martedì 9 dicembre 2014

Lotta di classe


Cari amici del Bradipo, ben ritrovati. Sempre che ci siate ancora, s'intende. Non mi stupirei se, dopo una lunga e colpevole latitanza da Facebook, vi foste dimenticati di me. Il fatto è che sono stato travolto dalle ripercussioni emotive e pratiche di un lavoro molto più impegnativo di quanto non mi aspettassi. Chi vuole fare bene l'insegnante, in una scuola come quella che è capitata a me, deve impegnarsi tanto, soprattutto se inesperto. Perdonatemi, dunque, se potete; mi sono assentato, ma sono tornato onusto, e dico ONUSTO, di curiose farneticazioni.

Vado rimuginando questo post da un po', e ho sempre avuto paura di scriverlo perché temevo di non riuscire a redere giustizia all'esperienza fatta in questi due mesi di lavoro. Due mesi che, vi assicuro, sembrano molti di più. Come sapete, amo la sintesi, e voglio dunque riassumere quell'esperienza in una breve e semplice locuzione: per la prima volta nella vita ho toccato con mano cosa voglia dire "lotta di classe". L'ho fatto lontano da cortei, manifestazioni, presidi, occupazioni, assemblee. L'ho fatto nelle aule dell'IPSSA Bergese. E ora, se vi interessa, vi racconto come.

All'inizio di questa avventura entravo nelle classi proponendomi di dare un taglio libertario al mio approccio. Sono stato seguito da una minoranza di studenti, che poi mi hanno dato anche riscontri abbastanza positivi in sede di verifica. Ma molti - ahimé - mi eludevano. Ho creduto - ma ora so che sbagliavo - che non fossero interessati ad apprendere, o perlomeno ad apprendere la mia materia. Man mano che procedevo nel mio cammino notavo una tendenza sempre più spiccata da parte di alcuni fra gli elementi più rumorosi e fastidiosi ad attrarre la mia attenzione, con qualsiasi mezzo. E allora ho cominciato a studiare anch'io. No, non a leggere i mille miliardi di testi esistenti sui problemi dell'apprendimento, della motivazione e via dicendo; ho cominciato a studiare, come una sorta di intrepido antropologo, i comportamenti e i rituali di quei giovani selvaggi. Li ho osservati armeggiare con gli immancabili smartphone, che non si fanno mancare neanche quelli che non comprano i libri di testo perchè non avrebbero i soldi. Li ho ascoltati chiacchierare fra di loro di rapper italiani poi ascoltati e classificati senz'altro come subumani. Ho assistito al loro spintonarsi, prendersi a scappellotti, fare la lotta greco-romana. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe stato colpevole da parte mia non intervenire. Dovevo dare uno sbocco al disagio che di tanto in tanto palesavano, dovevo dare la possibilità di scegliere a chi non l'aveva mai avuta.

Io non vado a scuola per istruire. Aborro il concetto di istruzione, ma se pure così non fosse, non mi sarebbe possibile inculcare messaggi diversi da quelli che inculca il mondo extrascolastico. E' certamente sofisticato il modo in cui la cultura dominante assoggetta le classi subalterne, ma è perfettamente visibile a chi sappia fare due più due. Il suddito non deve imparare a fare, a pensare, a valutare. Il suddito deve limitarsi a processare, possibilmente con la parte più ancestrale e rozza del cervello, stimoli provenienti dall'esterno. Un insegnante che dissenta da questa visione delle cose è automaticamente in trincea. Sta facendo, nel più pieno dei sensi, lotta di classe.

Ho fatto cose delle quali io stesso mi sono sorpreso. Ho messo delle note. Ho gridato come il fottuto sergente Hartman. Sono intervenuto in quei consigli disciplinari che all'inizio mi davano solo un grande malessere. Lotto con le mie classi. Cerco di insegnare loro l'immenso potenziale di liberazione del lavoro. Lotto per quelle classi. Lotto per la classe lavoratrice, per un mondo di uomini e donne liberi e uguali. In questa trincea si sta come d'autunno sugli alberi le foglie, ma è qui che si trovano i miei fratelli. Dopo questo accesso di buffo titanismo e questo bieco plagio delle parole di Ungaretti, vi ringrazio dell'attenzione e vi so appuntamento alla prossima tregua.

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