giovedì 11 settembre 2014

Il diritto di Don Abbondio

"Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi".

Siamo nell'anno 1628, e don Abbondio sta facendo ritorno a casa per la solita strada. Non è una persona di grande ingegno o cultura, nè di particolare prestigio, se non quel poco di cui può godere un semplice curato di campagna. Non è neanche coraggioso, Don Abbondio, non è certo fatto della stoffa dei martiri; e non ha amicizie in alto loco che lo possano proteggere. Don Abbondio è un debole, alla mercè delle angherie e delle prepotenze di chi può permettersi dei bravi, ovvero una milizia privata. Non meglio attrezzati di lui a difendersi dal sopruso sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, gente umile che non porta la spada. Vivono in una società che è ancora, per molti versi feudale; specialmente per quello che riguarda le condizioni di vita dei poveracci come loro, e i loro rapporti con il potere costituito. Vivono in un mondo in cui le armi e la legge sono essenzialmente la stessa cosa.

Dal 1628, anno in cui la vicenda immaginata dal Manzoni appare assolutamente verosimile, ad oggi, qualcosa è cambiato. I despoti, incalzati dalle folle urlanti, hanno magnanimamente acconsentito a illuminarsi, onde evitare che ad illuminare il cielo nottuno fossero le fiamme che si levavano dai loro palazzi. Hanno concesso costituzioni, hanno istituito assemblee elettive, hanno limitato i privilegi e l'arbitrio delle aristocrazie. Mentre livree e parrucche incipriate retrocedevano, i ceti produttivi avanzavano, e strappavano una conquista dopo l'altra. E quando l'esercito dei salariati creato dalla Rivoluzione Industriale ha preso coscienza della centralità del proprio ruolo nella produzione e distribuzione della ricchezza, non h tardato a mobilitarsi per far sentire la propria voce. Anche loro hanno ottenuto conquiste importanti.

Tutto questo è stato reso possibile da un fenomeno ben preciso: la formazione del concetto di Stato moderno. Senza l'idea che, per ottenere e mantenere un ordine fondato sulla giustizia, è necessario disarmare i bravi, non saremmo mai usciti dal bivio presso il quale gli sgherri di Don Rodrigo fermano Don Abbondio e gli fanno la camorra che dà il LA ai Promessi Sposi. Qualsiasi possa essere la nostra idea di giustizia, io credo che sia importante ricordarci sempre di questo fittizio ma purtroppo verosimile sopruso, prima di contestare l'idea del monopolio statuale della forza.

Da alcuni decenni a questa parte si è fatta strada nel mondo un'idea antisociale e pericolosa: quella che lo Stato debba retrocedere rispetto alla sfera individuale. Questa idea potrebbe anche essere valida, se avessimo imparato a fare una chiara distinzione fra il diritto dell'inidviduo e il sopruso del forte che il diritto sancisce. In una società profondamente asimmetrica nei suoi rapporti socioeconomici, questa ritirata dello Stato vuol dire tornare dritti dritti fra le braccia di Don Rodrigo e dei suoi bravi. In questa società colui che, a differenza del mite Don Abbondio, ha la cattiveria che serve a minacciare, a picchiare, a uccidere, ne fa un patrimonio. Sia che porti una divisa, sa che vada in giro in borghese, il violento è al servizio dell'arbitrio. Può esercitarlo in proprio o per conto terzi, fa poca differenza. Nel momento in cui viene meno il concetto di vita collettiva retta da regole comuni, contestabili solo sul piano politico, e dunque ricercando il consenso necessario a cambiarle, viene meno ogni argine al "si salvi chi può".

So di andare controcorrente, e nei post precedenti appare evidente, credo, il perchè. Ma io, che i bravi non li ho mai potuti sopportare, reclamo il diritto del mite a essere salvaguardato. Reclamo il diritto dell'anziano a non essere investito da qualcuno che poi scappa via senza soccorrerlo perchè è sprovvisto di patente e assicurazione; reclamo allo stesso tempo il diritto a essere fermato dalle forze dell'ordine senza subire minacce o violenze verbali e fisiche. Reclamo il diritto, mentre me ne torno tranquillamente a casa, a non dover alzare gli occhi dal breviario - o dal Kindle - per assicurarmi che lì dove la strada si biforca non ci siano ad aspettarmi uomini armati dalla barbarie.

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