lunedì 29 settembre 2014

La vecchiaia e la morte

Cari amici, se avete il masochismo di seguirmi con regolarità saprete che non parlo quasi mai dei fatti miei, per un semplice motivo: io non ce li ho, i fatti miei. Io non ho una vita degna di tale nome. O, per meglio dire, non ce l'avevo fino a una settimana fa. In pochi giorni di vita a Genova ho avuto tre chiamate per supplenze da scuole pubbliche e un colloquio con la preside di una paritaria. Preside la quale mi ha contattato mezz'ora, non vi dico fesserie, mezz'ora dopo aver ricevuto la mia email. Due sono, dunque, le constatazioni da fare: la prima è che pare comincino a esserci le basi materiali affinché io possa avere una vita; la seconda, che farà arrabbiare qualcuno di voi solo in quanto profondamente, amaramente vera, è che Napoli è un cadavere.

Genova, capoluogo della Liguria, regione più vecchia d'Italia, sarà pure una sonnolenta ottuagenaria; nei pochi giorni trascorsi qui, questa è l'impressione che mi ha dato. Ma la differenza fra un'ottuagenaria e un cadavere è ben chiara a tutti, voglio sperare. Sarebbe alquanto increscioso se quel practical joke che è lo stato italiano, per risparmiare sulla spesa pensionistica, cominciasse a interrare anziani. Gente che non è morta, ma che lo sarà presto, mi direte; e un giorno questa grottesca logica potrebbe non essere tanto lontana dalla realtà. Intanto, però, il vegliardo deambula, lento pede come gli si addice, e si gode la vita in una città rilassata e rispettosa degli spazi personali. Lo sapevate che la croce di San Giorgio, vessillo della perfida Albione, è stata a questa concessa in uso dai Genovesi? Sembra che il vostro Bradipo non sia finito per caso in questa città. Qui i vicoli sono più stretti che a Napoli, ma la gente non ti sale addosso. Il mio spazio è il mio spazio. Se pensate che questa sia freddezza vi consiglio di provare a stare una settimana senza essere praticamente aggrediti ogni volta che uscite di casa. Ma stiamo divagando. Torniamo a parlare di morte.

Ci sono tre cose che si possono fare con i morti: la prima è mangiarli, ma non ve la consiglio se eravate legati al defunto, la seconda è sotterrarli, e la terza è mummificarli. Quest'ultima è la sorte toccata alla mia città. Imbalsamata, messa in una teca e preservata in saecula saeculorum dal contatto col mondo dei vivi. Napoli è un bellissimo cadavere, ed è lodevole cercare di strapparla all'orrore della putrefazione e alla tristissima sorte dell'oblio; ancora più lodevole sarebbe provare a resuscitarla. Le possibilità sono pochissime, praticamente nulle. Me ne rendo conto. E certo non saranno gli abitanti di questa specie di santa reliquia, abitudinari come il sangue di San Gennaro, a dare la spinta necessaria per strapparla alla morte.

Beh, che vi devo dire? Io corteggerò la mia vecchietta cortese e arzilla, passeggerò con lei sul lungomare allagato dal sole, seguirò una frugale dieta di focacce e trenette al pesto (i vecchi, si sa, mangiano poco), e invecchierò con lei guardando placidamente un tramonto dopo l'altro, quando il sole si va a coccare a mare e muore sereno nel suo letto dorato, dopo aver vissuto.  

giovedì 11 settembre 2014

Il diritto di Don Abbondio

"Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi".

Siamo nell'anno 1628, e don Abbondio sta facendo ritorno a casa per la solita strada. Non è una persona di grande ingegno o cultura, nè di particolare prestigio, se non quel poco di cui può godere un semplice curato di campagna. Non è neanche coraggioso, Don Abbondio, non è certo fatto della stoffa dei martiri; e non ha amicizie in alto loco che lo possano proteggere. Don Abbondio è un debole, alla mercè delle angherie e delle prepotenze di chi può permettersi dei bravi, ovvero una milizia privata. Non meglio attrezzati di lui a difendersi dal sopruso sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, gente umile che non porta la spada. Vivono in una società che è ancora, per molti versi feudale; specialmente per quello che riguarda le condizioni di vita dei poveracci come loro, e i loro rapporti con il potere costituito. Vivono in un mondo in cui le armi e la legge sono essenzialmente la stessa cosa.

Dal 1628, anno in cui la vicenda immaginata dal Manzoni appare assolutamente verosimile, ad oggi, qualcosa è cambiato. I despoti, incalzati dalle folle urlanti, hanno magnanimamente acconsentito a illuminarsi, onde evitare che ad illuminare il cielo nottuno fossero le fiamme che si levavano dai loro palazzi. Hanno concesso costituzioni, hanno istituito assemblee elettive, hanno limitato i privilegi e l'arbitrio delle aristocrazie. Mentre livree e parrucche incipriate retrocedevano, i ceti produttivi avanzavano, e strappavano una conquista dopo l'altra. E quando l'esercito dei salariati creato dalla Rivoluzione Industriale ha preso coscienza della centralità del proprio ruolo nella produzione e distribuzione della ricchezza, non h tardato a mobilitarsi per far sentire la propria voce. Anche loro hanno ottenuto conquiste importanti.

Tutto questo è stato reso possibile da un fenomeno ben preciso: la formazione del concetto di Stato moderno. Senza l'idea che, per ottenere e mantenere un ordine fondato sulla giustizia, è necessario disarmare i bravi, non saremmo mai usciti dal bivio presso il quale gli sgherri di Don Rodrigo fermano Don Abbondio e gli fanno la camorra che dà il LA ai Promessi Sposi. Qualsiasi possa essere la nostra idea di giustizia, io credo che sia importante ricordarci sempre di questo fittizio ma purtroppo verosimile sopruso, prima di contestare l'idea del monopolio statuale della forza.

Da alcuni decenni a questa parte si è fatta strada nel mondo un'idea antisociale e pericolosa: quella che lo Stato debba retrocedere rispetto alla sfera individuale. Questa idea potrebbe anche essere valida, se avessimo imparato a fare una chiara distinzione fra il diritto dell'inidviduo e il sopruso del forte che il diritto sancisce. In una società profondamente asimmetrica nei suoi rapporti socioeconomici, questa ritirata dello Stato vuol dire tornare dritti dritti fra le braccia di Don Rodrigo e dei suoi bravi. In questa società colui che, a differenza del mite Don Abbondio, ha la cattiveria che serve a minacciare, a picchiare, a uccidere, ne fa un patrimonio. Sia che porti una divisa, sa che vada in giro in borghese, il violento è al servizio dell'arbitrio. Può esercitarlo in proprio o per conto terzi, fa poca differenza. Nel momento in cui viene meno il concetto di vita collettiva retta da regole comuni, contestabili solo sul piano politico, e dunque ricercando il consenso necessario a cambiarle, viene meno ogni argine al "si salvi chi può".

So di andare controcorrente, e nei post precedenti appare evidente, credo, il perchè. Ma io, che i bravi non li ho mai potuti sopportare, reclamo il diritto del mite a essere salvaguardato. Reclamo il diritto dell'anziano a non essere investito da qualcuno che poi scappa via senza soccorrerlo perchè è sprovvisto di patente e assicurazione; reclamo allo stesso tempo il diritto a essere fermato dalle forze dell'ordine senza subire minacce o violenze verbali e fisiche. Reclamo il diritto, mentre me ne torno tranquillamente a casa, a non dover alzare gli occhi dal breviario - o dal Kindle - per assicurarmi che lì dove la strada si biforca non ci siano ad aspettarmi uomini armati dalla barbarie.

mercoledì 10 settembre 2014

Partire dalla fine


Cari amici di questo blog sprovveduto e cazzaro, buon pomeriggio. Basta parlare di sceriffi e indiani, leggi e norme, grilletti sensibili e sicure staccate. Oggi voglio librarmi leggiero nell'aere dell'astrazione. Io sono un osservatore dell'essere umano. Preferisco, nella maggior parte dei casi, osservarlo da lontano. Esito, titubo, non reputo sicuro avvicinarmici troppo. So quanto sia feroce, dotato di un'arma poderosa e difficilmente gestibile che a nessun altro animale la Natura ha donato: la fede. E allora mi affaccio a un balcone, e come in una vecchia canzone di uno stimabilissimo tabagista erotomane, guardo passare gli stronzi. Non se ne abbiano a male coloro che dovessero sentirsi chiamati in causa: l'epiteto è un'esigenza ipertestuale, e non c'è da parte mia rancore alcuno. Tanto più che lo stronzo potrei essere io. Ognuno prenda le precauzioni del caso, se lo ritiene opportuno e desiderabile.

Oggi parliamo di fede e ragione. Un argomento leggero leggero, non vi pare? Ma ve l'ho detto che questo blog è sprovveduto e cazzaro. Nello scrivere i miei post io seguo un solo criterio: quello di riempire vuoti percepiti. Se i miei two cents, come dicono a Mariglianella, vi fanno comodo, metteteveli in tasca; altrimenti lasciateli dove sono, io non mi offendo. 

Dunque, partire dalla fine. In una narrazione, è perfettamente legittimo. L'autore, essendo demiurgo e padrone incontrastato del testo, nei limiti formali che lui stesso si è posto, può fare lo que le da la gana, come dicono a San Giorgio a Cremano. L'autore, al momento dello scrivere, è creatore, è normatore, è dio. Molto più frustrante la realtà, in cui mille nessi di causa ed effetto, attuali o potenziali, ti tengono in scacco. Ad esempio, nella mia men che mediocre opera di fiction, io ho ucciso un perfido e cinico professore universitario; nella vita reale non mi è mancata occasione di incontrarne più di uno, ma non ho mai osato neanche alzare la voce contro di loro, sapendo che sarei stato brutalmente represso se l'avessi fatto. Crocifisso in aula magna, roba così... Ma stiamo tergiversando. Il punto è che, nella realtà, il più vincolante degli elementi è il tempo. Questo, a meno che certe teorie di cui non ho mai sentito discutere prima della quarta birra, ma che comunque non sarei in grado di comprendere, siano esatte, procede in una sola direzione. Per questo, nella realtà, se vogliamo scoprire la verità su un evento o un fenomeno oggetto di indagine, dobbiamo procedere dall'inizio verso la fine. Acquisire elementi, confrontarli, sottoporre le nostre ipotesi al vaglio della ragione, e solo dopo aver compiuto questo percorso pronunciarci ed esclamare: "Il colonnello Mustard in cucina con il candelabro!"

"E che palle!" mi dirà qualcuno. Costui ha la fede. Di qualunque cosa stiamo parlando, la risposta è già lì, nella sua rappresentazione. Qualunque cosa non può che essere una delle tante manifestazioni di Dio, un capitolo, un paragrafo, una riga del suo sontuoso libro in cui il Diavolo ci è già stato mostrato con le spire nel sacco. Dunque, la linearità della narrazione si rompe, il dottrinario rifiuta di partecipare alla scrittura collettiva di quel libro pessimo, noioso, raffazzonato che è la storia di tutti noi, e aggiunge una postilla al suo tomo polveroso ricolmo di verità.

Che succede quando il dottrinario si confronta con il resto di noi poveri mortali, che brancoliamo umilmente nel buio, sospettando ora del maggiordomo e ora della giovane e irrequieta ereditiera, cercando indizi con la lente di ingrandimento e provando a ragionare con il nostro Watson, il nostro Biscuter, o addirittura magari dovendoci arrangiare con un Catarella qualsiasi? Che lui arriva e dice una cosa tipo "SO' STATI I ZINGARI!!!!!" (cusate il caps lock, ma credo che qui ci stesse tutto). E fa di tutto per venderci il suo finale, peraltro ormai trito e ritrito. Hai voglia di ripetere che questo elemento non combacia, che quella ricostruzione non convince, che i dati mostrano altro. Lui insisterà, se non riesce a prevalere dialetticamente vi sminuirà, vi attaccherà, vi ignorerà. Ma cosa pretendete? Gli avete toccato lla parola del Signore. Pensate cosa vorrebbe dire scoprire che non esistono Dio e il Diavolo, i santi e i demoni, ma solo il buon ordine e il delitto, e che sta solo a noi indagare e riformare. Gli assassini peggiori sareste voi. Il vostro deicidio ci lascerebbe tutti orfani di un finale veramente definitivo, con l'insopportabile angoscia di essere solo una riga, una parola, un fetente di segno di interpunzione nella storia, fluviale quanto mal scritta,  di una umanità piccola, fragile, incerta.

martedì 9 settembre 2014

Via, via, la polizia!


Cari lettori, vi tocca un altro post sulla tragedia di via Cintia. Mi ha così colpito la reazione dell'opinione pubblica a quell'evento, che non riesco a smettere di pensarci, e quindi di scriverne. Forse ricorderete il post sull'ispettore Callaghan, e le accuse di fascismo che gli venivano mosse dalla mia augusta genitrice. In numerose occasioni il babbo ed io, a cui invece piaceva lo sporco Harry, ci siamo beccati epiteti poco lusinghieri. "Criptofascisti" non andava ancora di moda, ma il senso era quello. Il motivo credo, o almeno spero, di averlo spiegato a sufficienza: la società italiana non riesce a concepire il concetto di delitto e castigo. Eppure a me, da studente di Scienze Politiche, bastò aprire il Barile (non quello di birra, che pur ci è congeniale, ma il manuale di diritto pubblico) a pagina uno per incontrare il concetto dello stato contemporaneo come fondato su una cosa denominata monopolio della forza. Occhio a questo concetto, che è centrale nel mio (tentativo di) ragionamento. Callaghan si batte contro una società corrotta, in cui il denaro ha distrutto ogni più elementare norma di buona convivenza. Insomma, è un amico dell'ordine. Se qualcuno non riesce a distinguere l'ordine dal fascismo, non è colpa mia.

In questi giorni ho letto analisi che paragonano l'episodio del Rione Traiano a quello di Ferguson. Mi sembra un paragone un po' forzato. Al di là del fatto che negli Stati Uniti esiste una minoranza etnica creata dallo schiavismo che ancora oggi, per quanto ci faccia schifo e/o meraviglia, è vittima di pregiudizi razzisti, lì l'opinione pubblica radicale non mette in dubbio che Ferguson, Missouri, sia parte degli Stati Uniti d'America, e che debba essere soggetta alle sue leggi. Le quali poi si potranno contestare sul piano politico, contro le quali si potranno anche organizzare iniziative di disobbedienza; ma perchè si vogliono, si reclamano, si pretendono regole diverse, NON la totale assenza di regole. Mi fa sorridere che molti non si accorgano di come deplorare l'orrore neoliberista da un lato, e giustificare certi atteggiamenti di spavalda, antisociale strafottenza dall'altro, sia una contraddizione grande come una casa. Se stabiliamo che dobbiamo essere corresponsabili, solidali, cooperativi, e che le nostre società devono essere organizzate intorno a quei principi, dobbiamo stigmatizzare tutti quei comportamenti e quelle logiche antitetici ai nostri valori, che oscurano i nostri orizzonti. 

Naturalmente la risposta emotiva alla guapparia implicita in un discorso di Marchionne non può essere la stessa che avremo di fronte alla guappparia esplicita e primitiva di chi, per colpe non sue, non è in grado di immaginare una vita diversa. Ma far passare quest'ultima, rinunciare a contrastarla come va contrastata l'idea che il lavoro sia un privilegio e non un diritto, è un grosso errore. Significa consegnare ragazzi come Davide Bifolco a personaggi come quelli che hanno approfittato della sua morte per dire che loro la polizia, nel loro quartiere, non ce la vogliono.

Io penso che la polizia debba essere soggetta come tutti a regole e leggi, e come vi ho già detto chiaramente non voglio sceriffi nella mia città e nel mio paese; ma non voglio neanche che abbandoni le nostre strade, perchè vorrebbe dire lasciarle all'arbitrio, alla violenza sconsiderata e incosciente di chi, lungi dal desiderare di porre fine alla propria oppressione, desidera solo restituire qualche colpo. Io voglio che la polizia ci resti, in quelle strade, ma non più da sola, a esercitare una funzione di repressione che da sola è unicamente, torniamo sempre lì, arbitrio e violenza. Io voglio che lo Stato si prenda le sue responsabilità, perchè il Rione Traiano è Italia, non una cazzo di riserva indiana. Napoli è Italia, ed è in credito con la Storia. Il Sud è Italia, e la sua popolazione tanto italiana quanto quella di Treviso o Alessandria.

Chi pensa che Davide Bifolco sia stato ucciso dallo Stato secondo me si sbaglia di grosso. La sua morte si è prodotta in un vuoto lasciato proprio dallo Stato, che un tempo non si limitava a reprimere. Non so chi può salvare il Rione Traiano, ma sono certo che non lo farà chi dice "la camorra ci difende, lo Stato no!". Se questa istituzione obsolescente e corrotta, ma per il momento insostituibile, completa il suo ritiro dal "teatro di guerra", abdicando a una delle poche funzioni che ancora svolge, il Rione Traiano è perduto, i ragazzi sono perduti, noi tutti siamo perduti. E adesso che mi avete fatto sentire un vecchio acido e bofonchiante mi reco ai giardinetti ad agitare il mio bastone e gridare che si stava meglio quando si stava peggio.

domenica 7 settembre 2014

La civiltà del clan


Cari amici, l'estate sta finendo, e un anno se ne va. Devo tornare a scuola, angoscia a volontà. In spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più. Mio blog prediletto, mi resti solo tu... Una amena filastrocca, ma ridendo e scherzando si dicono le più grandi verità. Se pesiamo questa vita al netto dell'immondizia che ci propina dalla mattina alla sera in varie forme, soprattutto per colpa nostra che ci ostiniamo a voler vedere Padre Pio nelle bustine del tè, come direbbe il compianto Dermot Morgan, rimane veramente poco. L'idiozia e la violenza (che poi sono parenti stretti) hanno invaso ogni centimetro quadrato del nostro habitat, costringendoci a cibarcene o a retrocedere nelle ombre, chiuderci negli armadi di un buonsenso a cui ormai manca l'ossigeno. Moriremo magari savii, ma moriremo presto. Prima, però, ci dibatteremo come il pesce nel secchio del pescatore.

Ce l'avete presente il kilt, il gonnellino scozzese? Forse saprete che i complessi motivi riprodotti su questo capo di abbigliamento erano un tempo precisi segni distintivi: indicavano l'appartenenza a un clan. Qui, se siete curiosi, ne trovate una breve lista. La società scozzese nel Medio Evo, in particolare nelle Highlands, era caratterizzata da un'organizzazione basata appunto su questo tipo di raggruppamento sociale. Non stupisce che agli inglesi, molto più avanti nel processo di formazione nazionale, i figli di William Wallace e Robert Bruce apparissero come dei selvaggi. E non era solo nelle forme di organizzazione politica e sociale che gli inglesi avevano un vantaggio: alla battaglia di Culloden, nel 1746, i gacobiti scozzesi affrontarono i moschetti  delle Giubbe Rosse armati di spade. Tanto di cappello al coraggio, ma io una bolletta con i giacobiti vincenti non me la sarei mai giocata. E voi?

Per organizzare il lavoro, i commerci e tutto quant'altro consente a una società di mettere le basi del proprio progresso materiale e spirituale è necessario andare oltre la logica del clan. Quest'ultima è però ottima a trasmettere valori e norme culturali. I quali, naturalmente, saranno sempre sconfitti da quelli che producono società più avanzate. Il clan è la forma associativa, detto senza il minimo senso spregiativo, del selvaggio.

Non a caso il termine è stato spesso usato nel linguaggio giornalistico per riferirsi a organizzazioni criminali (in quel caso, probabilmente, una punta di disprezzo e senso di superiorità morale poteva esserci). Dopo tutto, mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti avevano rituali di affiliazione, una visione del mondo molto conservatrice, e una logica in cui da una parte c'era il loro gruppo, e dall'altra il resto del mondo. Ma non bisogna pensare, secondo questo umile fesso, che i criminali italiani si associno in quelle forme perchè selvaggi; lo fanno in quanto italiani.

Non ho le basi teoriche per sostanziare questa mia intuizione, essendo, come voi tutti sapete, un semi-analfabeta. Ma qualche giorno di delirio collettivo sul mio social network preferito mi ha convinto oltre ogni ragionevole dubbio di questa lampante verità. Mentre io, vittima di studi anglistici e smodate libagioni in compagnia di figli della perfida Albione e dellle sue tante colonie, riflettevo su questo umile blog intorno all'anomia preoccupante che ci sta distruggendo quello che in inglese si chiama the fabric of society, i miei amici internauti dibattevano se fosse necessario e/o opportuno fermarsi all'alt di un carabiniere, e se fosse accettabile sparare a chi contravvenisse a quell'ordine. Nel mio mondo di esule virtuale dall'italica patria (un esilio che onestamente non mi pesa più di tanto) le risposte sono entrambe scontate: sì alla prima domanda e no alla seconda. Ma questo, fate attenzione al passaggio fondamentale del (tentativo di) ragionamento, questo perchè io non ho un clan di appartenenza.

Quando si nasce e si vive in un paese costruito e retto su menzogne, abusi, prepotenza e assenza di principi chiari e validi per tutti, diventa difficile farsi un concetto della convivenza civile, e della fondamentale idea di cittadinanza. Si preferisce spesso aderire a un clan, indossarne il tartan e costruire, almeno in quell'ambito ristretto, rapporti di solidarietà, riconoscimento reciproco, equità. E non si capisce, o perlomeno non si dà mostra di aver capito, che in quella scelta c'è il seme delle propria inevitabile sconfitta, le premesse della condanna a rimanere selvaggi, alla mercè di chi ha raggiunto una concezione più evoluta del vivere sociale. Ed ora, viisto che non sono in grado di trovare una chiusa all'altezza del mio alato pensiero, finisco il post con un'allegra canzoncina scozzese.

sabato 6 settembre 2014

Sceriffi e indiani

Non so se avete mai sentito quella dell'esame di scuola guida del camorrista. Alla domanda "quale auto ha la precedenza all'incrocio raffigurato in questa illustrazione?" lui rimane un attimo perplesso, poi guarda con fiero cipiglio l'esaminatore e chiede con voce risoluta: "e qual è 'a machina mia?" Dunque, in questo post vi vorrei parlare di anomia

A me non piace il modo in cui è organizzato il mondo, e quindi anche questo paese. Credo che il capitalismo sia un sistema intrinsecamente violento, e vorrei vederlo sostituito da un altro ordine. Un altro sistema di convivenza, basato su altre regole e altri principi. Possibilmente, se non è chiedere troppo, mi piacerebbe vedere la specie umana allontanarsi da una logica di coercizione per andare verso una logica di libera associazione e consenso. Ma, ahimé, sono intrappolato in un film di sceriffi e indiani. Mentre i proiettili e le frecce mi fischiano sopra la testa, proverò ad argomentare un'ipotesi terza rispetto ai sentieri selvaggi che percorre buona parte dell'opinione pubblica italiana.

Dunque, dicevamo delle regole e dei principi. Un conto è dire "questi non mi piacciono, ne voglio portare avanti altri", un altro è vivere senza regole e senza principi. Chi campa così, a mio modo di vedere, è già una vittima. Tuttavia, è semplificatorio parlare di pura e semplice repressione. I mali che colpiscono il Rione Traiano sono, almeno in parte, esattamente gli stessi che colpiscono il Vomero e i Colli Aminei, e stanno nella degenerazione mostruosa della nostra cultura e del nostro senso della convivenza. I modelli a cui sono esposti i ragazzi della Napoli "malamente" sono modelli di matrice neoliberista, la traduzione in napoletano della stessa immondizia che vediamo, tanto per fare un esempio, nei video di certi rapper afroamericani per i quali sembrerebbe che la vita si riduca a una passerella di culi, oggetti luccicanti e canne di arma da fuoco. Sono modelli a cui siamo esposti tutti, anche se magari in forme più sofisticate.

La naturale contropartita degli indiani sono gli sceriffi. Pretendere di avere forze dell'ordine professionali e rispettose delle procedure e delle regole in un paese in preda all'anomia come questo è ingenuo. Il carabiniere, secondo il modesto parere di questo fesso, non ha sparato in quanto agente dell'oppressione di classe; ha sparato perchè è uno sceriffo. Basta mettersi una stella, o in questo caso una divisa, addosso, e TU diventi la legge, il nomos. E trovi comprensione in alcuni settori dell'opinione pubblica, perché vai a colmare un vuoto.

Io non voglio vivere alla mercè degli sceriffi e dei loro grilletti facili. Ma non voglio vivere nemmeno fra gli indiani. Io voglio vivere fra persone che si pongono il problema di regolare la propria convivenza senza generare violenze inaudite come quelle che subiscono, nella "normalità" del quotidiano, gli abitanti di certi quartieri. Violenze che li rendono amorali, anaffettivi, incapaci di relazionarsi al prossimo se non attraverso il conflitto, nichilisti verso tutto e soprattutto verso se stessi. Vorrei che ci riscoprissimo cittadini, non occupanti di una terra di nessuno da contendersi usando ognuno le armi che ha a disposizione. Vorrei che i cantanti neomelodici non celebrassero più uno stile di vita che lascia i cadaveri per terra, e che Equitalia non mandasse più cartelle esattoriali a gente che non ha più un euro per pagarla. Vorrei che si tornasse a investire nella nostra scuola e nella nostra università, nella nostra sanità, nei nostri servizi pubblici.

Vorrei, ma so che la mentalità imperante in questo paese è anomica. La guerra di tutti contro tutti ne è l'inevitabile prodotto. E allora, cari amici del Bradipo, non mi stupirò se la nostra cronaca nera continuerà a riempirsi di sparatorie, assalti alle diligenze, scalpi strappati e johnwaynate varie. Ma continuerò a pensare che, davanti all'incrocio, è possibile e necessario stabilire un ordine di precedenza.

venerdì 5 settembre 2014

Il Congresso di Vienna

Cari amici e compgni di sventura, buondì. Oggi parliamo di guerra. Non c'è da meravigliarsi, visto che ce l'hanno dichiarata da secoli, sebbene qualcuno non lo abbia ancora capito. Se mi volete seguire, ci inerpicheremo fra gli aspri sentieri del sapere storico elusivo e dei miei limiti di scrittura. Orsù, cominciamo!
Se guardiamo al modo in cui si combattevano le battaglie nell'Evo Antico e a come poi queste tecniche si sono evolute, notiamo una cosa: i generali si allontanano sempre di più dal cuore dell'azione. Alessandro Magno ci è mostrato in un famoso mosaico mentre affronta il persiano Dario. Certo, intorno a lui, come intorno a tutti gli antichi condottieri, c'è il fior fiore dell'esercito; ma resta il fatto che Alessandro è lì, a portata di lancia, non a distanza di sicurezza. Ancora nell'XI secolo il re Harold, al comando delle forze inglesi nella battaglia di Hastings, è abbastanza vicino alle mazzate da beccarsi una freccia in un occhio. Probabilmente era ritenuto inevitabile, in una guerra di contatto, che il re o comunque il comandante delle forze in campo desse per primo il buon esempio. Poi però viene introdotto l'uso della polvere da sparo, e cambia tutto. Le pesanti armature indossate dagli unici che potevano permettersele, ovvero dai nobili, non riuscivano più a proteggerli del tutto (causa questa della loroo progressiva sparizione). Prendersi una freccia in un occhio è sfiga; lanciare il proprio destriero alla carica contro una postazione di artiglieria è idiozia.

Comincia dunque l'epoca delle staffette. La cosiddetta "catena di comando" ha origine nella necessità di trasmettere ordini da un punto abbastanza lontano dal campo di battaglia ai sottufficiali che li devono fare eseguire. In Amore e guerra Boris nota quanto sia diversa la guerra vista dalla collina, da dove la osserva tranquillamente il generale, rispetto a quello che vive il soldato. Alla battaglia di Balaklava, nel 1854, l'ambiguità degli ordini dell'anziano Lord Raglan portò al tipo di idiozia di cui facevo menzione sopra. Lord Tennyson si affrettò a celebrare il massacro insensato di centinaia di cavalleggeri in un celebre poema (l'umanità celebra l'idiozia, che vi credete?), ma resta il fatto che se questo signore non fosse stato un aristocratico che parlava con la proverbiale prugna in bocca, e molto probabilmente rincoglionito e/o ubriaco, i seicento valorosi non avrebbero dovuto cavalcare nella "valle della morte". Per capire il fenomeno delle classi alte inglesi, farfuglianti e perennemente inebriate, potete guardare questo video

Alla diffusione della polvere da sparo e ai cambiamenti profondi che portò nel modo di fare la guerra, ai quali Cervantes dedica un intero capitolo del Don Quixote, corrisponde un altro processo sul piano sociale: l'ascesa della classe mercantile e il passaggio graduale da un ordine sociale fondato sulla propria funzione (quello medievale con i suoi bellatores, oratores e laboratores) ad uno fondato molto più semplicemente e brutalmente sulla proprietà privata. Questa trasformazione ha reso il mondo molto più dinamico, ma ha dato luogo a equivoci profondi, dai quali a tutt'oggi non siamo ancora usciti. Non essendo in grado di dare una base giuridica e morale coerente a questa istituzione, su cui si reggono tanto la realtà socioeconomica quanto la nostra percezione del vero e del giusto, abbiamo imparato ad accettarla come un dato di fatto, come se fosse qualcosa di naturale e immutabile, non come il prodotto di processi storici. E la Storia, non poteva essere altrimenti, è sparita dai nostri radar.

Nel mio piccolo, infischiandomene del milieu, poichè non nutro il minimo rispetto per chi appoggia e diffonde una visione del mondo e dell'umo che non rispetta me, voglio provare per un attimo a rimettercela. E come? Come al solito, amici del Bradipo. Parlandovi di me. Qualsiasi discorso innovativo, rivoluzionario, parte sempre da un'intuizione individuale. Anche quando gli elementi del discorso sono tutti lì, in bella vista, c'è bisogno che qualcuno verbalizzi l'ovvio. E allora eccovi qualche impressione del mio modestissimo cervello, della quale farete, come è ovvio, quel che vi pare.

Avevo sedici anni, forse diciassette, e studiavo al Liceo Ginnasio G. B. Vico, sito in via S. Rosa, Napoli. Dopo la parentesi un po' meno noiosa della Rivoluzione Francese e delle Guerre Napoleoniche, con il programma di Storia eravamo arrivati al Congresso di Vienna. Quello che mi colpì di questo importantissimo evento non fu un aspetto politico, ma il fatto che, oltre naturalmente ai tavoli di discussione, fossero previsti numerosi intrattenimenti per gli ospiti della capitale asburgica. Mi spiego meglio. I rappresentanti delle potenze europee a Vienna non parlarono solo di questioni geopolitiche, commerciali, militari e via dicendo; parteciparono anche a balli, pranzi, cene, e tresche amorose. Questo dopo un lunghissimo periodo di ostilità che aveva causato milioni di morti. Provate a immaginare il Principe di Metternich che, dismessi per l'occasione i panni del severo e austero statista, si fa un'allegra bevuta insieme a Talleyrand. Probabilissimo che sia accaduto. Di certo, dopo che i loro sudditi si erano tirati schioppetate, cannonate e colpi di sciabola e baionetta per oltre dieci anni in lungo e in largo per l'Europa, questi signori si sono seduti a tavola insieme e si sono scambiati le dame a tempo di valzer.

La guerra è una grande allegoria della vita. C'è chi guarda dall'alto di una collina i propri sudditi scannarsi gli uni con gli altri per sopravvivere; noi, cari amici, evidentemente facciamo parte della seconda categoria. Prima vi ho citato Amore e guerra di Woody Allen e il Quixote di Cervantes. Neanche a farlo apposta, c'è un elemento che li unisce: quando Boris guarda la battaglia dalla prospettiva del generale, vede un branco di pecore. Si tratta del capovolgimento di uno dei mille travisamenti del vecchio pazzo della Mancha, che scambia un gregge di pecore, appunto, per un esercito. Adesso io vi pongo una semplice domanda: voi volete essere pecore o disertori? Nel primo caso, vi consiglio di prepararvi alla carica. Nella speranza che Lord Raglan non abbia bevuto troppo.

mercoledì 3 settembre 2014

I nuovi inquisitori

Cari amici, stasera vi voglio raccontare una storia di profonda turpitudine. State comodi, non c'è bisogno di andare a prendere il dizionario, ve lo spiego io che cos'è la turpitudine: è la condizione del fare schifo al cesso, detto volgarmente. Se avete lo stomaco di leggermi con assiduità, saprete che non mi piacciono le ipergeneralizzazioni e gli articoli di fede. Ma qualche eccezione, lo confesso, la faccio anche io. Ad esempio mi fanno tutti profondamente ribrezzo, senza attenuanti, i sicofanti. Un essere umano libero e dotato di coscienza dovrebbe sempre avere una sana diffidenza per il potere costituito, e non credere mai a ciò che i suoi esponenti e rappresentanti affermano, senza verificarlo. In particolare sarebbe opportuno chiedersi, davanti a qualsiasi evento o fenomeno che lasci dubbi o sospetti, chi potrebbe avere interesse a che non si faccia chiarezza, e per quali motivi. Perchè tutta questa antipatia per il potere? Perchè nasce con un peccato originale: loro ce l'hanno, e noi no; e questa è già di per sé una violenza. Se credete alla favola della rappresentanza, che li abbiamo messi noi dove sono, fatemi il favore di non leggermi mai più e sparire dala mia bacheca; una fesseria del genere ve la potevo passare nel 2007, ma oggi no. Oggi avete il dovere, abbiamo tutti il dovere di prendere atto della profonda arbitrarietà con cui è governato (o per meglio dire tenuto in uno stato di perpetua soggezione) questo pianeta. Quando un pesce con la botta come Matteo Renzi si mette a minacciare il leader di una potenza nucleare, non possiamo esimerci dal trarre le ovvie conclusioni: il principio della delega non è solo moralmente iniquo e politicamente fallace, è un modo assolutamente scriteriato di architettare l'edificio della convivenza. In parole povere: continuiamo a lasciarli fare, e ci ritroveremo con la merda fino al collo in tempi preoccupantemente brevi.

Tutta questa lunghissima premessa per dire come la penso sul potere e chi ancora non ha imparato a detestarlo. Figuriamoci, dunque, quale può essere il mio giudizio su coloro che dedicano la propria vita a fare da parafulmini a questi individui. Proprio nel momento in cui la diffusione di tecnologie che facilitano la condivisione e trasmissione di informazioni, unita alla disillusione nel modello capitalista prodotta da un'infinita crisi, rende possibile una rielaborazione profonda del modo di sviluppare il discorso pubblico, questi amici del giaguaro diventano più preziosi che mai. Una volta bastava torturare e, in casi estremi, condannare a morte, l'eretico di turno, per arginare la diffusione di saperi scomodi. In molti casi era sufficiente una velata minaccia. Del resto la consapevolezza della fragilità umana può spesso più del suo coraggio. Un atto così semplice come legare le braccia di una persona dietro la sua schiena e issarla con un argano può causare un dolore insopportabile. Era questo supplizio, chiamato semplicemente "la corda", la punizione di default fra gli inquisitori dell'età moderna.


Oggi non è certo pensabile attaccare a uso saciccio, ovvero come un insaccato, tutti quelli che condividono un documentario "complottista" sulla loro pagina Facebook; dunque, bisogna screditare quelle visioni alternative, e soprattutto chi le produce. 

Se vi fate un giro su Internet, troverete moltissime fonti "complottiste" (io penso che "critiche" e "libere" sarebbero aggettivi molto più appropriati) su una vasta gamma di argomenti. Non ha importanza se siano attendibili o meno, il fatto è che sono lì. In difesa dei punti di vista ufficiali, praticamente niente. E non perchè i difensori delle verità stabilite non lavorino. Perchè non si misurano con un altro punto di vista, se non attaccandolo, deridendolo, screditandone i fautori da una posizione di autoproclamata superiorità. Questo, cari lettori, è il modus operandi dell'autorità. In quei casi in cui il confronto avviene in forma pubblica, i debunkers (si chiamano così i nuovi inquisitori) provano sistematicamente a spostare il discorso su un piano esasperatamente tecnico (facendo sembrare la scienza qualcosa di imperscrutabile e stranamente vicino all'arcano), o passano semplicemente all'invettiva. L'autorità, dicevamo. Ipse dixit era il mantra dei dottrinari del tempo che fu; è tutto scritto nel rapporto della commissione quello dei dottrinari contemporanei. Laddove la commissione in questione è l'equivalente moderno di un conclave o concilio come quello che condannò a morte Giordano Bruno. Come dicevo, questi non possono condannare a morte, tanto per fare un esempio, il bravo e simpatico Massimo Mazzucco, ma se pensiamo alle vittime che ha fatto, direttamente e come "indotto", l'11 settembre, ci rendiamo conto che la sete di sangue di questi "signori" non è rimasta certamente frustrata. E se la giuria è ancora in camera di consiglio per quanto riguarda gli attentati, non c'è dubbio che a devastare l'Afghanistan e l'Iraq, causando centinaia di migliaia tra morti e feriti, con l'unico risultato di far crescere l'odio verso gli Stati Uniti e il fondamentalismo islamico, sono stati i governi degli USA.

Ogni volta che sento le registrazioni delle telefonate fatte dalle persone intrappolate nelle torri in fiamme del WTC, provo un profondo malessere. In parte si tratta di compassione e orrore per la sorte di quegli esseri umani; ma c'è anche una specie di incredulità dovuta al fatto che miliardi di persone possano attribuire quell'immenso rogo a un pugno di sprovveduti fanatici. Eppure ormai dovremmo sapere che i roghi li appiccano i servi del dio che vince, non di quello che perde.