lunedì 16 gennaio 2012

L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro...

...dice l'articolo 1 della Costituzione, o almeno così mi pare. Costituzione che, alla luce della realtà in cui ci tocca vivere, si direbbe scritta a quattro mani da Salvador Dalì e Luis Bunuel, con la supervisione di Graham Chapman. La mia tastiera non è abilitata a produrre la "egne", nè la "i" con l'accento acuto, quindi non potete accusarmi di sciatteria grafica. Il mio spagnolo è almeno da DELE Basico (di nuovo, manca l'accento acuto), a differenza del mio inglese, che è come quello del partigiano Johnny, ovvero equipollente a quello di un fottutissimo lord. Proprio questa mia capacità, più non una ma DUE raccomandazioni, mi ha consentito di trovare una specie di lavoro in una specie di azienda, la quale mi corrisponderà una specie di stipendio quando colà dove si puote verrà ritenuto opportuno; questo sempre che mi venga proposto una specie di contratto in cui vengano specificate e stipulate una serie di condizioni che poi verranno sistematicamente ignorate e disattese, in nome della flessibilità e del profitto facile (non il mio).

"I decree today that life is simply taking and not giving, England is mine, it owes me a living" scriveva quel maledetto genio insano di Stephen Patrick Morrissey. Sostituite England con Italy e avrete il mio status esistenziale corrente. Se non capite cosa vuol dire, mi sa che non abbiamo niente da dirci; passi non conoscere bene l'inglese, ma Morrissey - soprattutto il periodo Smiths - è proprio la base. 
Temete adesso che voglia ammorbarvi con deliri adolescenziali sui mille disagi che costituiscono la mia vita interiore? Non preoccupatevi, ho già finito. Ma poichè proprio durante quella travagliata epoca della vita che è la prima giovinezza ho capito che tutto è politica, o perlomeno tutto ha una dimensione politica, vorrei riflettere insieme a voi, cari lettori del Bradipo, sulla discrasia fra Costituzione formale e Costituzione materiale.

Qualche mese fa ebbi, seduto a un tavolo di Gallo's, un'interessante scambio di vedute con una delle due persone che mi hanno agevolato nell'ottenere il lavoro di cui sopra. Costei, avendo ricevuto dalla vita il mixed blessing di fare l'avvocato in un paese incancrenito da corruzione e un approccio sbarazzino alla legalità, mi esponeva con impeccabile eloquio la distinzione fra verità storica e verità processuale. Io, avendo una cultura giuridica che non va oltre l'ordalia del fuoco, non proverò neanche a riprodurre quella dotta disquisizione. Del resto, si intuisce già dai termini usati quale sia la differenza fra le due verità. E come potrebbe risultare ostico il concetto a noi italiani, che abbiamo sempre avuto due verità per tutto? Una ovvia, quella dettata dal buonsenso, l'altra dettata dal potere, e pertanto vincente in partenza. 
Un anarchico vola dalla finestra della questura? Si è suicidato. Un imprenditore mette insieme una fortuna spropositata, senza essere in grado di dar conto della propria rapidissima e apparentemente troppo facile ascesa? Sono i comunisti ad essere invidiosi e pieni d'odio. Periodicamente qualche individuo particolarmente immune al senso di vergogna prova addirittura a convincerci che la mafia non esiste. Evidentemente, allora, Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Siani e tutti gli altri che sarebbe troppo lungo elencare e che normalmente vengono considerati vittime della mafia (o camorra o 'ndrangheta, a seconda della regione) devono essere stati ammazzati dal simpatico ma dispettoso monaciello, o meglio da una versione ultra-incazzata e Charles Bronsoniana dello spiritello in questione.

Il monaciello. Di regola mite e simpaticamente discolo, in seguito all'abuso 
di droghe o film di Charles Bronson può diventare estremamente violento.

E ci si abitua. Ci si adatta. Si smette di resistere, perchè si crede che sia inutile. Si accetta il "male minore", si accettano mille forme di compromesso, e si comincia a pensare che la Storia sia e non possa essere altro che un fiume in piena, da navigare come si può, badando più che altro a non naufragare. Cambiarne il corso, nel clima culturale che si è venuto a creare in questo paese, sembra una pretesa assurda. Questo, con buona pace  di quei milioni di persone che, dall'Illuminismo alla Resistenza, si sono battuti qui e nel resto del nostro continente per darci non già la democrazia (per quella c'è ancora una Salerno-Reggio Calabria da percorrere), ma perlomeno la possibilità di aspirare ad essa. Libertà, uguaglianza, giustizia, non sono slogan di Oliviero Toscani per vendere i maglioni o i preservativi; sono contenuti della vita di ognuno di noi, e della nostra interazione sociale. Sono oggetto di conquista, non di concessione. Basta adattarsi. Basta accettare compromessi dai quali non guadagniamo niente. Basta accettare verità alternative. Il processo alle classi dirigenti di questo paese non può che essere sommario, e la verità che ne emerge è una e semplice: fanno schifo. Ma se aspettiamo che se le porti via la corrente, stiamo freschi: in quel fiume che trascina noi alla deriva loro ci hanno calato l'ancora.

Un Clint Eastwood d'annata ci consiglia come rapportarci alla classe dirigente italiana.

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