ipocriti, democristiani e bigotti, vi vogliamo. Fate come noi, vi dico, e poi guardatevi la fiction su Gomorra per dimenticarvi di quanto siete complici dello sfacelo generale. Vi mostreremo reietti d'ogni guisa, senza nemmeno la licenza media, con le facce sporche, brutte e cattive. Li faremo parlare vernacoli incomprensibili, antichi codici criminali. Canticchieranno le più patetiche e melense litanie neomelodiche. Li renderemo in tutto e per tutto diversi da voi, tranne che nei veri valori che ne guideranno l'azione. Ma quello è un dettaglio minore. Te lo spiego. Se tu prendi uno sciroppo per la tosse, senti il sapore della fragola o della codeina? Eppure, è quest'ultima a svolgere la sua azione benefica. Prenditelo, dunque, questo sciroppo a puntate. Sa di politicamente corretto, con un tocco di epica borghese da fumetto, e calma subito le irritazioni della coscienza. E calmare le irritazioni, credimi, è il massimo che tu possa fare. Perchè, se non lo avessi ancora capito, la vera Gomorra non si tocca.