venerdì 15 maggio 2015

Capa tosta

Cari amici, qualcuno mi accusa di scrivere solo di scuola, ultimamente. Bene, li faccio subito contenti: questo post parlerà di calcio. Ieri il Napoli è stato eliminato dall'Europa League, da una squadra che gli addetti ai lavori giudicavano non trascendentale. Una squadra, miei cari lettori, che sembrava alla nostra portata. Cosa è successo? Semplice: loro hanno segnato e noi no. Quando una compagine il cui intero attacco vale di meno del tuo centravanti fa più gol di te nell'arco dei 180 minuti, qualcosa non ha funzionato. Interroghiamoci (è un modo di dire, non voglio parlare di scuola!) dunque.

Questo film, a dir la verità, io l'avevo già visto. Si attacca, si cinge d'assedio la cittadella dell'area di rigore nemica, per poi dover capitolare davanti ai primi colpi di fionda del Davide di turno. Ieri, però, sono riuscito a fare un cosa che quando guardo il Napoli non riesco a fare quasi mai: mi sono distaccato, complice anche la profonda convinzione, maturata dopo appena pochi minuti dal fischio d'inizio, che non saremmo andati in finale. Grazie a questa distanza sono riuscito a guardare l'incontro con un disincanto che in genere mi riesce impossibile. Ed è allora, cari i loro, che ho avuto la mia epifania. Per spiegarvela ricorrerò, come al solito, al più pusillanime biografismo.

Quando ero un pargolo e giocavo con gli amici su campetti improvvisati della circoscrizione Vomero-Arenella, nessuno voleva mai fare il portiere. Alla fine, dopo lunghe e stremanti trattative, si faceva un po' a turno. Quando ci andavo io, in porta, ricordo che guardavo con molta apprensione lo svolgimento dell'agone, nella speranza, prodotta dalla consapevolezza di non valere cento lire come portiere, che gli avversari non arrivassero troppo spesso al tiro. Spesso, purtroppo, questa speranza rimaneva frustrata. La squadra si sbilanciava e rimanevano dei buchi in cui si infilavano gli avversari, procedendo poi a impallinarmi come una quaglia. Ieri, sera, da una prospettiva diversa, ho visto esattamente la stessa cosa. E secondo me Andujar si sentiva un po' come me quando mi toccava andare in porta.

C'è una differenza fra la filosofia speculativa e il calcio, e se guardate lo sketch dei Monty Python sulla partita fra filosofi capirete bene quale: nel calcio non conta tanto pensare bene, quanto il banalissimo vincere. Come? Fatemelo dire in spagnolo, ché alla fine poi Don Rafael è una persona amabile e simpatica, e ci piace il suo idioma: como sea. In un modo o nell'altro. Di stinco, di nuca, di tibia, di naso, como sea. Perfino di deretano, come il compianto Paulo Roberto Cotequinho, centravanti di sfondamento, al secolo Alvaro Vitali. Nel calcio bisogna essere pragmatici, contano i fatti. E allora, quando i fatti dimostrano che il tuo pensiero non è utile allo scopo, tu dovresti modificare il tuo pensiero. Don Rafael no. Come tanti allenatori di prima grandezza (questo non glielo nego certo), ha un credo, e la tifoseria si è conseguentemente spaccata fra chi crede in lui e chi lo contesta praticamente a prescindere dai risultati. In un inane festival della capa tosta, ognuno dice la sua verità, mentre il Napoli perde con il Verona, l'Empoli e altre bande di musica di quella risma, fallndo sfida dopo sfida.
 
L'anno prossimo è probabile che arrivi un nuovo mister. Si è parlato di Mihajlovic. Chiunque sia, la mia speranza è solo una: che la testa di costui abbia la malleabilità di chi sa che il calcio consiste nel fare un gol più dell'avversario, como sea.


 
 

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