giovedì 30 gennaio 2014

Piacere, sono la democrazia

Parola composta da δῆμος e κράτος, traslitterati nell'alfabeto latino in dêmos e kratos, ovvero il popolo e il potere. Per essere più precisi, nell'ordinamento dell'antica Atene il dêmos era formato dall'insieme di tutti i cittadini, ovvero gli ateniesi liberi. Sul secondo lessema che forma il termine "democrazia", ovvero sul kratos, vale la pena di notare che non vuol dire "governo", bensì "potere". Quando si parla di democrazia come di "governo del popolo", si commette un errore. La democrazia è il potere del popolo. Una cosa, cari i miei bradipucci, sommamente sovversiva. La realizzazione della piena democrazia, tanto nel campo politico quanto in quello economico, è l'incubo di chiunque goda del benchè minimo privilegio. Non c'entra niente l'idea che si professa. 

Molti, in Italia, si meravigliano del fatto che intellettuali provenienti dal PCI o addirittura dalla sinistra extraparlamentare siano poi andati a finire nei ranghi dei berluscones, o abbiano comunque avuto una deriva "destrorsa". Lo stesso PD è formato per buona parte da ex-comunisti che oggi professano tranquillamente idee neoliberiste. Come è possibile? Come si spiega?

Si spiega con estrema facilità. Si spiega con il fatto che, laddove non esista la coscienza del dêmos, parlare di coscienza di classe lascia il tempo che trova. Senza il concetto di dêmos resta solo la lotta di infinite fazioni, clan e tribù per il kratos. Se non si impara a essere cittadini, col cazzo che saremo compagni; una birra, uno spinello, due canzoni strimpellate con la chitarra e poi tutti a casa a fare i cazzi propri. Il che non significa necessariamente qualcosa di losco o moralmente reprensibile. Ma vuol dire, questo sì, che tutto si concluderà in una liturgia inutile.

Il kratos, nel frattempo, è saldamente in mano a una classe sociale transnazionale, apolide, amorale, che si avvantaggia del modo in cui molti di noi esprimono ancora il dissenso; un dissenso esclusivo  piuttosto che inclusivo, e che in questo senso riproduce la logica del privilegio su cui si regge tanto il capitalismo quanto qualsiasi altro sistema di oppressione passato, presente e futuribile. Soprattutto, mentre quelli parlano con il loro agire, come è consueto in coloro che gestiscono il potere, quel che resta della sinistra continua a riproporre discorsi intraducibili in un'azione politica dotata di prospettiva. Ha percorso per decenni una strada lunga e diritta, e quando è arrivata davanti a un bivio è uscita di strada e si è arricettata.Vittima dell'assurda ostilità all'uso del volante, o dei suoi paraocchi. O forse, in una lettura tragicomica di amarezza monicelliana, della sconsiderata ostinazione a guardare indietro mentre si va avanti.

Bisogna sforzarsi di capire che diavolo sia questa democrazia. Io, da impenitente anglista, propongo una suggestione di matrice ammerigana, ovvero statunitense. Una poesiola scritta dal vecchierel canuto e bianco riprodotto nella foto, un signore di nome Walt Whitman:


Still Though the One I Sing

Still though the one I sing,
(One, yet of contradictions made,) I dedicate to Nationality,
I leave in him revolt, (O latent right of insurrection! O
quenchless, indispensable fire!)


E siccome vi voglio bene, nonostante tutto, vi regalo pure la traduzione di Giorgio Manganelli:

Anche se l'uomo che canto

Anche se l'uomo che canto
(Un tutto unico, ma fatto di contraddizioni) io lo consacro al sentimento nazionale,
Gli lascio la rivolta (o latente diritto all'insurrezione! oh inestinguibile, indispensabile fuoco!)

E vi regalo, guardate un po', anche la nota del traduttore: "Il messaggio gioca sulla doppia connotazione di one, vale a dire la pronominale (colui che, come nella traduzione) e la qualificativa one=uno (rispetto alla molteplicità e alla contraddittorietà)."


E adesso mi ritiro anch'io nelle mie personalissime liturgie quotidiane. Quando pensate di aver capito quel one fatemi un fischio, e ci confrontiamo. La democrazia, secondo il modestissimo parere di qeusto fesso, sta tutta lì.

venerdì 24 gennaio 2014

Il diavolo che conosci e quello che non conosci

Cari amici del Bradipo, se non siete ancora a conoscenza di questo fenomeno, lasciate che ve lo faccia presente: io sono tendenzialmente un incapace, un inetto, uno che di base fallisce nei suoi tentativi di impadronirsi della competenza. Quante ore ho passato con la chitarra in mano, solo per farmi respingere da lei come un amante indesiderato, che non sapeva toccare le sue corde! Meno male che le chitarre non possono denunciare molestie, altrimenti sarebbe da un carcere di massima sicurezza che scriverei queste righe. E tanti altri esempi potrei farvi, di risultati scadenti ottenuti in questa o quella attività.

In qualcosa ho raggiunto la sufficienza, come ad esempio nel fare il caffè, che  modestamente non mi riesce troppo male. Ma una cosa, almeno una, ho imparato a farla bene: parlare inglese. Sull'inglese non mi potete dire niente. Magari posso dire io qualcosa a voi, visto che pratico ossessivamente questo idioma; ho con esso un rapprto quotidiano e al limite della sensualità, perché mi sono reso conto che gli anglofoni, e in particolare i Britannici, sono gente che dà pane al pane e vino al vino, e questo mi piace molto. Gli Italiani sono bizantini, iper-ideologici, ridicolamente conservatori, fanno salti mortali pur di non cambiare idea (anche quando l'idea a cui si aggrappano con tanta pervicacia si è dimostrata ampiamente fallimentare). I Britannici no. Loro, quando vedono una vanga, la chiamano "vanga". Come tutti i popoli hanno il loro patrimonio di buonsenso accumulato in secoli di trasmissione orale di conoscenza empirica, e dunque un vasto repertorio di proverbi. Fra questi c'è il seguente: Better the devil you know than the one you don't. Meglio il diavolo che conosci di quello che non conosci. Come dicevo prima, "trasmissione orale di conoscenza empirica". Prima dell'affermazione del metodo scientifico, ogni innovazione è una scommessa. La gente è comprensibilmente riluttante a cambiare la via vecchia per la nuova, perchè le conseguenze non sono prevedibili in base allo studio di dati certi. E dunque spesso preferisce sopportare i mali presenti (the devil you know) piuttosto che rischiare di incappare in mali peggiori. Ma poi emerge una nuova stirpe di "dotti" che la Chiesa di Roma non può più ardere vivi, per varie ragioni, e si mette a giocare con i tubi e le provette. E piano piano costruiscono una conoscenza verificabile e rigorosa, basata certo su dati empirici, ma ottenuti in condizioni controllate e ripetibili. Nasce la scienza moderna.

Capirete, cari amici, che a questo punto io i diavoli li voglio conoscere tutti! Non ho più paura di loro. Anzi, semmai sarebbero l'ignoto, la superstizione, la magia che dovrebbero temere me, nelle loro incarnazioni squisitamente umane.
Un'incarnazione dell'ignoto, della superstizione e della magia. Un'incarnazione, peraltro, piuttosto in carne.
 
Questo, ovviamente, sempre che la scienza sia intesa come processo, e non come insieme chiuso di conoscenze e nozioni da trasmettere di generazione in generazione. E non è senza fatica che la prima accezione si afferma sulla seconda. Quando Darwin affermò che le specie animali e vegetali presenti sul pianeta erano il risultato di milioni di anni di evoluzione, e che in particolare la nostra si era evoluta a partire da un primate non molto dissimile dagli scimpanzè o dai gorilla, la comunità scientifica lo mise alla berlina. Evidentemente il DNA di quegli "scienziati" si era evoluto di meno, ed era più simile a quello del cercopiteco o come caspita si chiama che tutti dovremmo chiamare "nonno".
 
Non sono solo le scienze naturali a essere investite da questa rivoluzione. Anche nel campo delle discipline umanistiche (che non sono affatto vaghe e arbitrarie come a molti piace pensare) il diavolo non sa più dove nascondersi. L'inferno è un inganno che si può svelare. Grazie al rigore e allo spirito di indagine si può dare ragione, scientificamente, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dell'imperialismo, del razzismo, delle persecuzioni confessionali e di molti altri mali che purtroppo abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene. E così, dopo quella di Charles Darwin, un'altra illustre e folta barba si staglia all'orizzonte della Storia. Molti altri seguiranno questa tradizione di rottura, offrendo alla considerazione del pubblico i sistemi e strumenti di conoscenza più svariati, ma tutti comunque fondati sull'idea che la buona organizzazione della convivenza umana, del lavoro e del consumo, dell'istruzione e della correzione, delle forme di espressione del consenso e del dissenso siano questioni da risolvere scientificamente.

Questo perchè ormai il proverbio ha cambiato significato: il diavolo che conosci è meglio di quello che non conosci perché diventa inoffensivo. Si fa piccolo piccolo, abbassa lo sguardo e va via con la coda fra le gambe. E allora non dobbiamo rifuggirli, questi diavoli; li dobbiamo conoscere tutti, uno a uno, dobbiamo strappare loro il forcone da mano, spezzargli quelle corna che manco il Paparesta dei giorni migliori, e mandarli a morire nel campo di prigionia dei diavoli: il sapere condiviso. Non dobbiamo più convivere con loro. Certo, i diavoli sono come i papi: morto uno, se ne fa subito un altro. Ecco perchè non possiamo rifiutarci di capire il nuovo, oppure il nostro destino sarà una questione decisa a morra cinese tra un Belzebù e un Satanasso che avremmo potuto esiliare in qualsiasi momento.

mercoledì 22 gennaio 2014

Il generale Sanjurjo e i piani che non decollano

Cari amici, ogni tanto c'è bisogno anche di riunirsi tutti intorno al focolare domestico figurativo di un blog come questo, e raccontarsi storie edificanti, parabole che scaldano il cuore, rinnovano la fiducia nell'essere umano e ravvivano la speranza nel futuro. Proprio una storia così vorrei raccontarvi stasera: quella della morte del generale Josè Sanjurjo, già capo della Guardia Civil sotto la dittatura di Primo de Rivera, e partecipante di primissimo rango al piano di insurrezione armata che diede inizio alla Guerra Civile Spagnola.

In effetti, il generale Sanjurjo non arrivò mai a partecipare davvero al golpe: il piccolo aereo che avrebbe dovuto trasportarlo dal Portogallo, dove era in esilio, a Burgos, si schiantò contro una formazione rocciosa durante la fase del decollo. Il pilota aveva avvertito il tronfio militare che l'enorme baule in cui custodiva uniformi, insegne, stendardi e quant'altro era eccessivamente pesante per un apparecchio di dimensioni e potenza modeste. Eppure Sanjurjo non volle per nessuna ragione separarsi da tutto quell'armamentario che, ai suoi occhi, lo metteva al di sopra della plebaglia repubblicana. L'aereo prese fuoco, e lui morì insieme alla consorte. Il pilota, invece, rimase quasi illeso.

Dopo esserci rallegrati en passant, come è d'uopo di fronte alla morte di un reazionario della peggiore specie, faremo qualche considerazione, come al solito spicciola e gratuita, sulla natura umana. Pare che quando proposero a Churchill di tagliare i fondi alla cultura per farli convergere sulla Difesa, il pingue statista rispose: "Then what are we fighting for?" E allora per che cosa combattiamo? Ora, non so se sia vero, ma credo sia una frase illuminante per quanto riguarda il modo in cui l'essere umano costruisce la propria identità. Se al posto di Churchill ci fosse stato un operaio, avrebbe risposto senza esitazione: "Che si faccia quanto è necessario per salvaguardare la produzione". Se al posto di Sanjurjo ci fosse stato un contadino andaluso, avrebbe detto "Que se joda el burro" e avrebbe lasciato il ciuccio al suo destino in terra di Portogallo. Vuoi vedere che a Burgos non ci stanno i ciucci? E teniamo conto anche del fatto che il ciuccio, per il contadino, è uno strumento di lavoro. Le uniformi da parata, i galloni e via discorrendo sono oggetti senza utilità. Ma proprio per questo Sanjurjo doveva assolutamente portarli con sè. Per lavorare, un ciuccio vale l'altro; per non lavorare, ovvero per distinguersi dalla massa dei poveri cristi e vivere del loro lavoro, servono le uniformi da parata, i galloni, i pedigree, et similia. 

Il generale Sanjurjo era un nemico della democrazia e partigiano dell'autoritarismo. Ma non bisogna pensare che atteggiamenti come il suo siano necessariamente propri della destra. Tutt'altro. Se la sinistra, nonostante un momento di profonda difficoltà del capitalismo a livello globale non riesce a decollare, è proprio perchè non si convince ad alleggerire il suo bagaglio, a lasciare a terra tutto ciò che ne testimonia un pedigree ormai senza prestigio agli occhi dei più. I lavoratori italiani, così come quelli del resto d'Europa, non chiedono generali. Sceglieranno i loro leader in base al valore e all'abilità che sapranno dimostrare, e non si faranno impressionare dalle mostrine. La maggior parte di loro (specialmente fra i più giovani) non sa neanche a quali guerre si riferiscono. Sanno quale guerra va combattuta oggi, perchè sono già al fronte. La sinistra, come Sanjurjo, è "in esilio". Se lor signori si decidono a lasciar perdere quel baule, forse l'aereo riuscirà a decollare, e portarli nel vivo del combattimento. Se invece preferiscono passare in rassegna vecchi cimeli e rimembrare vittorie già rese inutili dalla controffensiva del nemico, facciano pure. Ma se caricano il baule sull'aereo, stiano attenti a non andare a sbattere. 

lunedì 20 gennaio 2014

Dire messa

Cari adepti, seguaci e acerrimi detrattori, buondì. Quella che vedete sopra è una scena di una delle migliori sitcom mai realizzate in lingua inglese: Father Ted. Abbiamo già fatto riferimento a questo gioiellino del light entertaiment. Alcuni pensano che le sitcom siano prodotti culturali di bassa lega. Sono, grosso modo, le stesse persone che disprezzano qualsiasi manifestazione dello spirito popolare quale è qui ed oggi, e vanno in visibilio per la taranta. Ebbè, fatevi un giro del Salento, e trovatemi una, dico una carusa con la taranta in corpo, che invoca l'aiuto di Santu Paulu di Galatina e si dimena come una selvaggia. La taranta è bella,  affascinante, è parte del nostro patrimonio culturale e come tale va conservata, ma è legata a un mondo che non esiste più. Oggi "popolare" è ciò che si rivolge tanto ai fruttivendoli quanto agli impiegati di banca. E i prodotti di quello spirito possono essere buoni o cattivi, ma in base alla qualità vanno giudicati. Chiudamo la parentesi.

In questo particolare episodio, dal titolo Speed 3, l'ingenuo Dougal, ovvero il sacerdote tontolone di cui vi ho già parlato, decide di provare la carriera di autista del milk float, il furgoncino usato per distribuire il latte. Il precedente autista, licenziato per colpa dello stesso Dougal e del suo collega Ted, piazza una bomba sul veicolo. Una volta che Dougal superi una certa velocità, la bomba sarà innescata; quando scenderà sotto quella velocità, esploderà. Avvertito da Ted del pericolo, un terrorizzato Dougal schiaccia l'acceleratore a tavoletta per mantenersi sopra la fatidica, vertiginosa velocità di quattro miglia all'ora, in attesa che qualcuno trovi una soluzione al problema. Ted chiama altri due preti di sua conoscenza, pensando forse che tre cervelli ragionano meglio di uno. Purtroppo per Dougal, quando i tre sacerdoti si incontrano, non fanno altro che prendere tè, raccontarsi aneddoti e divagare. L'unica iniziativa che riescono a prendere è quella di caricare un altare su un trattore e affiancare il furgoncino di Dougal per dire messa, e chiedere così a dio di salvare Dougal, ovvero di fare esattamente quello che dovrebbero sforzarsi di fare loro.  


L'aiuto dell'onnipotente, ahimé, non arriva. Ted torna a casa con gli altri due preti, e si ricomincia come prima. Il genio che aveva prodotto la brillante idea della messa suggerisce di celebrarne un'altra, al che Ted gli fa presente che la prima non ha sortito il minimo effetto, se non quello di perdere del tempo prezioso. Bisogna fare qualcosa di pratico. Il suo interlocutore non si dà per vinto. Insiste nella sua proposta, fino a farsi scappare un "Oh God, I love saying Mass!" che nella circostanza suona particolarmente ridicolo, ma che è la chiave per capire tanto il suo atteggiamento quanto il successo di Father Ted: in un periodo in cui l'Irlanda cominciava a cambiare, grazie alla tanto celebrata Celtic Tiger, la Chiesa appariva come un'istituzione superata e inutile. Graham Linehan e Arthur Matthews, autori del programma, sono stati i primi ad avere il coraggio di metterla alla berlina in un prodotto culturale rivolto a un vasto pubblico. Quella Chiesa che aveva gestito un potere enorme e parassitario nella bella Isola di Smeraldo, e che continuava ad avere tanta influenza che gli autori furono costretti a farsi produrre la serie da una casa di produzione inglese, per un canale televisivo inglese.

Il nostro paese oggi si trova in un guaio serio quasi quanto quello in cui è finito il povero Dougal. Se vogliamo salvarlo, dobbiamo fare qualcosa di pratico. Non possiamo perdere tempo, non possiamo metterci a rimembrare i bei vecchi tempi mentre fumiamo la pipa, e soprattutto non possiamo insistere a dire messa. Come osserva Ted, c'è un momento per dire messa, e un momento per agire. E questo, cari amici del Bradipo, è il momento di agire.

domenica 19 gennaio 2014

La libertà, la ragione, e il pazzariello al potere

Mannaggia alla pupazza! Cari amici, il tempo è uggioso, il Napoli si è fatto raggiungere a pochi minuti dalla fine da un Bologna in dieci uomini, e l'Italia continua a essere popolata di gente che si rifiuta categoricamente di ragionare. Questo mi stupisce fino a un certo punto; pur non avendo studiato psicologia, ho incontrato nozioni e concetti di questa bella disciplina qua e là, nel mio percorso di vita. Lo so benissimo che la massima parte della nostra attività cerebrale è pura irrazionalità. Ma sono convinto che, se non impariamo a ragionare, a rompere i coglioni a noi stessi, a imporci la dittatura della ragione, non andremo da nessuna parte come specie.

Io sono un partigiano della libertà, cari amici, ma non di quella "libertà" che si guadagna sottraendola al prossimo. Quella, io la chiamo arbitrio. Né credo che la libertà possa consistere nel fare sempre e comunque quel che ci pare; in questo caso, credo si dovrebbe parlare di autonomia, se non proprio di capriccio. La libertà è qualcosa che va oltre noi stessi. La libertà è l'unica dea degna di essere adorata. E, una volta che la si sia riconosciuta come tale, bisogna adorarla. La libertà è, paradossalmente, una questione di necessità. Se ho compreso bene il più complesso dei capitoli dell'opera dell'inglese anaffettivo, è proprio così. La libertà è la virtù: rifiutarla vuol dire fare il male.

Non avete capito, ne sono certo. Non sono tanto sicuro di averlo capito io, che non faccio un piffero dalla mattina alla sera e dunque rifletto che Cartesio mi fa una pippa, figuriamoci voi che la mattina vi dovete svegliare e andare a lavorare. Allora addentriamoci nell'attualità, così forse diventa tutto più chiaro. 

Uno vive tutta una vita pensando in bianco e nero, e all'improvviso si ritrova circondato da varie, indecifrabili sfumature di grigio. Che succede? Succede che gli schemi all'interno dei quali ci eravamo spiegati questo paese e il mondo cominciano a mostrare seri limiti. C'erano, in quella complessa equazione che è il divenire storico, dei fattori che non avevamo preso in considerazione, o avevamo sottovalutato. Ragionavamo come ci sembrava giusto, ovvero per semplici coordinate spaziali; e collocavamo da questa o quella parte fenomeni che avremmo forse dovuto leggere diversamente. Tanto eravamo intenti ad attendere Godot, che non ci siamo resi conto dell'arrivo del pazzariello che ne annunciava la scomparsa. Ci siamo fatti fare fessi: anche un pazzariello può esercitare il potere, se il popolo crede veramente che è asciuto pazzo 'o padrone. Il padrone non è mai stato così savio, e l'inganno mai così efficace.

Poi arriva qualcuno che dice una cosa estremamente semplice: non possiamo lasciarci governare da un pazzariello. A prescindere dalla presunta pazzia del padrone. A prescindere dalla qualità della merce magnificata (che è comunque scarsa). Il pazzariello reagisce. Reagisce con la menzogna, con lo sberleffo, con la diffamazione, con il vituperio. Nel frattempo si scopre che il pazzariello compare, in varie forme, in alcune delle pagine più oscure della storia recente di questo paese. Eppure il popolo, che non vuole ragionare, ma essere rassicurato, circuito, rabbonito, che insomma non vuole essere libero, si stringe intorno al pazzariello. Qualcuno ostenta lo stesso disprezzo per il pazzariello e per il suo detrattore, come se il nocciolo della questione non fosse quello espresso all'inizio del capoverso: non possiamo lasciarci governare da un pazzariello.

Mille percorsi mentali, mille sofismi, mille distinguo e mille professioni di fede si frappongono fra alcuni di noi e la necessaria conclusione di un ragionamento corretto e libero: dobbiamo cacciare il pazzariello. Perché? Perché, fintanto che ci affideremo a un pazzariello, non saremo liberi. E il rifiuto di essere liberi, ovvero il rifiuto di ragionare, è il male.

venerdì 17 gennaio 2014

Turpitudine

In Psicosi multipla Antonio Rezza fa dire a un suo personaggio: "Vieterei alle persone di accoppiarsi se distanti dal concetto di bello". Lungi dal vostro Bradipo voler vietare alcunché a chicchessia, ma queste parole mi sembrano contenere una profonda saggezza. Il brutto è onnipresente, e ha una caratteristica nefasta: è capace di distruggere la bellezza. Come le erbacce, necessitando di meno nutrimento e meno cura per sopravvivere, soppiantano i più bei fiori in un giardino, così la bruttezza soppianta la bellezza in qualsiasi paesaggio umano. Perchè la bruttezza condivide una caratteristica con le erbacce: vive di poco.

Quando parlo di bruttezza non parlo di asimmetria o mancanza di proporzione nelle forme. Quella è una espressione decisamente minore della bruttezza. Quello a cui mi riferisco è la assoluta, orripilante turpitudine di tutto ciò che vive (si fa per dire) in cattività. Mi riferisco al Calebano della Tempesta, agli animali che impazziscono di noia dietro le sbarre di uno zoo, delle tetre orde di impiegati municipali che affollano la metropolitana di Roma la mattina presto. Mi riferisco a certi anarchici di un secolo e mezzo fa, resi anemici, sdentati, ciechi da condizioni carcerarie raccapriccianti.

Tutti questi esempi però riguardano esseri che non hanno avuto scelta. A questi la turpitudine è stata imposta. Altri, per quanto assurdo possa sembrare, la scelgono: la assumono attraverso l'accettazione della convenzione. A questa categoria di esseri umani oltremodo tristi l'autorità non c'è neanche bisogno di imporla: indossano il giogo come se fosse un qualsiasi indumento. Come Adamo ed Eva dopo aver "peccato", hanno vergogna della propria "nudità". Non è che io voglia proibire a queste persone di accoppiarsi, per carità! Ma se si suicidassero in massa, come il protagonista del cortometraggio a cui facevo riferimento, non credo che ne sentiremmo troppo la mancanza.

Bello è solo ciò che è vivo, rigoglioso, fertile. Ciò che si sviluppa liberamente, secondo la propria natura. Tanto è evidente la veracità di questa proposizione, che spesso gli uomini hanno assegnato le fattezze di una bella donna agli ideali per cui combattevano. La Francia rivoluzionaria è una bella popolana scarmigliata, la Gran Bretagna una splendida fanciulla che brandisce un tridente, la Giustizia una leggiadra signora bendata che fa un uso della bilancia un tantinello più nobile e socialmente utile di queste quattro peretelle contemporanee drogate di barrette energetiche e fanatiche dello spinning. Queste ultime sì che sono turpi, nonostante i titanici sforzi che compiono per ridurre la propria massa grassa. Come se poi l'idea di bellezza avesse qualcosa a che fare con la scarsità. Siete turpi, mi fate schifo. Le palestre sono fortezze di turpitudine. Smettete di intossicarvi di ideologie confezionate per gli schiavi, buttate la pasta e liberatevi.

Eh, come se non fosse chiaro il motivo per cui vi tuffate a pesce nel mare del piattume e dell'omologazione. Voi volete essere erbacce, non fiori. Avete paura della fragilità. Preferite essere persone brutte, e delegare eventualente a tutta la merce che accumulate intorno a voi la funzione di abbellire le vostre vite profondamente turpi. Arredate le vostre gabbie, talvolta anche con gusto ed eleganza, e non vi passa neanche per l'anticamera del cervello di provare a uscirne. La porta, ve lo assicuro, è aperta.

Cari amici, perdonatemi se oggi sono stato oltremodo pretenzioso e cervellotico. Sarà la stagione, sarà il tempo che tinge d'argento le mie tempie, sarà che, se non vi convincete in massa a uscire dal bozzolo, io continuerò a essere circondato da forme di vita inevitabilmente ostili. E per sopravvivere mi toccherà restare erbaccia, fra le erbacce.

martedì 14 gennaio 2014

Il politico, il pre-politico e l'anti-politico

Dovreste avere ormai capito, cari amici del Bradipo, che sono un estimatore dell'arabo pazzo. Eppure anche lui ha commesso un errore. No, non parlo del fatto che non ha mai usato la brillantina Linetti; il suo errore è stato supporre che gli uomini avrebbero capito che dovevano accettare dio, e allo stesso tempo liberarsene. Ha peccato di ottimismo. Ha sopravvalutato l'intelligenza dei suoi simili. O forse, più semplicemente, ha scritto di quella complessa dialettica, inseparabile dall'esperienza umana, semplicemente per compiere il suo dovere, e fornire un contributo (nel suo caso importante, a mio modestissimo giudizio) alla comprensione dell'umana convivenza e delle sue regole presenti e futuribili.

Il vostro umile servo, pur conscio della propria sconfinata ignoranza e discreta idiozia, intende fare lo stesso. La sua principale motivazione sorge dal prendere atto che, mentre l'uomo (che è necessariamente declinato al plurale) si dibatte nelle sue catene per far ripartire una Storia criminalmente immobile in questi paraggi, dio e i suoi sacerdoti gli si parano innanzi minacciosi, ricorrendo ora al dileggio, ora all'ingiuria, incolleriti dall'apostasia e da quella pluralità conquistata distogliendo il guardo dalla volta celeste, e rivolgendolo ai propri simili; a coloro che una natura mortale, finita, fallace e debole affratella. Dovrebbe destare sospetti la favola secondo cui dio avrebbe creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Personalmente, ritengo molto più probabile che l'uomo, nella meschinità della sua infanzia collettiva, abbia creato dio per proiettare su di lui tutto ciò che gli sfuggiva. Dio è la rinuncia, è la delega, è il non ce la faccio, nun ne tengo 'ncuorpo, nunn'è arta mia.

Accade poi, in tempi e forme diversi a seconda dei luoghi, che l'uomo si rende conto di una verità alquanto impicciosa: la divisione del lavoro lo rende dipendente dai suoi simili. Fino a un certo punto dio, la capa di puorco intorno a cui le mosche ronzano e banchettano, può assicurare la preservazione dell'ordine sociale e della pubblica quiete. E allora sacerdoti, monarchi, dotti, insomma tutti coloro che si servono di dio per raggiungere e mantenere posizioni di privilegio all'interno di quell'ordine, si arrendono alla necessità di ammettere l'uomo al cospetto di dio. Questo, e non altro, è la politica. Una dialettica fra il singolare e  il plurale, la norma e l'apostasia, l'astratto e il concreto, l'eterno e il contingente.

La polis è il luogo in cui questo concetto si affaccia nella storia del nostro continente. La radice stessa della parola indica pluralità: pluralità di soggetti, di condizioni, di interessi, di posizioni. L'unico modo per gestire efficacemente questa pluralità è discutere. L'alternativa è l'eterna guerra di tutti contro tutti, a scapito di tutti. La società ormai è costituita da classi con funzioni diverse, differenti visioni del mondo, e non è più pensabile che tutti obbediscano alle stesse norme, al di fuori di un ristretto numero di divieti e prescrizioni che si suppongono imposti nell'interesse comune, ovvero le leggi della polis stessa. Proprio la necessità di determinare queste leggi in modo tale che tutti le riconoscano e le osservino genera i primi esempi di democrazia.

Ma i depositari dell'idea di dio non si arrendono. Se il lavoro e i progressi fatti dall'uomo nel trasformare la natura per creare ricchezza hanno prodotto la politica, il monopolio del sapere da parte di caste autoreferenziali e parassitarie tiene viva l'idea di dogma, e di privilegio: è l'esistenza di un oltre, invisibile, impalpabile e inconoscibile ai più, a giustificare una distinzione qualitativa, e non solo quantitativa, fra gli uomini. In altre parole, il successo nella propria attività può rendere un uomo più ricco di un altro; ma solo il fatto di stare tazza e cucchiaro con dio può rendere un uomo migliore degli altri, superiore

Tutta la storia del genere umano può essere letta come una lunghissima e cruenta battaglia fra l'uomo e dio. E, poichè ci è impossibile vivere senza di lui, la vittoria difficilmente sarà mai definitiva. Ma gioverebbe sicuramente, nel momento in cui gli uomini, schiacciati dal peso di tanto infinito, alzano la testa, ricordarci da che parte sta dio, e quale causa serve.

P.S. Una precisazione che ritengo di dover fare, a scanso di equivoci: non parlo assolutamente di dio in termini teologici. La sua esistenza o assenza è assolutamente indifferente a questo discorso, così come lo è la fede. Molti cristiani sono infinitamente più tolleranti di certi atei; ed è proprio a questi ultimi che è diretto questo modesto e - spero - non troppo noioso scritto.




mercoledì 8 gennaio 2014

Senza cuore



Il mondo è una foresta di simboli, diceva un erotomane sifilitico, vizioso e laido, ovvero un francese. Deve essere per quello che il sogno della cameriera della famiglia Cimmaruta sembrerebbe descrivere la traiettoria seguita dalla sinistra negli ultimi decenni, in Italia. La pioggia incessante che diventa fuoco e che comincia a bruciarla, mentre lei cerca invano di ripararsi sotto l'ombrello, è un'allegoria che le calza a pennello. Come lo è, forse ancora di più, il cuore che le sfugge per non lasciarsi bruciare. Solo che Marina Confalone si rende conto che senza cuore non si vive, e cerca di riacciuffare il suo; la nostra sinistra, per buona parte, no. Spara senza remore al pezzente, e beve il suo sangue. Chissà, forse è davvero convinta che si tratti di acqua. Ma mentre la crisi crea nuovi stuoli di poveri, un nuovo proletariato con cui i cultori del vecchio non sanno dialogare, la solidarietà a chi muore dissanguato non arriva da sinistra.

La cosa più sconcertante è che, quando il pezzente in agonia è un piccolo imprenditore o un commerciante rovinato dalle stesse politiche neoliberiste che hanno lasciato senza lavoro tanti operai, insegnanti, impiegati di concetto e via discorrendo, pare esserci addirittura un senso di soddisfazione da parte di tanti "compagni". Come se il volto deforme e disumano del capitalismo potesse essere rappresentato dal salumiere sotto casa, o dall'idraulico che fattura un po' di più della media dei suoi colleghi. E quando qualcuno pone il problema, viene identificato come persona "di destra". Quelli, mi è stato detto più volte, sono i padroni, e non ci riguardano.

Quelli, cari amici, sono esseri umani che hanno perso tutto. Scusatemi se sono fissato con Eduardo, ma io sono napoletano, c'aggia fà? Per questo farò riferimento a un'altra scena di un'altra commedia del nostro più rappresentativo drammaturgo, quella alla fine di Napoli milionaria, in cui il ragioniere porta ad Amalia la medicina che può salvare la bambina malata. A quella donna Amalia che lo aveva ridotto all'osso, senza mostrare pietà né per lui né per i suoi, di figli. Perché, dice il ragioniere, a un certo punto ci dobbiamo stendere una mano l'uno con l'altro.

La società italiana, in cui tradizionalmente il grado di mobilità sociale è sempre stato molto basso, sta vivendo oggi delle trasformazioni. Così come la guerra aveva arricchito donna Amalia ai danni del ragioniere, così il nuovo, spregiudicato capitalismo di matrice UE sta creando nuovi ricchi e nuovi poveri. Se il nostro obiettivo è davvero eliminare il divario fra le classi, se vogliamo che i ricchi siano meno ricchi e i poveri meno poveri, questo è il momento di praticare la solidarietà. Questo è il momento di essere empatici, aperti al prossimo, in una parola umani. Non dobbiamo infierire sul ragioniere, dobbiamo stendergli una mano. E dobbiamo assolutamente riprendere il cuore che ci è sfuggito dal petto, perché senza cuore non si vive, a meno che non ci si abbeveri del sangue dei pezzenti.

martedì 7 gennaio 2014

Un malore diffuso

Qualcuno che scrive molto meglio di me, e che probabilmente è anche più intelligente di me, ha già scritto di Bersani e del suo malore, con tutti gli annessi e connessi. Ho già condiviso il suo pezzo, dunque ora potrei anche astenermi dal dire la mia, considerato che sono d'accordo al 100% con il blogger in questione. Eppure c'è in me una capacità di indignazione che non accenna a scemare, nonostante chi la esprime sia indubbiamente uno scemo. E visto che difficilmente si avvererà mai il mio sogno di irrompere nella redazione de l'Unità col fucile spianato e gridare "I DOCUMENTI, PRESTOOO!!!" fa d'uopo che io mi sfoghi alla solita, inane maniera: scrivendo.

Non mi darete mai del populista abbastanza da farmi smettere di pensare che un giornalista il quale si schieri, in questo paese e in questo momento storico, a favore dello status quo, è una persona che ruba il suo stipendio. Si può avere questa o quella opinione, ma per uno che è andato a scuola pensare che le cose possano continuare così è da criminale, o da idiota. Il giornalismo è nato per informare i cittadini (the public, come si dice in inglese), aiutarli a destreggiarsi in un mondo sempre più complesso, in cui i nessi di causa ed effetto si moltiplicavano esponenzialmente e mettevano in relazione fenomeni ed eventi apparentemente lontani. Se il giornalista rinuncia a ricercare la verità, diventa inutile; se si schiera con il potere per il proprio interesse personale o di casta è deleterio e antisociale.
 
Questo articolo è una perfetta summa di quanto detto. Ci vanno ripetendo fino alla noia che i "grillini" sono gretti, meschini, forcaioli e quant'altro. Il malore di Bersani, prontamente strumentalizzato dal signor Jop, ha rappresentato un'ottima occasione per ribadirlo. Non c'entrano niente, evidentemente, le trasformazioni sociali determinate dalle politiche neoliberiste di matrice bipartisan portate avanti in questo paese negli ultimi due decenni. Non è che siamo diventati gretti, meschini e forcaioli perchè ci hanno tolto ogni sicurezza, ci hanno resi più poveri, costringendoci al contempo a lavorare di più (quando il lavoro c'è), ci hanno mangiucchiato pian piano il diritto all'assistenza sanitaria e all'istruzione (e non hanno ancora finito), ci hanno, in una parola, abbrutiti. Chi ce l'ha con il PD evidentemente è un reazionario, un ignorante, un populista e via dicendo. Con buona pace del barbone di Treviri, le condizioni materiali dell'esistenza non c'entrano niente.

Per dimostrare la pochezza morale di questi nuovi barbari l'autore dell'articolo non esita a proporre una interpretazione degli eventi politici recenti assolutamente distorta. Bersani non ha proposto al M5S "un percorso comune e positivo per il Paese". Ha semplicemente chiesto i voti per far partire un suo governo. Ha inoltre dichiarato senza tanti giri di parole che l'idea di governare insieme al M5S non era mai stata presa in considerazione (come è del resto ovvio). Bersani ha semplicemente adempiuto a un passaggio formale necessario, nel tortuoso cammino verso le larghe intese che si erano profilate come unica soluzione possibile (dal punto di vista del suo partito) all'indomani del voto.
 
Ma  Jop questo o non lo capisce, o fa finta di non capirlo. Sostiene che Grillo fonda il suo potere sull'astio, sui sentimenti più deteriori e le pulsioni più basse. Bisogna essere dei tontoloni per non capire l'operazione che sta compiendo il PD, attraverso le sue bocche di fuoco mediatiche: sta trasformando Grillo nel nuovo Berlusconi. Gli Italiani sono in larga maggioranza gretti, ignoranti, incapaci di ragionamento politico. Anche molti di quelli che votano PD. Per questo vengono aizzati contro il comico genovese. Tale è la pochezza politica del nostro centro-sinistra, e tanto lampanti le sue contraddizioni, che gli è necessario costruire il proprio consenso elettorale sulla paura dell'altro, esattamente come per decenni ha fatto la DC attraverso l'anticomunismo. Questo risulta ancora più facile dal momento che quei signori hanno veramente paura di Grillo e del suo movimento.Non della grettezza, della meschinità e della faziosità che anche loro sfruttano, nelle forme a loro congeniali; hanno paura dello spirito popolare che incarna. Hanno paura del fatto che milioni di persone si ritrovano in quel movimento. Hanno paura della presa impressionante che ha sul senso comune, e che loro chiamano "populismo".

Il malore di Pierluigi Bersani sembra quasi una trovata narrativa. Parrebbe simboleggiare lo stato di salute precario di tutta la nostra società, tanto della sua economia quanto della sua vita pubblica. Pare che l'ex segretario piddino si stia riprendendo. Speriamo che lo stesso si possa dire di noi. Sempre che una simile speranza non sia becera e populista.