domenica 22 dicembre 2013

Il problema di girarsi

Cari amici del Bradipo, se siete giovani vi è andata male nella vita, ormai dovreste averlo capito. Vi siete persi il meglio. Sarà l'insulso nostalgismo di un vegliardo ormai rimbecillito dall'età e dalla deboscia, e forse tutte le generazioni hanno avuto questa stessa convinzione, ma nessuno mi toglierà dalla testa che gli anni '80 sono stati anni molti più seri di questi. La cartina geografica non aveva ancora dato di matto, la Serie A aveva ancora sedici squadre, le panchine corte e la vittoria a due punti. Era un calcio meno veloce, ma più tecnico, e soprattutto c'erano i giornalisti sportivi. Dite voi, anche oggi ci sono i giornalisti sportivi. E Caressa cos'è? No, ragazzi. Io parlo di gente estremamente seria e professionale. Vi parlo dei Brera, dei Martellini, dei Ciotti. E vi parlo dell'uomo nella foto: il grande Bruno Pizzul.

Come tutti i telecronisti, Pizzul aveva delle frasi e locuzioni che amava ripetere, e che lo identificavano. Ad esempio, quando un attaccante riceveva palla nella metà campo avversaria, venendo subito francobollato dal suo marcatore, Pizzul immancabilmente diceva: "Ha il problema di girarsi". Allora si giocava a uomo, per cui ai difensori veniva assegnato un avversario da seguire ovunque andasse, ogniqualvolta superasse la metà campo. I migliori stopper erano quelli che non lasciavano neanche respirare il giocatore che erano incaricati di marcare, fermandolo con le buone o con le cattive. Non dovevano avere doti di impostazione del gioco, compito che era casomai affidato al libero. Pietro Vierchowood aveva due ferri da stiro al posto dei piedi, eppure è stato un grande stopper. Qualsiasi campione che che entrasse in possesso della sfera spalle alla porta, e avesse dietro di se Vierchowood, per quanto talentuoso, aveva davvero il problema di girarsi. 

Oggi non si marca più a uomo, ma spesso i giocatori che prendono palla sulla tre quarti hanno ugualmente paura di girarsi verso la porta. Temono di essere pressati, di allungarsi il pallone, perderlo e lasciare il campo aperto al contropiede avversario. Marek Hamsik, che qui nessuno discute come calciatore, nove volte su dieci preferisce il retropassaggio in quella situazione di gioco. Il trequartista di personalità, invece, piroetta rapidamente sul proprio asse e cerca, in misura compatibile con la sua visione di gioco, di trovare uno sbocco alla manovra e creare i presupposti per arrivare al tiro.

Perchè vi racconto tutto questo? Perchè la sinistra, oggi, mi fa pensare tanto a un pavido trequartista. Nostalgica del tempo che fu e della marcatura a uomo, cerca con la mano di sentire un Vierchowood che non c'è più, ed esita a voltarsi, timorosa di perdere il controllo della sfera. Si pone il problema di girarsi, e non si accorge che la linea di difesa avversaria è estremamente bassa, sebbene folta di uomini. Se avesse l'agilità e la sicurezza di sé di un Messi si avviterebbe rapidamente e punterebbe i lenti e legnosi centrali che si frappongono fra lei e la porta. Se avesse idea delle rivoluzioni che ha visto Coverciano negli ultimi decenni, si toglierebbe dalla testa le superate dottrine dei Trapattoni e dei Castagner, e capirebbe che deve aggredire gli spazi, con e senza palla. Se solo fosse disposta a prendere atto di tutto questo, finirebbe in goleada.

E invece esita, traccheggia, cincischia con il pallone. Ecco un'altra bella espressione del repertorio pizzuliano. Si rifugia nel retropassaggio, cerca la posizione, e ogniqualvolta si trova il pallone fra i piedi guarda verso la propria metà campo, non verso la porta avversaria. Un altro elemento che distingue il calcio d'antan da quello contemporaneo è che una volta non si attaccava con tanti effettivi.  anche questo sfugge al nostro Hamsik.Oggi non è necessario che passi il pallone al centravanti o al tornante: se ti guardi intorno, vedrai almeno cinque o sei uomini pronti a giocare di sponda, a collaborare nell'imbastire la manovra. Ma se, oltre ad essere pavido e insicuro dei tuoi mezzi, sei anche egoista, allora è meglio che tu chieda il cambio. Il calcio è un gioco di squadra, si sa. L'importante è il risultato, non la prestazione individuale. I tifosi pretendono la vittoria. Anche perchè in palio non ci sono i due o i tre punti: c'è il futuro del gioco.







venerdì 20 dicembre 2013

Intellettuali d'oggi

 
C'è una pagina su Facebook dal nome Siamo la gente, il potere ci temono. Ogni tanto qualche amico condivide le facezie che pubblicano, e devo dire che di quando in quando mi strappano un sorriso. Eppure non posso fare a meno di pensare che se queste persone, indubbiamente dotate di senso dell'umorismo e capacità critica, li impiegassero per offrire strumenti di comprensione alla gente, anziché prenderla in giro, forse ci sarebbe meno da ridicolizzare nel discorso politico internettiano.

Come al solito, da incorregibile piccolo borghese quale sono, incrocerò la dimensione pubblica con quella privata, rifacendomi alla mia esperienza personale. Quando non ero che un fanciullo, la controfigura di Nilde Iotti che mi è toccata per madre mi esortava ognora a ingobbirmi sulle sudate carte, sognando segretamente di avere un figlio scartellato come Giacomo Leopardi. Ora, per chi non lo sapesse, gli insegnanti di italiano in questo paese si dividono in due fazioni irriducibilmente nemiche: quelli che stanno con Manzoni e quelli che stanno con Leopardi. E che te ne fai dei guelfi e dei ghibellini! Mia madre è del partito di Leopardi, e credo sognasse di avere anche lei un figlio gobbo e sventurato. Purtroppo la malformazione non è mai arrivata. Lo stesso non si può dire della sventura, che invece mi accompagna da vari lustri senza mai perdermi di vista, come la nuvoletta dell'impiegato seguiva Fantozzi o come Sancho Panza seguiva Don Quijote. Uno su due, cara madre: non è andata poi così male...

Ma perché tanta pervicacia da parte della genitrice nel volermi dotto? Al di là del fascino dello scartiello, c'era la convinzione che i figli dovessero studiare per raggiungere una buona posizione nella vita. Sì, avete ragione, detta così, alle soglie del 2014 fa ridere, ma vi giuro che una volta la gente lo pensava davvero. Lo pensava per un duplice motivo:

1) Il ceto medio intellettuale aveva fatto la parte del leone nel boom economico, che era coinciso con la giovinezza dei miei genitori, e quindi con la loro entrata nel mondo del lavoro. Loro erano diventati adulti in un'Italia che richiedeva insegnanti, impiegati di concetto, giornalisti e via dicendo.

2) Questo è un paese che dal Basso Medio Evo in poi ha sfornato cervelli in quantità, ma non ha mai "fatto sistema", come si dice oggi. Viviamo in un eterno XV secolo, aspettando come un Messia il principe di machiavelliana memoria, e gli unici due modi per emergere sono le armi e il sapere. O ti fai leone o ti fai volpe, per mutuare le allegorie dello statista fiorentino. A meno che tu non ti chiami Gardini o De Benedetti, o ti fai strada con la forza (criminalità comune e organizzata), oppure con le competenze abbinate all'astuzia (e qui abbiamo un ampio ventaglio che va dai baroni universitari ai furbetti del quartierino).

Ora, capirete bene - o almeno lo spero - che il ruolo dell'intellettuale che emerge dal primo punto è democratico, quello che emerge dal secondo punto no. Nel primo caso l'intellettuale (inteso qui come soldato semplice del sapere, il comune laureato) serve il suo paese; nel secondo, serve solo il proprio interesse. In milioni abbiamo studiato in quest'ottica, e in milioni ci siamo trovati orfani di un ruolo da svolgere nella società italiana, una volta che lo Stato ha fatto fagotto e ha lasciato il campo economico ai cannibali e ai necrofagi. Tra l'altro, essendo il nostro sistema educativo superato rispetto alle esigenze di un mondo che cambiava molto in fretta, oggi i nostri titoli di studio sono spesso carta straccia all'estero, specialmente nel settore umanistico.

E allora tutti questi intellettuali (detto sempre in senso lato), cresciuti in famiglie che giustamente volevano solo il meglio per loro, e per quello li hanno fatti studiare, sono adesso inutili. Molti laureati sono costretti ad accontentarsi del call center, qualcuno affronta lunghissime trafile per tentare una carriera nell'università o nella scuola, ormai sature di tanta scienza inutile. Altri, ormai sconfitti, si sono rassegnati a smettere di cercare un lavoro, se hanno i mezzi per sopravvivere senza dover vendere contratti capestro a ultranovantenni della provincia di Belluno che non hanno neanche un concetto ben definito di cosa sia un telefono cellulare.

Naturalmente, queste persone sono tendenzialmente di sinistra. E perchè stupirsi, visto che la sinistra ha sempre egemonizzato la cultura, in Italia? Solo che la sinistra, in un paese che è fermo al XV secolo, assume dei caratteri particolari. Caratteri tardo-feudali. E io che ho studiato adesso dovrei mettermi sullo stesso piano di un idraulico, che quando scrive sbaglia i congiuntivi? O di un operaio del Nord-est che è entrato in fabbrica a 14 anni e non ha mai avuto modo di imparare la data del Congresso di Vienna? Non esiste proprio! Porterò avanti la mia visione del mondo con sussiego e alterigia (conosco pure le parole difficili), e dileggerò la sua con ogni mezzo. Mi dirò comunista, crociato per la liberazione dei lavoratori, ma li prenderò per il culo i lavoratori, che sotto sotto disprezzo e considero semplici pedine di giochi fatti dalla gente colta come me. Io sono meglio di voi, cribbio! Come osate organizzare il vostro poco informato dissenso senza chiedere il permesso a noi gente istruita, e soprattutto senza riconoscerci il ruolo che ci spetta??? Noi vi dileggeremo, vi scherniremo e faremo di voi bersaglio di irrisione e sarcasmo.

Quello che non faremo in nessun caso è mischiarci a voi come i vostri pari, parlarvi dei nostri punti di vista e ascoltare i vostri, rischiare di constatare che il ruolo di direzione morale che ci sembrava esserci stato attribuito da una cultura che aveva perso aderenza alla realtà per chiarissimi motivi strutturali, adesso ce lo dobbiamo guadagnare con la persuasione e l'abilità dialettica. E come potremmo accettare l'eventualità che su di noi prevalga qualche semianalfabeta criptofascista che non è mai andato oltre l'Istituto Tecnico? Molto meglio aspettare che si plachi tutto il casino che state armando, che si torni ai toni civili e urbani che ci si confanno, e che il dissenso torni a essere rappresentato dai partitelli dello 0,5%. Che tutto torni tranquillo. La democrazia, se non si fosse capito, ci fa schifo. Noi aspettiamo il Principe. Quando arriverà, avrà bisogno di noi, e riavremo finalmente il posto che ci spetta.

mercoledì 18 dicembre 2013

Sensibile

 
Cari lettori del Bradipo, vi annuncio cum magno gaudio che oggi vi parlerò di qualcosa che - almeno spero - vi metterà tutti d'accordo, e non attirerà su di me il biasimo di nessuno. In questi anni di così profonda confusione ogni tanto succede qualcosa che rimette in chiaro chi siamo e da che parte dobbiamo stare. Di un evento di questo tipo voglio parlarvi oggi.

"Per evitare di confondere la sensibilità con l'eversione fascista e stragista stabiliremo dei limiti", recita un testo degli Offlaga Disco Pax. Ce l'ha con Francesca Mambro, moglie del pluriomicida reoconfesso Giuseppe Valerio Fioravanti, da lei definito "il ragazzo più sensibile che avessi mai incontrato". Il brano, che si intitola proprio "Sensibile", contiene anche una frecciatina ai Disciplinatha, che inclusero la Mambro nei ringraziamenti di un loro disco. Parliamo dei Disciplinatha, che facevano parte del Consorzio Produttori Indipendenti, e che dunque dovevano presumibilmente il loro successo anche (se non principalmente) alla sponsorizzazione dei CSI, ex CCCP: quelli che si ponevano il problema delle affinità e delle divergenze rispetto al compagno Togliatti. Ieri il chitarrista dell'ormai sciolta band ha aggredito Max Collini, cantante degli Offlaga Disco Pax, a un concerto dei Massimo Volume, gruppo nel quale milita oggi l'aggressore.

Eh, sì, forse è proprio il caso di stabilire dei limiti. Dichiarandomi dunque neo-sensibile, per distanziarmi da chi attribuisce la dote della sensibilità a fascisti assassini, come anche da chi - chissà poi per quale assurdo motivo - li ringrazia nei suoi dischi e aggredisce chi lo fa notare,  mi permetto di esporre le mie "condizioni".

Non è sensibile chi fa delle idee un terreno di scontro, chi le usa per puntellare prassi violente non tanto nella forma, quanto nella sostanza. Non è sensibile chi usa le parole come benzina da gettare sul fuoco, piuttosto che come combustibile di un progresso da costruire insieme. Non è sensibile chi è pronto a sacrificare il bene comune al proprio sfrenato narcisismo, o chi prepone i propri turbamenti da eroe romantico al banale, magari volgare problema di una famiglia che non riesce a far fronte a tutte le spese che comporta una vita minimamente dignitosa. 

Reputo invece sensibile chi, leggendo questo articolo, resta disgustato dal gesto di Parisini e prova solidarietà per Collini. Sensibile è colui che si chiede non solo che razza di uomo, ma anche che razza di musicista sia quello che sferra un pugno a un altro musicista, invece di esporgli le sue ragioni, in maniera magari anche concitata, davanti a una birra. Sensibile è chi, pensando a tutti i morti che hanno fatto Giusva e Francesca insieme ai loro camerati, pensa che il chitarrista dei Disciplinatha avrebbe fatto meglio a spiegarsi pubblicamente, e magari a chiedere scusa. Moralista, magari, ma sensibile.

Credo che abbiamo un disperato bisogno di sensibilità, empatia, rispetto vero e profondo (non quello che ci limitiamo a dichiarare per non passare da intolleranti). L'ossessione di affermarci, di prevalere, di avere ragione a tutti i costi non è meno violenta delle bombe, dei colpi di pistola, delle molotov. Non fa morti e feriti, certo. Per il momento. Ce ne sono tanti di ragazzi "sensibili" come Giusva, anche oggi. E forse oggi sono ancora più soli con se stessi di quanto non lo fosse la generazione che ha prodotto il terrorista dei NAR.

Per quanto riguarda il Bradipo, che dirvi? Ricordatevi che egli è un fesso reoconfesso (fortunatamente non ha peccati più gravi da confessare), e che se volete la ragione, lui ve la lascia senza problemi. Al massimo si dissocia. Da voi, ma soprattutto da se stesso e dagli errori fatti. Perchè in quanto fesso, al contrario di Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e il chitarrista dei Disciplinatha, non si vergogna a dire: "ho sbagliato".

martedì 17 dicembre 2013

Il gelato al pistacchio


In un vecchio sketch Macario interpretava un cameriere che doveva dare fondo a tutta la sua pazienza per gestire un cliente difficile. L'avventore gli chiedeva un gelato al pistacchio: proprio l'unico gusto che era terminato. Macario prima tentava di indirizzare la scelta del cliente su qualcosa di diverso, poi si trovava costretto a comunicargli che il gelato al pistacchio non c'era. Quello, dopo aver espresso una preferenza alternativa, tornava sistematicamente ad aggiungere: "e pistacchio".

A volte, nella vita, si tratta di scegliere fra le alternative che ci vengono offerte, tra le quali potrebbe anche non esserci quella che noi reputiamo la migliore possibile. Potrebbe darsi, ad esempio, che stiamo cercando casa (in affitto, ci mancherebbe che con questi chiari di luna ci mettiamo a comprare casa!) e che vediamo una serie di appartamenti nella zona che ci interessa. Difficilmente ce ne sarà uno che risponda a tutte le nostre esigenze. Magari ne troveremo uno a due passi dalla fermata della metro, ma senza luce; un altro potrebbe essere, ad esempio, ben esposto, ma un po' piccolo. E così via.

Ultimamente io, che sono sempre stato uomo di pace, e chi mi conosce può confermarlo, vengo fatto oggetto di virulenti attacchi su Facciabucco. E non perchè io costruisca infamanti ipotesi sulla paternità o maternità di questo o quell'utente, ma semplicemente perchè propongo a questo grande mercato dell'opinione che è la Rete gusti diversi dal pistacchio. Si generano dunque interminabili cataratte di nonsenso, e proprio quando pare che miracolosamente si stia cominciando a ragionare, qualcuno invariabilmente arriva e aggiuge: "e pistacchio!"

Non sarà mica colpa mia se è finito il pistacchio, perdindirindina! Discutiamo, se volete, sul perchè sia finito, o su come fare per riempire di nuovo la vaschetta. Ma che senso ha comportarsi come se il pistacchio ci fosse? Pensate che, continuando a chiederlo a gran voce, finiranno per darvelo? Intanto, il risultato è che non mangeremo il gelato, nè al pistacchio, nè alla vaniglia, nè alla nocciola, nè a nessun altro gusto.

Parlando fuor di metafora, se devo scegliere fra il Movimento Cinque Stelle e il Partito Democratico, io scelgo il Movimento Cinque Stelle. Se devo scegliere fra Bashar Al Assad e il fondamentalismo islamico salafita che va a braccetto con l'imperialismo americano e britannico, io scelgo Assad. Non vuol dire che io abbia identificato in questi soggetti il Santo Graal, la mia ragione di vita o la massima espressione filosofico-politica dell'umano ingegno. Vuol dire che, in assenza del pistacchio, mi accontento di scegliere il gusto che preferisco fra quelli disponibili. Fermo restando che tutto, all'infuori del pistacchio, lascia un retrogusto amaro in bocca. Eppure non posso fare a meno di notare che è un po' assurdo voler fare i gelatai e rifiutarsi di mangiare il gelato.

lunedì 16 dicembre 2013

Il fascismo cognitivo


Cari lettori del Bradipo, oggi voglio parlarvi della mia sofferenza professionale. Una sofferenza duplice, poichè, se da un lato non posso vantare un'occupazione stabile e sicura, dall'altra sono costretto dalla mia vocazione (la famigerata Beruf di weberiana memoria) a impartire lezioni di inglese ad apprendenti italiani. Io, cari amici, ho l'ingrato compito di imparare l'inglese a un popolo che con lo studio delle lingue straniere ha un rapporto tragicomico.

Cominciò tutto quando qualcuno decise che il cross doveva dirsi "traversone", e il corner "calcio d'angolo". Offside diventò "fuorigioco" e goal si traformò in "rete". Del resto, lo stesso football andava ora chiamato il "calcio". Si fecere prendere la mano, questi zelanti "patrioti": nei film americani, che continuavamo comunque a importare e proiettare, venivano tradotti perfino i nomi dei personaggi. Per capire l'effetto comico che può sortire questo tipo di operazione, pensate a "Jack Leopards": non può certo essere il nome di un poeta gobbo e sventurato. Jack leopards è senza dubbio un investigatore privato dallo sguardo di ghiaccio al quale nessun gangster può sfuggire e nessuna pupa resistere.

Cosa pensavano di fare, gli autocrati del tempo che fu, in questo ridicolo modo? Cercavano di costruire il senso dell'italianità. E cercavano di farlo nell'unico modo che era loro rimasto, di fronte alla quintessenza bovina di un popolo sponzato in un immobilismo secolare e pre-moderno: attraverso l'imposizione. Poveri fessi. I fascisti, come tutti i depositari di verità ritenute assolute, credevano di aver trovato la soluzione. E invece trovarono il problema. Qualcuno era arrivato prima di loro. Un po' come i nazisti di quel film di Indiana Jones.

Ricorrerei alla frusta, se potessi, quando i miei studenti si mettono a tradurre i brani che sottopongo alla loro attenzione. E invece devo mostrarmi affabile e paziente. Una, due, tre, mille volte devo ripetere che l'approccio traduttivo è non solo ampiamente superato, ma da considerare come un vero e proprio affronto personale verso di me. Dammi una coltellata, o discente, ma per Giove non tradurre! Questo va bene quando studi la nobile lingua degli avi, il latino. Lingua che ha prodotto una cultura straordinaria, certamente, eppure lingua delle morte stagioni, non della presente e viva. Ma mi rendo conto che la sciagurata scuola FASCISTISSIMA alla quale ti hanno mandato ti ha insegnato solo il culto della morte.

Imparare, cari amici del Bradipo, non vuol dire acquisire una serie di informazioni da affastellare in un cassetto della memoria, per poi tirarle fuori quando ci vengano richieste da un insegnante o esaminatore. Imparare vuol dire trasformare noi stessi attraverso la costruzione di un rapporto libero, e dunque responsabile e problematico, con il mondo. Imparare è antifascista, è nichilista in senso positivo, è la somma espressione della natura umana. Imparare l'inglese vuol dire fare ciao ciao con la manina al mondo che conosci, e ricostruirlo in un'altra lingua e in un altro contesto culturale. Avete difficoltà, miei cari discenti, perchè siete conservatori, pavidi, riluttanti ad abbandonare le certezze. Siete cognitivamente fascisti. La prossima volta che mi chiedete "qual è la regola?" vi do una martellata in testa, ve lo giuro. Perchè la "regola" che volete voi è la morte, è la stasi, è la putrefazione delle vostre sinapsi. L'inglese dovete impararlo vivendolo, e non dovete avere paura dell'ignoto, ma corrergli incontro a braccia aperte, perchè così lo conquisterete.

Il cervello è uno strumento, non un deposito. Chi vorrebbe farvelo usare come tale è il vostro peggiore nemico. Vuole instaurare il suo dominio sul mondo dell'immaginario, dopo averlo consolidato in quello del materiale. Vuole delimitare il vostro orizzonte, dirigere non solo il vostro lavoro, ma perfino la vostra attività intellettuale. E invece noi dobbiamo rivendicare il nostro diritto a pensare outside the box. Che vuol dire? Non ve lo traduco. Lo dovete scoprire da soli. Ognuno per sè. Il primo che ci arriva faccia un fischio. Questo, e nient'altro, è il progresso.

giovedì 12 dicembre 2013

Il Manifesto del Partito Bradipista

Il bradipismo: una speranza per il nostro futuro

Cari lettori, quanta confusione in questa nostra povera Italia! Quante voci discordanti, quanto errore, quanti pregiudizi! In molti vorrebbero cambiare questo paese, ma ognuno a modo suo. Forconi, grillini, neofascisti e celerini senza casco si coalizzano per sconvolgere i nostri impianti cognitivi e distruggere ogni certezza; manca solo che l'agnello e il lupo vadano ad abitare insieme come profetizza l'Apocalisse, e potremo sentirci autorizzati a scendere per strada nudi e cosparsi di patè d'olive, annunciando la fine del mondo e percuotendoci il petto a mani nude o con una cucchiarella di legno, a seconda delle preferenze.

Ma non temete! Una luce si scorge in tanta oscurità, una visione chiara e lucida del futuro si profila all'orizzonte internautico: il vostro Bradipo ha la soluzione! Dopo aver molto letto e meditato, e conferito con alcune delle più grandi menti del passato e del presente, il vostro intellettuale di riferimento ha trovato la chiave per schiudere le porte dell'ineffabile. Grazie a questo lungo periodo di riflessione e isolamento dalle forze corruttrici del mondo, che sarà noto ai posteri sotto il nome di giorni del pigiama, è ora in grado di donarvi il suo Verbo.


MANIFESTO DEL PARTITO BRADIPISTA

O

BRADIFESTO


Cari lettori, uno spettro si aggira per l'Europa: il fatto che mi sono cacato il cazzo. Non c'è niente da fare, non me ne vedo bene. Non è questione di frequentare quel locale invece di quell'altro, questi amici invece di quelli, no. La questione è che la vita scade. Ci sono chiari limiti strutturali. Ora, e questo è l'aspetto più sorprendente e rivoluzionario dell'idea che sto per proporvi, io sono convinto che proprio dalla soluzione organica dei miei problemi personali scaturirà la palingenesi dell'Umanità. Seguitemi, ordunque.

"Bella la vita, quando la vita è bella, e no poi quando si sconocchia". Così cantava uno dei massimi interpreti contemporanei dell'ennui, che poi a finale significa proprio "cacarsi il cazzo". Dunque, bisogna capire perchè la vita si sconocchia. Il vostro Bradipo ha individuato una serie di problemi, divisi per aree tematiche, la soluzione dei quali implica che mi si consegni il potere, e garantisce che la vita non si sconocchi più. Vediamole:

1) Il lavoro. Io sono disoccupato. Questo, volendo, non sarebbe nemmeno un problema tanto grave, se mi regalassero i soldi per campare. Dunque, lasciamo perdere questo concetto impervio, e passiamo subito appresso.

2) I soldi. Lo so che esistono. Vedo la gente che se li passa di mano, che entra nei negozi a mani vuote ed esce con  le buste piene di roba. So che cosa succede in quei negozi, non potete continuare a nascondermelo. C'è gente che ha i soldi, e li spende. Anch'io voglio farlo. Pertanto, una volta arrivato al potere, provvederò all'installazione di un distributore di soldi sotto casa mia. Non un Bancomat, proprio un distributore di soldi. A flusso continuo e illimitato.

3) Le femmine. Anche una volta risolto il problema dei soldi, resta quello delle femmine. Molti uomini hanno una o più donne, io nemmeno una. Si capisce subito che questa è una situazione inaccettabile. Quando il Partito Bradipista sarà al potere, diventerà illegale per qualsiasi donna rifiutarsi di frequentarmi. Dovranno scegliere fra il disgusto e la galera. Il disgusto che le donne provano per la mia persona ci porta al seguente problema.

4) La caduta dei capelli. Un tempo avevo una folta chioma. La mia zazzera era un elemento distintivo del mio stile. Oggi sono assai stempiato, e rischio di rimanere del tutto calvo, se non arresto il declino. Dunque, una volta assunto il potere, destinerò nuovi fondi alla ricerca tricologica, sottraendoli alle multinazionali del push-up. Smettetela di ingannare le masse ignare, e ridatemi i miei capelli.

5) Squadra del Napoli che non vince. Questo è forse il più annoso dei problemi che si pongono oggi a un rivoluzionario. Questo calcio malato ha perso il senso della misura, e noi abbiamo un presidente con la stessa etica finanziaria dei fratelli Caponi. Il club dovrà essere sottratto all'attuale dirigenza e messo sotto il controllo di una Banca Mondiale del Petrolio. Essa, a sua volta, sarà fondata dopo aver confiscato tutti i pozzi del pianeta e averli messi sotto il mio diretto controllo. Avremo così finalmente una rosa decente. Mai più Armero sulla fascia.

6) Gente che non è d'accordo con me. Questo sesto punto è più che altro, come si evince facilmente, un corollario della premessa di questo manifesto. Se vi devo acconciare il Pianeta Terra mi dovete lasciar fare. Non è che prima mi dite "Bradipo ci acconci il pianeta?" e poi dopo protestate perchè mi congiungo carnalmente con vostra moglie o perchè la Juve non vince più. Datemi il potere e non ve ne incaricate. Ve lo combino io, il servizio.

Conclusione: che mi dovete dare il potere.

mercoledì 11 dicembre 2013

Uscite fuora!

Zio Peppe dei Camaldoli è uno straordinario personaggio, di quelli che solo la nostra bella Napoli sembra in grado di sfornare. Abbiamo già parlato di lui su questo blog a proposito di un sogno in cui faceva da comprimario nientemeno che a Eduardo. Trattasi di un anziano contadino della periferia nord-occidentale della città il quale ha per anni allietato gli ascoltatori di Radio Jolly ("'a radia giolla" nel suo vernacolo) con varie amenità, quasi tutte involontarie.

Quando qualcuno telefonava in radio e cominciava a "spostare con la bocca", Zio Peppe lo ricopriva di improperi, molti dei quali degni di seri studi dialettologici, e terminava invariabilmente mettendo "la lingua nel pulito" con un USCITE FUORA! Attraverso il ricorso alla lingua nazionale, che come risulta evidente non padroneggiava perfettamente, ristabiliva la sua autorità sui microfoni dell'emittente.

Ieri, leggendo in Rete alcuni commenti sulle manifestazioni e sui blocchi del traffico di questi giorni, ho pensato a lui. Per carità, zio Peppe è (o era? chissà se è ancora vivo..) per sua stessa ammissione semi-analfabeta, e i commenti a cui mi riferisco sono stati scritti da persone colte o semi-colte, ma mi sembra che alla fine si riducessero a un mero USCITE FUORA!

Abbiate pazienza, perchè dobbiamo aggiungere un altro elemento alla similitudine. Quando zio Peppe ci parlava dalla radia giolla aveva davanti a sé un bottone da premere quando voleva interrompere la comunicazione telefonica. Da quando si è ritirato a vita privata, vanno a fargli visita alcuni dei curatori del sito Thrashopolis, che gli ha dato notorietà internautica. Ora, quando questo sedicente ultracentenario grida USCITE FUORA! non si ode che il dileggio delle genti. Il povero vecchio si dispera, arriva quasi al pianto isterico, non essendo più in grado di difendersi dalla scostumatezza dei suoi interlocutori. Non gli resta che l'improperio.

Oggi l'Italia è percorsa da istanze di rinnovamento piuttosto forti. Dal momento che il problema principale per la nostra economia, e di conseguenza per tutto il resto della nostra vita politica e civile, è il nostro status di limone da spremere all'interno dell'Unione Europea, le rivendicazioni si incentrano principalmente intorno alla questione della sovranità. Sovranità rispetto a una UE fatta nell'interesse di pochi, e sovranità rispetto a una classe politica che ha sostanzialmente garantito, con la sua inerzia, mano libera agli eurotecnocrati che non esiterebbero a fare di noi una nuova Grecia, se lo ritenessero opportuno e vantaggioso.

Essendo questo il quadro, stupisce molto poco che per strada ci siano tricolori e neofascisti. Delude che persone molto più colte di zio Peppe, che poverino ha fatto 'o parulano tutta la vita, non capiscano che devono guardare oltre quelle bandiere. Possiamo compatire zio Peppe che racconta di quanto volesse bene alla ciuccia che poi purtroppo s'avventaje, fece l'aria nella pancia e morì, o di quando uccise la moglie  cu 'na scarda 'e scafarea perchè lo aveva infastidito col suo vacuo cianciare. Queste sono cose di un mondo contadino che non esiste più, nella vita delle persone oggi ci sono altre disavventure e altri problemi. Possiamo anche avere nostalgia di quel mondo che zio Peppe dipinge così bene, a tinte così vive. Ma dobbiamo prendere atto che non c'è più. Sopra ai Camaldoli, oggi, non c'è più la trattoria di Maittella 'a cantenera e il mondo rurale della gioventù di zio Peppe; ci sono solo zoccole quanto a dei rottweiler, qualche villetta e qualche monaco.

Smettetela dunque di gridare USCITE FUORA! Siete vecchi e deboli. Scendete dai Camaldoli e venite a vedere come è cambiata Napoli, come è cambiata l'Italia. Lo so che c'è tanto caos, non si capisce niente. Ma l'alternativa è restare soli con le vostre memorie, e che la gente si ricordi di voi solo per prendervi in giro. Senza la radia giolla non potete essere più  voi a decidere chi parla e chi no. Su Internèt, questa diavoleria moderna che il povero zio Peppe non è mai riuscito a capire, non comanda nessuno, e domina chi riesce a persuadere più utenti. Marketing? Chiamatelo pure così. Se non vi sta bene, uscite fuora voi.

martedì 10 dicembre 2013

A Milano non può fare caldo



Avete visionato la simpatica scenetta? Ah, mannaggia a Mezzacapa! Quando uno Milano non l'ha mai vista, si deve per forza fidare di lui e della sua rappresentazione. Poi arriva lì vestito da moscovita, gli ridono dietro, e se la prende con il suo compare, che a parte qualche piccola, trascurabile differenza è abbigliato come lui. La nebbia non c'è? Scusate ma la nebbia, quando c'è, non si vede. L'equivoco sintattico risolve un problema posto chiaramente dalla percezione immediata della realtà. Fa caldo? No, non è possibile. A Milano fa freddo, lo ha detto Mezzacapa. A Milano non può fare caldo! 

Perchè fa ridere questa scena? Perchè Totò continua a magnificare l'esperienza di Mezzacapa, anche di fronte all'evidenza. Forse il personaggio interpretato da Mario Castellani, quando parlava del freddo e della nebbia, si riferiva a un'altra stagione. Sicuramente, in quel momento, a Milano non fa particolarmente freddo, e la nebbia non c'è. Pur di non ammettere di aver fatto una sciocchezza nel fidarsi ciecamente di Mezzacapa, Totò rifiuta di adattarsi alle condizioni climatiche, come suggerirebbe di fare il senso comune.

E veniamo al qui e ora. In Italia si sta sviluppando un discorso politico radicato in un profondo malessere popolare. Un malessere diffuso, comune a vari settori della società. Questo discorso è conforme, nei suoi toni e nei suoi contenuti, ai suoi destinatari, e alle problematiche quotidiane e concrete che emergono da varie forme di mobilitazione.

Rispetto a questo discorso la sinistra che si dice antagonista reagisce, in buona parte, come Totò: dice che a Milano non può fare caldo. Dice che c'è la nebbia, anche se non si vede. E si rifiuta di dismettere un vestiario adatto a ben altri climi. Per questo non viene presa sul serio. E il problema non è che Peppino non ha saputo vestirsi da milanese: è che Milano non è come l'ha raccontata Mezzacapa. Non ora, perlomeno. 

Se Totò e Peppino non si adattano finiranno per dover chiedere informazioni al ghisa in una lingua incomprensibile, mentre chi parla in italiano porterà i milioni di scontenti dove più gli aggrada. Milano la si può anche cambiare, volendo. Si può costruire un palazzo qui, una fermata dell'autobus lì... Si può perfino decidere di abbattere il Duomo con tutta la Madonnina. Ma prima bisogna decidersi a guardarla per quello che è. Altrimenti tre anni di militare a Cuneo non saranno serviti a niente.

lunedì 9 dicembre 2013

Raccontarsi il futuro

"So, what about the rest of us, George?" Ai milionari fai guadagnare 50.000 sterline in più all'anno. E a noi? Così ragiona la gente che non ha letto i libri difficili e senza le figure. Così gli parla un certo tipo di stampa britannica, alla quale sono sentimentalmente legato in quanto mi ha insegnato una lingua (se aspettavo che me la insegnasse il sistema universitario italiano stavo fresco). E per questo quei fogliacci immondi vendono vagonate di copie. Il Daily Mirror, poi, non è neanche il peggiore. Il Sun  e il Daily Mail riescono a fare di peggio in fatto di cattivo gusto e rozzezza. Eppure non ho scelto il Mirror per risparmiarvi un orrore più profondo, bensì perchè è quello, per impostazione e storia, che più si adatta al discorso che voglio farvi.

La gente comune, che non legge i libri scritti fitti fitti e con le parole difficili, vede la vita nei termini di una serie di opportunità da cogliere e di problemi da risolvere. Non ha una visione organica della realtà, ma un'ideologia del tutto inconsapevole e per questo fortissima, basata su un misto di senso di giustizia e difesa egoistica dei propri privilegi. Reagisce istintivamente ai fatti, e nelle notizie scorge immediatamente gli aspetti che è in grado di cogliere, senza mai svolgere una riflessione più approfondita. Non lo fa non per pigrizia, ma perchè non ne è capace.

Aver imparato a leggere, scrivere e far di conto, più la data di qualche battaglia e la capitale della Norvegia non ci rende colti e capaci di destreggiarci nel complesso mondo dell'informazione contemporaneo. La nostra scuola è vecchia e non ci prepara veramente ad affrontare il mondo. La maggior parte di noi è semi-colta; ovvero, ha abbastanza cultura e formazione da capire che è importante sapere cosa ci accade intorno, e che le scelte economiche e politiche dei governi ci condizionano la vita, ma non arriva a mettere in correlazione eventi che non hanno nessi di causa-effetto immediatamente visibili.

Per queste persone sono scritti i tabloid. Ma non pensiate che sono scritti da giornalisti ignoranti e sprovveduti. Dal Daily Mirror viene, ad esempio, uno dei più abili e importanti spin doctors del New Labour, ovvero Alastair Campbell. Pensate che un uomo colto e preparato si sminuisca a scrivere per un giornale così? E allora rinunciate a incidere sulla realtà, perchè il mondo oggi lo cambi con questo linguaggio, non con le strutture e sovrastrutture, l'elemento soggettivo e la distribuzione delle forze produttive. La ricchezza e la complessità del discorso che si vuole proporre devono essere tradotte in qualcosa non solo di comprensibile, ma anche di appetibile e attarente, oppure non passeranno. Bastò a Tony Blair aggiungere un trattino alla parola "socialismo", trasformandola in "social-ismo", per smarcarsi dalla tradizione di lotta e dalla visione alternativa del mondo di un grande partito dei lavoratori, e ottenere la sua landslide victory, la sua vittoria a valanga. Era la sua supercazzola. Nessuno capiva bene di cosa parlasse, ma siccome dai suoi discorsi traspariva una visione ottimistica e positiva del futuro, la gente lo votò. 

Oggi del social-ismo non c'è traccia, chissà dov'è finito. Campbell è stato trombato nel 2003 in seguito allo scandalo per la morte di David Kelly, a due governi Blair è succeduto quello di Brown, e ora al governo ci sono i Conservatori, alleati con i Liberaldemocratici. Ma i tabloid sono sempre lì, con il loro linguaggio semplice, il loro sguardo fintamente ingenuo sul mondo. Chi ha un problema scrive alle agony aunts, le versioni anglosassoni di Natalia Aspesi (in meglio, naturalmente). Non si rivolge alla dottrina dei filosofi dalle lunghe barbe del tempo che fu, perchè non li capisce. Dà per scontato che i suoi problemi siano di natura individuale, non si immagina proprio che siano riconducibili a questioni sociali, politiche ed economiche. Quelle rubriche sono penose finestre sulla solitudine umana.

Bene, siccome anche io mi sento un po' solo, dal momento che mi trovo circondato da persone che hanno capito tutto di come si costruisce la Gerusalemme in terra di cui parlava Blake, ma si rifiutano categoricamente di svelare questo segreto ai comuni mortali, ora scrivo anche io una letterina alla mia agony aunt di riferimento. 


Cara Coleen,

mi chiamo Pier Paolo, ho 40 anni e vivo in Italia. Mi riesce farti difficile farti capire cosa vuol dire essere nati e cresciuti qui. Nel tuo paese è successo il finimondo quando si è scoperto che alcuni parlamentari si facevano rimborsare spese personali dai contribuenti. Questo mi fa sorridere. Magari il nostro problema fosse dover comprare la tintura dei capelli o le videocassette hard a qualche politico. Qui la classe politica non solo è dedita alla corruzione, al nepotismo e al carrierismo più volgare, ma ha completamente rinunciato a interessarsi del governo del paese. Fanno di tutto pur di restare sui loro scranni: dal cambiare casacca e schieramento a scendere a patti con la criminalità organizzata. Distribuiscono favori e benefici ai loro amici, li tirano fuori di prigione e dai commissariati, se ne assicurano la fedeltà mettendoli sul loro libro paga. In  questo ultimo caso, li chiamano "giornalisti" o "opinionisti", e li sguinzagliano come mastini contro i loro avversari.
In venti anni centro-destra e centro-sinistra si sono alternati al governo, e hanno proposto essenzialmente le stesse riforme. In molti casi, chi arrivava ricominciava da dove aveva interrotto l'opera chi lo aveva preceduto. Così hanno smantellato la scuola e la sanità pubbliche, hanno svenduto il patrimonio di aziende dello stato ai loro sodali per due lire, hanno precarizzato il mondo del lavoro. E i loro giornali non parlavano che del pericolo di un ritorno del comunismo e delle malefatte di Berlusconi. Ho visto amici emigrare, finire a svolgere lavori ben al di sotto delle loro capacità e della loro preparazione, quando non arrendersi del tutto alla disoccupazione, e magari darsi all'eroina. E loro, nel frattempo, parlavano del comunismo e di Berlusconi.
La cosa peggiore, cara Coleen, è che se dici queste cose nel mio paese vieni immediatamente accusato di qualunquismo. Qui, dove vige la dittatura morale di chi vive con la testa nei libri e non vede, evidentemente, la miseria che lo circonda, o forse non la sente sulla propria pelle, questi discorsi vengono giudicati bassi, volgari, addirittura inaccettabili. Secondo me la verità, cara Coleen, è semplicemente che noi non sappiamo cosa sia la democrazia.
Cara Coleen, non ti chiederò un consiglio. Questi problemi io li condivido con milioni di persone, e penso che solo collettivamente si possano risolvere. Ti ho scritto perchè tu dai spazio ai problemi della gente comune, e perchè penso che la tua cultura abbia tanto da insegnarci. Forse anche noi abbiamo qualcosa da insegnare a voi, ma sarà il tempo a dirlo. Tutto dipende da quali parole useremo per raccontarci il nostro futuro.

domenica 8 dicembre 2013

Cittadini, consumatori, italiani...

Morte a Cesare! Ma anche un po' a Pippo Civati...

Prestatemi ascolto. Vengo a seppellire il Partito Democratico, non a lodarlo. E vengo a dissipare un grosso equivoco, che è, nel discorso corrente pentastellato, quello della "fine delle ideologie". Io mi guardo bene dal dire che possa esistere civiltà umana priva di ideologie, ma non posso che constatatare quanto le ideologie politiche tradizionalmente contrapposte nel dibattito politico siano ridotte ormai a reliquie di un passato spazzato via da vent'anni di neoliberismo. La dialettica Destra-Sinistra è ormai mero teatrino. Sono, secondo una definizione che ho già usato su questo blog, le guarattelle per divertire e intrattenere chi ha un reddito fisso e il culo al caldo, mentre chi se la deve giocare in quella giungla che è diventato il mercato del lavoro verifica ogni giorno sulla propria pelle quanto avesse ragione Rosa Luxemburg quanto poneva l'alternativa secca fra socialismo e barbarie.

Rischio di diventare noioso dicendo sempre le stesse cose, ma questo blog non si occupa di fantascienza: fino a quando la realtà italiana sarà un grosso trompe-l'œil, io dovrò parlare di quello. Ci sono alcuni equivoci che, a mio modestissimo parere, dipendono principalmente dal solipsismo nel quale è sprofondata una sinistra orfana della classe operaia. Oggi la prospettiva interclassista non è una scelta per chi vuole fare politica all'interno dell'arco parlamentare e costituzionale, è una necessità. L'alternativa è affidarsi unicamente alla lotta di classe extralegale; qualcosa che, se può risolvere il problema dell'alloggio di qualche famiglia, non mi sembra onestamente adatta a dare risposta ai problemi di questo paese in un momento storico di estrema delicatezza e difficoltà. D'altro canto, è legittimo pensare che l'acuirsi delle contraddizioni del sistema capitalistico possa generare le condizioni soggettive per una rivoluzione intesa in senso novecentesco. Solo che per fare quella è necessario un Partito Comunista, non la si fa con lo spontaneismo e il giovanilismo da centro sociale espresso, tanto per fare un esempio, dal simpatico Zerocalcare, che incita i giovani ad attivarsi, ma di fatto li invita a una liturgia. Niente di più.

Oddio, come sto diventando serio e professorale! Mai sia detto che il Bradipo vuole ergersi a maestro di qualcuno. Anche perchè sarei un cattivo maestro, e a me Parigi non mi piace. Da Londra mi darebbero subito l'estradizione, ormai lì se non fai l'analista finanziario non c'è posto per te. Dunque, proverò a riportare il mio registro a quella colloquialità che mi è congeniale.

Immaginate un bambino cresciuto in una famiglia agiata. Ha sempre avuto da mangiare in abbondanza, bei vestiti, giocattoli. A un certo punto, entrambi i genitori perdono il lavoro. Il bambino comincia a fare i capricci perchè non gli comprano più i pupazzielli dei Power Rangers, senza rendersi conto che ormai il padre e la madre fanno i salti mortali per mettere un piatto a tavola. Ecco, quella famiglia è l'Italia. Quel bambino rappresenta i lavoratori dipendenti, i pensionati e tutti coloro che percepiscono redditi non da lavoro.

Anche pratiche radicali come l'occupazione delle case sfitte e quello che una volta si chiamava "esproprio proletario" non sono che modalità di consumo. Presuppongono l'esistenza di un sistema produttivo forte. Oggi l'esproprio proletario è stato sostituito dai pensionati che rubano una pagnotta al supermercato per fame. La situazione è nera, e non solo perchè la ricchezza è mal distribuita. Il boom economico ci aveva abituati all'abbondanza e ci aveva trasformati in consumatori spensierati. Oggi non solo siamo costretti a essere consumatori accorti, ma dovremmo porci il problema di come quel rimanere "bambini" rispetto alla questione della produzione e del consumo (anche da parte dei professoroni con la barba, che almeno qui da noi sono sempre stati affetti da narcisismo patologico) abbia determinato la confusione pressochè assoluta nella quale versiamo.

Cittadini, non lo siamo mai stati. Fidatevi. Il concetto di "cittadino" è un portato delle rivoluzioni liberali, e noi questa rivoluzione non l'abbiamo mai avuta. Quando vogliamo chiedere chi è stato eletto in un certo collegio, a Napoli chiediamo "chi è salito?". Non voglio neanche perdere tempo a dimostrare una cosa così palese come il fatto che, a parte una minoranza di giuristi e intellettuali, gli italiani non sanno neanche dove sta di casa il concetto di cittadinanza, con i suoi diritti e doveri, e con la sua idea di partecipazione democratica. Le rivendicazioni dell'era socialdemocratica hanno portato il benessere, non la democrazia. Uno può anche dire "a me il concetto di democrazia borghese non serve, io voglio fare la rivoluzione e instaurare la dittatura del proletariato". Bene. E allora, fratello caro, ti devi mettere sotto a lavorare, perchè sei in alto mare.

Uno può anche dire che una prospettiva rivoluzionaria deve essere internazionalista. Perfetto. Però allora dobbiamo guardare alle rivoluzioni presenti, quelle con cui possiamo collaborare e scambiarci esperienze e punti di vista. E se volgiamo il guardo (permettetemelo questo aulicismo) al Venezuela, all'Ecuador,. alla Bolivia, vediamo rivoluzioni democratiche e patriottiche. Se vogliamo seguire le loro orme, dobbiamo prima imparare a essere italiani. Non possiamo continuare a essere bambini che scalciano e strepitano perchè vogliono il giocattolo. E, per amor di Buddha, smettiamola di giocare con la politica. Lo so, voi avete paura che, seppellito Cesare, arrivi l'Impero. Cari miei, l'Impero è già cominciato. E non è romano, è germanico. Noi dobbiamo diventare adulti. Italiani, democratici, produttivi. Solo allora, con le ossa formate e le idee chiare, potremo dare l'assalto alla barbarie.

venerdì 6 dicembre 2013

Più uguali degli altri

 
"Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri." Famosissima, questa formula, escogitata da Orwell per descrivere il ruolo dei maiali nella rivoluzione fatta dagli animali nella fattoria di Mr Jones. Sarà il caso di precisare che il povero autore di Animal Farm e 1984, spesso trasformato da maestrine di scarsa onestà intellettuale in un alfiere dei valori liberali, aveva combattuto in Spagna con i repubblicani, e non ha mai sconfessato le sue idee socialiste. Naturalmente, quando diciamo "socialista" in ambito angolosassone, ci riferiamo a qualcosa di molto diverso da quello che è stato il PSI in Italia, almeno dalla seconda metà degli anni Settanta fino a Mani Pulite. Eppure quel partito e il loro leader, che forse più della stessa DC furono fatti oggetto del linciaggio mediatico e del disprezzo popolare, probabilmente non erano peggio degli altri. Forse l'indiscutibile marciume del socialismo italiano in quella fase non era, per così dire, produzione propria, ma l'estendersi a macchia d'olio di una massa tumorale che aveva origine in ben altri luoghi.

In un suo illuminante saggio sulla transizione verso il socialismo del Venezuela bolivariano, il Ministro della Pianificazione e delle Finanze del paese latinoamericano, Jorge Giordani, analizza le cause del fallimento dell'esperienza sovietica e le identifica, almeno in parte, nell'incapacità di passare da una logica capitalista ad una autenticamente socialista. Mentre nelle società capitalistiche occidentali il plusvalore si estraeva per via economica, in Unione Sovietica questo veniva fatto per via politica. Ci si era, in sostanza, fermati al capitalismo di stato. Si era verificata, e qui subentra all'autorevole economista il vostro umilissimo servo, la profezia di Proudhon e dei suoi epigoni: la riduzione a unità, tanto dal punto di vista economico che da quello politico, del pluralismo naturalmente presente in qualsiasi società avanzata, aveva creato il paradosso di uno Stato che voleva farsi artefice dell'Umanità futura, e che invece si era trasformato nella fattoria degli animali: tutti erano uguali, ma i maiali un po' più degli altri. Non solo; venendo meno la proprietà privata e l'economia di mercato, diventava impossibile l'emergere di una classe antagonista a quella che era diventata di fatto la nuova classe dominante, ovvero la burocrazia di partito. La "casta", si direbbe oggi da noi.

Perché quest'ultima notazione, che non avrà mancato di procurare fastidio a molti di voi? Perché non mi interessa qui disquisire sulla Rivoluzione Russa, bensì su un determinato tipo di antagonismo e di prassi rivoluzionaria. Ritengo probabile che il leninismo fosse l'unico modello di transizione applicabile a quel paese, che una vera tradizione liberale non ce l'aveva, e che solo nel 1861 si era deciso ad abolire l'istituto della servitù della gleba. L'Italia odierna è anch'essa priva di una tradizione liberale seria, ma è anche inserita in un contesto profondamente diverso.

Ora credo sia il caso di fare ancora una volta ammenda per la mia stoltezza e la mia ignoranza. Che volete farci? Purtroppo non sono bello come Alessandro Di Battista, non ho i suoi centimetri e i suoi capelli, per cui le fanciulle mi spregiano, come del resto si conviene a un turpe malcreato della mia guisa. Dunque, perdo tempo a scrivere facezie. Sopportatemi, se potete. Seguitemi, se volete. 

L'emergere della cosiddetta "civiltà dei consumi" ha stravolto il mondo occidentale, lo ha cambiato da cima a fondo, insieme alla rivoluzione cognitivista, che ha dato nuove munizioni alla pubblicità e alla propaganda (che poi, in un sistema capitalista, sono la stessa cosa). Prima che mi citiate Gramsci, che è sicuramente uno dei più grandi intellettuali italiani di tutti i tempi, vi prego di riflettere che egli (bello questo pronome, ricorda l'infanzia) è nato e vissuto in una Italia assai meno democratica di questa e, soprattutto, molto meno ricca e sviluppata. Per cui, quando ad esempio parla di "piccola borghesia", parla di persone che risparmiavano a oltranza, consumavano molto di meno dei meno abbienti fra di noi, non avevano un'automobile, nè un televisore, nè tanto meno un PC o una connessione a Internet.

La democrazia, in una società come la nostra, è inevitabilmente destinata ad affermarsi. Fa male, alla veneranda età di quaranta anni, doversi guardare indietro e rendersi conto di aver vissuto molti anni senza capire una mazza di quello che ci succedeva intorno. Per me, ahimé, è proprio così. Almeno però, ci sono arrivato a questa consapevolezza. Ricordate la dicotomia Craxi-Berlinguer? Beh, io non credo, come il Benigni del tempo che fu, che Berlinguer ci volesse bene. Non capisco tutto questo osannarlo su Facebook. Era, semplicisticamente parlando, del partito dei maiali. Quello che mi tocca oggi constatare, è che invece esiste un articolo molto interessante, a firma dell'esule di Hammamet (che l'abbia scritto un negro è possibile, ma questo non cambia la sostanza del sostanza del discorso che voglio fare), in cui si pone un problema che oggi sta prepotentemente venendo fuori. Si veda, ad esempio, la polemica fra Vauro e Dario Fo.

E allora mi viene il dubbio che, se Craxi ha fatto la fine che ha fatto, mentre maiali atlanticamente ed europeisticamente più "uguali" di lui si sono presi la fattoria e l'hanno trasformata in una macelleria sociale, non è perché Bettino e i suoi rubavano. So che questa affermazione mi renderà poco popolare presso molti di voi (e già siete in pochi a leggermi), ma forse, dico forse, il PSI è stato distrutto perché la sua idea di socialismo (per quanto indubbiamente diluita, e oltraggiata da comportamenti indegni e inaccettabili) era effettivamente incompatibile con l'operazione che il PCI stava per compiere.

Oggi arrivano Grillo e Casaleggio, e dicono "uno vale uno". Eh?! Come?!? "Ofessa!" direbbe il principe De Curtis. Non è che una semplice constatazione, cari amici del Bradipo. Questa è la rivoluzione che il nostro paese dimostra, almeno in parte, di volere. Una rivoluzione contro i maiali, qualsiasi vestiario, lessico, simbologia adottino. Chiamatela piccolo-borghese, se volete. Inveite contro di essa. Il punto, ampiamente dimostrato dalla Storia, è che le rivoluzioni le fanno gli scontenti. I funzionari con la dacia sul Mar Nero e i giornalisti con un posto al sole sull'amaca cercano di fermarle. Perchè loro, ci mancherebbe, credono  nell'uguaglianza; ma solo a patto che si riconosca che sono un po' più uguali degli altri.

lunedì 2 dicembre 2013

Destra e manca


Ovvero: perchè in Italia manca una sinistra? Che fine ha fatto? Perchè il discorso marxista non ha più seguito? Adesso, giustamente, voi vi chiederete come mai mi pongo questa domanda proprio adesso. Dopotutto, sono quasi 25 anni che la sinistra perde lentamente ma inesorabilmente terreno. Me lo chiedo proprio oggi perchè ho letto una lettera aperta di Vauro a Dario Fo, in cui il disegnatore invita il "compagno Dario" a scendere da quel palco", riferendosi alla sua partecipazione al V-day di ieri. 

Non è questa la rivoluzione giusta, compagno Dario. Hai sbagliato rivoluzione. Questo è, in sostanza, il contenuto della lettera. Lettera che, peraltro, è molto breve e succinta, ci mettete un minuto a leggerla. Certo, perchè Vauro, al quale non piacciono "i portatori di verità assolute ed indiscutibili", non ha bisogno - o non ritiene di averne - di tante argomentazioni per convincere il "compagno Dario" a scendere dal palco pentastellato. Addirittura apre la lettera con quello che potrebbe sembrare un rimprovero: "Caro Dario, ma che ci facevi su quel palco?" Come se avesse visto un ateo entrare in chiesa, o un vegetariano in macelleria.

A dir la verità, un minimo di ragionamento è presente nel breve scritto del disegnatore toscano. Apprendiamo che non gli piacciono le piazze "quando non sanno che ripetere le parole del capo". Tutti liberi pensatori, questi intellettuali liberal, adesso che non hanno un capo da acclamare. Se avessero un po' di onestà intellettuale, constaterebbero che il cesarismo in questo paese è sempre esistito, ed è sempre stato trasversale alle posizioni politiche. No, il problema non è che non si deve accettare passivamente quel che dice il capo; il problema è il capo.

Bello fare i comunisti quando chiudere il pugno ti colloca immediatamente e automaticamente all'avanguardia, quando il privilegio culturale si trasforma in privilegio economico grazie alla magica alchimia del corporativismo (atteggiamento culturale e prassi economica con cui il proletariato e la rivoluzione socialista, come potrete capire anche da soli, non c'entrano una beata mazza). Quando, se la rivoluzione non scoppia, è il popolo a essere bue, reazionario, fascista, e chi più ne ha più ne metta, non tu che hai sbagliato a interpretare la fase storica o a sviluppare il tuo agire politico.

Se uno volesse essere schematico e settario come Vauro, potrebbe chiedere a lui che cosa ci facesse in Manuale d'amore 3 di Giovanni Veronesi e Colpi di fulmine di Neri Parenti, due film che non ho visto, ma che a occhio e croce sembrerebbero commedie disimpegnate, e non fulgidi esempi di impegno politico. Ma io non voglio essere schematico e settario, per cui non mi crea problemi che Vauro voglia partecipare a manifestazioni culturali dello spirito popolare. Mi sembra ipocrita, però, che voglia impedirlo ad altri.

Caro Vauro, la ragione per cui Dario Fo ieri era su quel palco è che un artista e intellettuale deve stare vicino al popolo. Un popolo che gli ultimi decenni, con i loro cataclismi economici e sociali, hanno profondamente cambiato nella sua composizione e nella sua visione del mondo. Tu hai scelto di farlo girando film con i tuoi amichetti post-comunisti, il "compagno Dario" ha deciso diversamente. Deve essersi persuaso, immagino, che se mancava una sinistra, era da lì che bisognava cominciare a ricostruire. Perchè, sarà un concetto fastidioso ma devo proprio esprimerlo, ammesso e non concesso che la piazza Cinque Stelle sia di destra, è proprio lì che bisogna andare. Questo, se il tuo obiettivo è fare politica. Se, invece, è crogiolarsi in un primato morale autoproclamato, e vivere di rendita su un'identità sterile mentre i comuni mortali (il proletariato, si diceva una volta) devono fare i salti mortali per vivere, tutto torna. Però poi non rompere i coglioni se l'alternativa alla destra manca.

domenica 1 dicembre 2013

Scavarsi la fossa


"Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi". I più cinefili e sagaci avranno subito riconosciuto questa battuta. La dice il Biondo a Tuco, in uno dei capolavori di Sergio Leone e del cinema western: Il buono, il brutto e il cattivo. I due sono in un vecchio cimitero, alla ricerca del tesoro di Bill Carson. Sentenza, il cattivo, era stato eliminato poco prima in una sparatoria. Sparatoria nella quale il Buono aveva avuto il vantaggio determinante di sapere che la pistola del Brutto era scarica, visto che era stato lui stesso a scaricarla a insaputa dell'altro.

Come mi è tornato in mente questo film? No, non l'ho rivisto recentemente. E' che stavo guardando un documentario, guarda caso, proprio di quel Ken Loach di cui parlavamo ieri. In varie interviste, lavoratori di settori dell'industria britannica nazionalizzati dopo la Seconda Guerra Mondiale e poi di nuovo privatizzati negli ultimi 25-30 anni spiegano come le privatizzazioni non abbiano affatto aumentato l'efficienza dei servizi, anzi. Quest'ultima è peggiorata, il costo pure. E perchè, allora, si è privatizzato? Perchè il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava.

Ora, quando il Biondo gli intima di scavare, Tuco non se la prende troppo. Risponde solo: "Dove?" Pensa che, avendo fatto un bel pezzo di strada insieme al Biondo, avendogli perfino salvato la vita nel deserto, questo non si azzarderà certo a tenersi il tesoro tutto per sè. E ha ragione. Il taciturno cowboy, interpretato da un Clint Eastwood che per questa sequenza sfoggia l'espressione col cappello, gli lascia la sua parte, anche se fa passare al Brutto un quarto d'ora più brutto di lui. Allo stesso modo, o almeno questo è il paragone che mi ha suggerito oggi il mio cervello ormai privo di un minimo di controllo e freni inibitori, forse in omaggio all'epoca di liberismo scostumato in cui ci tocca vivere, la stragrande maggioranza dei lavoratori salariati oggi accetta di buon grado di scavare; e scava, scava, continua a scavare sotto un sole sempre più cocente, sempre più ore al giorno, fra i serpenti a sonagli e gli scorpioni, quasi di buon grado, pensando che in fondo a questa buca ormai profondissima ci sia il suo benessere.

Thomas Malthus, economista inglese vissuto a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, quindi durante la prima ondata della Rivoluzione Industriale, era ossessionato dall'idea che il mondo non sarebbe riuscito a sostenere una popolazione in costante aumento. Lo sviluppo delle forze produttive e, conseguentemente, l'arricchimento delle società più avanzate (per quanto marcatamente disuguale), cominciavano a dispiegare i loro effetti. Le città erano sempre più affollate, rumorose e caotiche, e la miseria invadeva le strade. Si palesava la prima e più grande contraddizione del capitalismo industriale: la società più ricca e alacre che fosse mai esistita esibiva un livello di povertà mai prima conosciuto, se non per brevi periodi e in occasione di eccezionali catastrofi. Malthus coglieva giustamente la scarsità come la cifra della nuova era che si era aperta. Ma, essendo un conservatore, non provava nenche a sciogliere le contraddizioni inerenti al sistema economico che le aveva prodotte. Sentenziava che non c'era posto per tutti su questo pianeta, e lo dava come fatto semplicemente naturale.

Noi quelle contraddizioni le conosciamo, o dovremmo conoscerle, perchè ci sono state spiegate. Non dovremmo trovare strano che più scaviamo, meno guadagnamo. Non ci dovrebbe meravigliare che, mentre il progresso scientifico rende possibile uno sviluppo sempre più rapido e sostenibile, quello avanza sempre più lentamente, e con un impatto ambientale sempre maggiore. E, soprattutto, dovremmo renderci conto che la Natura non è un'arcigna padrona di casa che non vede l'ora di sfrattarci, ma un enorme serbatoio di opportunità per la specie umana. Se un tempo è stata scenario di miserie, catastrofi, epidemie, carestie e quant'altro, era perchè non la conoscevamo, se non attraverso la superstizione e il pregiudizio. La scienza ha imparato a spiegare fenomeni che per secoli o addirittura millenni avevano atterrito e confuso gli esseri umani, e li ha messi in condizione di dominare e modificare l'ambiente circostante. Ed ha sbugiardato Malthus: c'è posto per tutti.

A patto però che impariamo a crescere in modo razionale. Non è razionale che ci si affannni sempre di più per produrre sempre più miseria. Non è razionale che l'Umanità si divida in chi ha la pistola carica e chi scava. Perchè, se si continua così, allora effettivamente qualcuno sarà di troppo. Se continuiamo a scavare agli ordini di chi ha la pistola carica, non troveremo proprio nessun tesoro. E non potremo neanche toglierci la soddisfazione di dire al nostro aguzzino di chi è figlio, perchè quello che avremo scavato sarà la nostra fossa.

venerdì 29 novembre 2013

Pane, rose e paraculi

Cari lettore del Bradipo, vi ricordate di quando Ken Loach rifiutò il premio del Torino Film Festival per esprimere solidarietà ai precari sottopagati (e alcuni di loro licenziati senza giusta causa) dalla Rear, che rendevano possibile quella kermesse con il loro lavoro? Bene, c'è un seguito. Al Festival di quest'anno ha vinto Carlo Mazzacurati, il quale non solo si è preso il premio, ma si è anche permesso di criticare Ken Loach per la sua scelta. In questo articolo si spiega in modo abbastanza chiaro la polemica, tornata a infuriare quando il regista inglese è stato informato dall'USB, che segue la vertenza e lo tiene aggiornato sulla vicenda, delle nuove dichiarazioni sul suo conto. Dice Mazzacurati: "Prendo anche quello di Ken Loach. Ha fatto male a non venire, se avesse saputo che umanissimo festival è questo non avrebbe fatto questo sgarbo. È stato male informato."
Bene. Siccome io non volevo commettere lo stesso errore del buon Ken, dopo aver letto le dichiarazioni del cineasta recentemente premiato a Torino, sono andato a guardarmi su Youtube il documentario Dear Mr Ken Loach, che racconta di come un regista famoso e acclamato in tutto il mondo si sia interessato della sorte di alcuni oscuri lavoratori e della lotta portata da un piccolo sindacato contro l'umanissimo festival di cui sopra. E mi sono persuaso che i male informati, semmai, sono quelli che nel loro cinema raccontano e denunciano realtà che poi, con il loro agire, contribuiscono a perpetuare. 

Di Virzì ricordo un film dal titolo Tutta la vita davanti, che al di là di alcuni limiti estetici dei quali non è il caso di mettersi a discutere adesso, sembrava essere, se non proprio dalla parte dei lavoratori precari, almeno fortemente solidale con la loro condizione. Ne emergeva una certa sensibilità, una amara constatazione della ferocia e della insostenibilità, tanto nella sfera lavorativa quanto in quella dei rapporti umani, della società in cui viviamo. Trovo quindi desolante e imbarazzante che questo signore, in quanto direttore dell'edizione di quest'anno del TFF, abbia preso le parti del suo amichetto (perchè a questo livello siamo, questi non sono persone serie e non meritano di essere trattati da tali) dopo la ovvia replica di Loach. Virzì esprime stima per il collega (si fa per dire) inglese, e ipotizza che sia stato "strumentalizzato", forse dall'USB, o forse anche dal M5S, che attraverso una sua deputata invita Mazzacurati a restituire il premio. Intervistato da Repubblica per l'edizione online, Virzì non trova di meglio che attaccare "i cialtroni del Movimento Cinque Stelle" e dare a Ken Loach del disinformato. A mio modesto avviso, pensare che il filmmaker di Bath parli di qualcosa di così serio senza prima informarsi vuol dire non aver visto neanche uno dei suoi lavori, o essere un cretino a tutto sesto. 

Ma la cosa più bella, la vera e propria ciliegina sulla torta, è che questo omuncolo, che se avesse il minimo senso della decenza se ne uscirebbe con un più dignitoso "no comment", ammette candidamente che non è il suo lavoro, non gli spetta informarsi su cosa faccia e abbia fatto la Rear (e di che stiamo parlando allora, Virzì?), per poi scagliarsi contro chi vorrebbe tagliare i fondi alla "cultura". Laddove cultura vuol dire pane e rose per me e i miei amichetti, che ci allisciamo il pelo a vicenda, ci consegnamo premi l'uno con l'altro, e andiamo avanti a ranghi serrati senza buttare l'occhio al paese reale, se non quando si tratta di raccontarlo nei nostri lavori cinematografici. Sarà una forzatura, ma a me Virzì ha fatto pensare al poeta de Il maestro e Margherita di Bulgakov, che si suicidava perchè capiva di aver sempre scritto poesia in cui non credeva veramente. Non che io speri tanto da Paolo Virzì. I paraculi come lui sanno che le pietre piovono sempre e solo sui poveracci. Basta tenere al suo posto la riff raff, la gentaglia che si permette di non coprire con i propri cenci le pozzanghere quando i signori scendono dalla carrozza. Certo, come si fa a pretendere che l'artista scenda dal piedistallo che gli spetta e si mischi con la classe lavoratrice

mercoledì 27 novembre 2013

Hacer patria


Cari lettori, se ieri ho elucubrato dopo pranzo, oggi elucubro dopo cena. La notizia del giorno è la decadenza di Berlusconi, ma io me ne infischio, e vi parlo dei miei scalcagnati percorsi mentali. Purtroppo io non riesco a sentirmi parte della vita pubblica di questo paese, non riesco a gioire della fine politica di uno dei più abili e astuti criminali della storia d'Italia, perché mi pare che la fila per rimpiazzarlo sia lunga. Magari non sarà una singola figura, ma una pletora di felloni. Il fellone organico. 

Dunque, via all'elucubrazione. Ho appena terminato la lettura del Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane, di cui abbiamo già parlato in un precedente post. Ricordate l'illustrazione del sussidiario che lo raffigurava? Quell'immagine era il prodotto di un Risorgimento ben diverso da quello auspicato dal martire di Sapri, e della susseguente deriva verso il fascismo. Pisacane sapeva bene che i vincitori si scrivono la storia a loro uso e consumo, ma forse mai avrebbe potuto immaginare di esssere trasformato in uno dei simboli di un processo unitario costruito sulle macerie del suo Sud. Si fa presto a dire "patriota". La patria che sognava Pisacane era repubblicana, socialista e sovrana, libera da qualsiasi ingerenza straniera. Alla repubblica ci siamo arrivati, con grandissima fatica, ma tanto il socialismo quanto l'effettiva sovranità ci sfuggono ancora.

Per dirla tutta, Pisacane era a favore di un socialismo libertario e federalista, in cui mai si sarebbe potuta creare una questione meridionale (concetto su cui torneremo). Bene, a questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: perchè un partigiano della libertà e dell'uguaglianza è stato disposto a sacrificare la vita all'idea di nazione? E perchè questa idea ha poi assunto una connotazione negativa nel discorso marxista e, più in genere, di sinistra, europeo?

La risposta mi sembra piuttosto semplice: la casa non è, come concetto in sè, nè bella nè brutta. Dipende da come la costruisci. Pisacane capisce che per essere liberi nel mondo in cui vive bisogna stare in una casa grande, e che se non si erige quell'edificio si resterà schiavi dello straniero. Non è che a lui facesse specie la schiavitù solo nel caso in cui il padrone fosse straniero, infatti parla di abolizione dei titoli nobiliari e della proprietà privata. L'idea centrale del libro è, in buona sostanza, che senza patria non c'è libertà e non c'è uguaglianza. 

Questa stessa idea la si ritrova tradizionalmente non solo nei processi di liberazione delle colonie, come è piuttosto ovvio, ma anche poi nelle rivoluzioni di ispirazione marxista. La patria può essere più piccola (Cuba, ad esempio) o più grande, come quella sognata da Bolivar e dal Che, ma comunque non è mai assente dal discorso rivoluzionario comunista e socialista, particolarmente in Sud America. Non lo è neanche oggi che l'indipendenza politica è ovunque un processo compiuto. Ma il fatto di avere una bandiera e un governo formalmente indipendente non vuol dire certo avere la casa comune cui accennavo prima. Lo sapeva bene il Comandante Chavez, che tanto insistè sul concetto di "hacer patria", costruire la patria. Perchè quella ereditata dal passato, architettata dalla borghesia a suo uso e consumo, non era abitabile.





Di come si costruiscano le patrie borghesi abbiamo un tragico esempio proprio qui in Italia, del quale Gramsci fa un resoconto puntuale e una critica penetrante nella Questione meridionale. La spaccatura in due del paese, prodotto di un'unificazione in chiave imperialista ed espansionista, è identificata come uno dei motivi della debolezza e dell'inefficacia del partito nell'organizzazione delle masse popolari. Il Sud, ridotto alla miseria, al degrado materiale e morale e alla virtuale assenza di una vita civile, rappresenta il vero tallone d'Achille del movimento operaio. Il fascismo, con il suo patriottismo retorico e di facciata, non risove il problema, e l'antifascismo soccombe anche per quello. Il risultato della mancanza di una patria lo abbiamo sotto gli occhi: una "casa comune" più simile a un appartamento di studenti fuorisede, in cui tutti sporcano senza pulire, rompono senza preoccuparsi di riparare, e quando metti qualcosa in frigo devi stare attento che non se la mangi qualcun altro. Della vita pubblica siamo, tuttalpiù, spettatori. Milioni di italiani oggi hanno seguito le votazioni per la decadenza di Berlusconi da senatore. Molti esultano, e me ne sfugge il motivo. Sono gli stessi che alla prossima scempiaggine commessa dal PD dichiareranno sui social network di vergognarsi di essere italiani. Io non mi vergogno di quello, semmai del fatto che l'Italia non è la mia patria. Allo stesso modo mi rendo conto di quanto sia necessario che lo diventi. Perchè chi non ha una patria è, e sempre sarà, uno schiavo.


martedì 26 novembre 2013

Deus ex machina

E che machina! 2893 cm³di cilindrata, 20 cavalli di potenza, circa 12 km al litro. Ridete pure di questo rudimentale mezzo di locomozione, ma il Modello T rappresenta un punto di svolta epocale nella storia del capitalismo industriale. Per la prima volta un'automobile veniva fabbricata in serie, applicando le innovazioni del taylorismo, allo scopo di avere un prodotto accessibile a un vasto pubblico. Questa è la mirabile rivoluzione della borghesia imprenditrice, che ha detto all'operaio: "Sì, lo so, il tuo è un lavoro duro, penoso, sgradevole, logorante; ma adesso anche tu potrai goderne i frutti! Il progresso è qui! Se riesci a non berti quel che resta dello stipendio dopo aver pagato l'affitto, e metti da parte qualcosa ogni mese, un giorno anche tu potresti andare in automobile come i signori".


In questo modo, il lavoratore assumeva una nuova identità, anch'essa determinata dal capitale: quella di consumatore. Il padrone, che già si era impadronito del tempo del lavoro, adesso irrompeva in quello che un tempo era stato dedicato alla socialità e alla famiglia, in quello che è chiamato il tempo libero (libero una fava, come vedremo), e lo consacrava all'acquisizione. Lo consacrava. Io, cari amici, sono fesso e culturalmente limitato, ma non uso le parole a caso.

Adesso dobbiamo parlare di dio. No, scusatemi, non vi ho detto che questa è un'elucubrazione post-prandiale. Dunque, se volete, elucubrate appresso a me, e seguitemi (apparentemente) di palo in frasca. Dunque, dio. Il costante oggetto della domanda sbagliata. Esiste dio? Ma certo che esiste. Il punto è capire che cosa è dio. L'osservazione di mille popoli diacronicamente e diatopicamente lontani ci indica senza dubbio che dio è inseparabile dall'esperienza umana. Come dice l'arabo pazzo, l'uomo non può esistere senza dio. Ovvero, dio e l'uomo sono in rapporto dialettico. Dio è ciò che non conosciamo, che non capiamo, che non riusciamo a fare; di conseguenza, è delega, è rinuncia, ed è, quindi e soprattutto, autorità. L'uomo, per contro, è la libertà. La ragione di dio è astorica, eterna e immutabile. Quella dell'uomo è progressiva. Progredire vuol dire trasformarsi, evolversi. In questo consiste la libertà dell'uomo. Dogmi e dottrine appartengono a dio. Dell'uomo è l'eresia. Eppure, senza dio l'uomo non esiste, come abbiamo detto. Qualsiasi sua conquista, per avere ulteriore progresso, per non lasciar morire il processo dialettico, dovrà essere consacrata a qualcosa. Il fordismo e il taylorismo sono eresie, immediatamente consacrate alla logica del capitale. Il Modello T è un idolo, eretto dall'ingegno umano al dio che oggi viene adorato dalle masse del primo e secondo mondo, della cosiddetta civiltà dei consumi.  

Un altro arabo pazzo sosteneva che l'unica autorità da rispettare è quella dell'uomo che ha appreso un mestiere. Se qualcuno ha bisogno di una traduzione dall'inglese all'italiano si rivolge a me, e io gliela faccio. Ma questo vuol dire inevitabilmente delegarmela. Io potrei fare degli errori, e quella persona non potrebbe accorgersene. Ora però ipotizziamo che quella persona sia un avvocato, e che io un giorno possa avere bisogno della sua consulenza perchè  i gendarmi,  incuriositi dai rumori provenienti dalla mia tipografia, mi hanno sorpreso a stampare propaganda sovversiva con la mia Pedalina da cento copie al minuto: a quel punto sarò io a dover delegare la mia difesa a lui. E ci conviene, a entrambi, che a fare da mediatore in tutto ciò sia la vile pecunia, e non un senso di appartenenza comune che ci affratella? Insomma, visto che la civiltà e la natura umana ci impongono di delegare, non è meglio che a garantirci gli uni dagli altri sia un principio di mutuo appoggio, libero prodotto del nostro arbitrio, e non rapporti di produzione camuffati da libertà?


Un arabo pazzo e le sciagurate conseguenze del self-publishing

Bene, ora che ho citato tutti e tre gli arabi pazzi del mio repertorio, cedo la parola a Gramsci, confermando un eclettismo che temo mi possa condurre al biasimo delle genti, ma che non abbandono e, anzi, rivendico con la fierezza di cui solo gli stolti sono capaci. Non vi dico da chi mi è arrivata la segnalazione del brano a cui sto per fare riferimento, altrimenti i gendarmi arrivano sul serio a prelevarmi. Nel Quaderno 14 Gramsci critica il concetto di "rivoluzione permanente", in quanto viziata di meccanicismo. Ci dice che “le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.” Si risolve in una sorta di "attesa mistica" della rivoluzione, che dovrebbe scoppiare da sé. La conferma che Gramsci aveva ragione e Trotzky torto ce la fornisce il fatto che non solo nessuna delle rivoluzioni socialiste successive alla stesura dei Quaderni è scoppiata in modo spontaneo, ma anche il fatto che più regredivano le organizzazioni politiche di sinistra, nei vari paesi, più si indebolivano la coscienza e la lotta di classe. L'organizzazione dei lavoratori indietreggiava, e il Modello T avanzava. Il socialismo indietreggiava, la barbarie avanzava. L'uomo indietreggiava, dio avanzava. Perdonatemi adesso la commistione fra il pensiero dell'arabo pazzo e quello di Gramsci, ma questa è l'eresia di oggi pomeriggio: la rivoluzione non la fa dio, la fa l'uomo. Il deus ex machina, come tutti gli dei, è costrutto umano. Il motore a scoppio scoppia perchè lo fa scoppiare l'uomo. Dio non fa scoppiare niente. Per favore, non deleghiamogli più un compito che non ha.

domenica 24 novembre 2013

Primero hay que trabajar


Amici del Bradipo, una volta ogni tanto anche il vostro pigro mammifero arboricolo scende dall'albero e si prende una boccata d'aria e di vita. Ieri sera si è recato, pede lento come gli si confaceva, a Galleri Art, il nuovo spazio occupato nella galleria Principe di Napoli. In cartellone l'esibizione di Rafael Viloria, giovane e valido cantautore venezuelano, preceduto dal navigato ma non certo senescente Massimo Ferrante e seguito da un altro giovane di prospettiva, nella fattispecie nostrano, che risponde al nome di Andrea Tartaglia. Diciamo subito che ne è valsa la pena. E tenete presente che mi è necessario tanto, ma proprio tanto sforzo per mettermi le scarpe e scendere, specie quando il tempo è così uggioso. Ho fatto bene a farlo.

Dopo aver passato un'oretta buona ad armeggiare tra cavi e mixer per eliminare un fastidioso rumore di sottofondo, cosa che mi ha ricordato i lustri vissuti da musico fallito, mi faccio mescere una birra e mi siedo. Nemmeno il tempo di mettermi comodo, che la chitarra del maestro Ferrante mi mette l'arteteca addosso. Bevo e percuoto la terra con il piede senza remore, come mi ingiungono di fare i nostri antenati comuni, per la breve durata dell'esibizione. Solo pochi brani e il maestro stacca la chitarra e va via, per un impegno lavorativo. E già il musicista che lavora per me guadagna automaticamente punti. Non mi metto a spiegarvi perché, sarebbe un discorso lungo, e magari lo capite lo stesso leggendo il resto del post.

Sale sul palco Rafael. Un po' nervoso per la gripe, l'influenza che gli ha abbassato la voce, e per la barriera linguistica. Si fa aiutare da un compagno ispanofono, che traduce qualche verso dei vari pezzi prima dell'esecuzione. A un certo punto, omaggio a Victor Jara. Una canzone che si chiama Ni chicha ni limoná. Nel testo, le seguenti parole:

Si usted quiere más que toca/primero hay que trabajar

Se vuoi più dello stretto necessario, prima bisogna lavorare. Quelli fra voi così masochisti da leggermi con assiduità capiranno quanto questa frase possa piacere al vostro Bradipo. Conoscevo la canzone, ma ieri sera per la prima volta l'ho capita veramente. L'ho capita alla luce di quello che sta succedendo in questo paese. Quando poi, in una conversazione successiva al concerto, Rafael mi dice: "La gente non ama più il lavoro, e questo è un problema", o qualcosa del genere, io strabuzzo gli occhi, e mi dico che questo giovanotto deve essere il mio alter ego venezuelano e con i capelli. 

Questo, cari amici del Bradipo, perché noi viviamo in un paese di dottrinari dalle voluminose epe, il cui scopo nella vita non è modificare di una virgola la realtà che li circonda, bensì farsi dare ragione. Poco cale, a costoro, che la ragione è notoriamente dei fessi. "Pragmatismo" è, per questi alti funzionari della Motorizzazione del ben pensare, una parolaccia. Se non ti rilasciano prima la patente di rivoluzionario, non puoi circolare. Il lavoro? E che ne sanno questi del lavoro? Ne possono parlare in termini astratti, ma la verità è che non lo capiscono. La canzone di Victor Jara è una critica intelligente e ironicamente severa della classe media, e della sua assurda pretesa di consumare senza lavorare. Questa è la sfida: ripensare noi stessi, da consumatori (passivi, assoggettati alle scelte e alle decisioni altrui, umanamente immaturi) in lavoratori, e quindi artefici del mondo di cui vogliamo godere. Non basta ripartire più equamente il prodotto di un lavoro del quale non siamo protagonisti; dobbiamo riprenderci il lavoro, altrimenti continueremo a oscillare fra l'uomo di ieri e quello di domani, fra una concezione e un'altra dell'esperienza umana. Non saremo ni chicha ni limoná.