martedì 31 agosto 2010

Il degrado è una musica che si suona a orecchio



Cari lettori, sarete ormai abituati al livore venato di grottesco che pervade molti dei miei post; questa volta, però, ci troviamo di fronte a un delitto che grida vendetta, tremenda vendetta. Violate la mia privacy, il mio onore, finanche la mia libertà, e io accetterò da buon partenopeo, cane di una razza al bastone tristemente avvezza; ma il mio corpo, quello no. Il mio corpo, come ebbe a dire un indimenticato polmone del centrocampo juventino, è un tempio. Poco ci importa, in questa sede e in questo tempo, sindacare sulla veracità di tale affermazione; ciò di cui il mondo civile deve prendere atto, oggi, è un grave attentato contro l'integrità della mia persona fisica e, di riflesso, morale.
Se mi leggete con assiduità e attenzione, cari ricettori dei miei squilibri e disagi, saprete pure che ho il vizio (o il vezzo, fa lo stesso) di conferire sempre la qualità dell'universalità alle mie vicissitudini, anche a quelle apparentemente più singolari. Questo caso non fa eccezione. Con le armi della logica, della satira e di una gaia arbitrarietà, dimostrerò che questo episodio va inserito nel quadro di un più ampio degrado civile, e mirabilmente lo illustra. Questa, cari amici, è roba da interrogazione parlamentare.

E veniamo ai fatti. Come alcuni di voi sapranno, il giorno dopo Ferragosto il vostro eroe (ché tale mi fregio di essere, a ragione o a torto) si imbarcava su un aeromobile diretta a Praga. Dopo un viaggio senza alcunché da registrare, se non qualche turbolenza del tutto consueta e ordinaria, arriva il momento di recuperare il bagaglio a mano e scendere dall'apparecchio, per cominciare finalmente la vacanza propriamente detta. Ed è lì che un fato beffardo si è divertito a frapporre fra me e una bellissima capitale europea alcuni figli della tanto vituperata (e da questa vicenda verrebbe da dire a ragione) Casal di Principe. Non ritengo necessario ricordarvi che si tratta di uno dei comuni più mafiosi d'Italia, più volte menzionato in Gomorra, città natale di quella gemma del Sud che è Nicola Cosentino (ma anche degli Schiavone, dei fratelli Orsi, dei Bidognetti e di tanti altri che potrete immaginare). Ebbene, quando chiedevo a uno di costoro di concedermi qualche decimetro cubico di spazio per consertirmi di arrivare ad afferrare il mio trolley, questo mi rispondeva, con il suo orrido accento, che gli unici due corsi d'azione da intraprendere per ottenere il fine che mi prefiggevo erano la corruzione o l'omicidio del suddetto troglodita. E già mi vedo costretto ad osservare che, fra noi persone più o meno civili, comunque inurbate (a differenza del casertano contadino che, come è ben noto, zappa la terra, zappa la terra) non è in uso intavolare trattative o mettere mano alle armi per chiedere e ottenere gesti di semplice cortesia. A questo punto io, che solitamente non giudico per non essere giudicato, sento il bisogno di studiare con qualche ben assestata occhiata la comitiva. Il nostro uomo ho già avuto modo di osservarlo da vicino, e temo che una descrizione troppo accurata dei suoi tratti somatici, abbinata alla narrazione degli eventi che seguiranno, potrebbe spingere qualcuno a riabilitare il lavoro di Cesare Lombroso. Basti dire che porta un grosso anello al mignolo; per chi è delle mie parti, non è necessario aggiungere altro. La donna che gli sta accanto (che poi risulterà essere la sua novella sposa) sfoggia un'acconciatura tamente elaborata da richiedere necessariamente una motivazione, che sarà fornita a tempo debito. Sono poi presenti altri due individui di sesso maschile, una sorta di pigmeo calvo e un quarto villico che più lo guardo più mi viene da pensare a un rustico pranzo a base di caponata e vino sfuso del contadino, consumati in un locale male arredato e semivuoto, con una sala sul retro gremita di giovinastri, alcuni videopoker e un vecchio bigliardino con le stecche storte. Ma badate bene, questi sono solo comprimari in una tragedia della quale il protagonista assoluto è lui, che in assenza di un nome proprio chiameremo Ribaldo da Casale, guappo eccellentissimo e temuto signore di tutte le sale da biliardo dell'Agro Aversano. Fra i suoi privilegi feudali ci sono, immaginiamo, un decimo dei raccolti di pesche alla diossina, l'ingresso gratuito alle partite dell'Aversa Normanna, e il diritto di precedenza sugli altri clienti nel salone di barbiere da lui prescelto.
Mentre rimesto tali pensieri sento una leggere pressione sull'orecchio sinistro. Provate adesso a immaginare cosa possa passare per il cervello di un uomo che pure ha viaggiato, ha conosciuto un po' di mondo e di straniere genti, eppure mai ha vissuto un'esperienza come quella che segue: Ribaldo da Casale ha preso il mio padiglione auricolare fra due dita della sua mano destra, e lo accarrezza soavemente, come a volerne saggiare la consistenza, la temperatura o chissà che altro. Vi sembrerà appropriato, se siete minimamente sagaci, che un evento così inusitato e illogico si verifichi proprio nella città natale di Kafka. Ma questo pensiero, cari amici, mi è occorso solo molto più tardi. In quel momento mi sono sentito un po' come il pythoniano Mr. Praline nel celebre sketch del pappagallo, quando, recatosi a Bolton per la sostituzione dell'animale morto con uno vivo, si trova di fronte allo stesso identico esercizio commerciale in cui aveva acquistato il volatile defunto, con la sola differenza che il commesso qui ha i baffi (pur essendo anche lui per il resto tale e quale a quello con cui ha battibeccato poco prima).
Dopo l'iniziale spiazzamento, subentra la consapevolezza istintiva di un'infrazione: per alcuni decimi di secondo sono un bracciante della Capitanata del primo '900, angariato da protervi signorotti locali e massari avidi e prepotenti. Ma prima che gli eventi precipitino, subentra una consapevolezza: siamo su un aereo, un luogo in cui la minima infrazione ai comportamenti di prammatica può portare come minimo a una pessima figura (si tratta di un volo internazionale, il mondo ci guarda), e un'infrazione meno lieve può farci finire al posto di polizia aeroportuale. Inoltre le porte non si sono ancora aperte, e il deflusso sarà comunque lento e laborioso. Scrutando il volto del gaglioffo, scorgo l'inconfondibile marchio della guapparia. E così, per evitare mali peggiori, abbozzo. Don Ribaldo si lancia dunque in un lungo ed elaborato resoconto, in base al quale il pigmeo calvo sarebbe una specie di feticista ossessionato dalle altrui orecchie; trascinato dalla sua stessa retorica, mentre il glabro nano lambisce con voluttà la parte della mia anatomia che non occorre più specificare, lui fa altrettanto all'uomo della caponata. V'è da dire, a discolpa quanto meno parziale di questi personaggi, che il primo fa di tutto beffe e lazzi, mentre il secondo rimane in silenzio e in disparte, e sembra addirittura lievemente infastidito da quanto accade. La sposina, infine, passa da un'iniziale e ben visibile allarme per il gesto estemporaneo del coniuge, a un sommesso imbarazzo: mi guarda come a dire "Che vuoi farci, mio marito è così". Ora è il giullare a narrarmi un buffo episodio, ovvero di come dové costui adoprar l'ingegno per toccare al matrimonio di Don Ribaldo, da poco celebrato, l'orecchio di un camorrista, che lo aveva fatalmente attratto in virtù delle sue gigantesche dimensioni. Dunque, ora scopriamo il motivo per cui la testa della signora è agghindata come un uovo di Pasqua di Gallucci. Il giullare e il muto sono il fotografo e il cameraman del matrimonio, aggregati agli sposini per un motivo che scopriremo fra poco.

Una volta scesi dall'aeroplano mi tocca sorbirmi anche i rimproveri e il dileggio dei miei compagni di viaggio, che avevano assistito a distanza di qualche metro alla scena: tutto avevano visto e, tendendo l'orecchio, qualcosa avevano udito. E dunque mi riscopro samurai privato dell'onore, quasi costretto a un pittoresco suicidio rituale dalla pressione dei pari. Ma io rimango persuaso di aver agito bene, assecondando il minuto giullare e lasciando che la sua bislacca simpatia, pur se probabilmente non scevra da intenzioni di scherno, desse uno sbocco pacifico a una situazione tanto indecifrabile da essere aperta a qualsiasi sviluppo.

Comunque sia, la vacanza comincia, con le sue lunghe passeggiate fra le numerose bellezze architettoniche della capitale ceca. Il nostro albergo sorge all'ombra del ponte più centrale e più bello di Praga, quello che prende il nome da Carlo IV del Sacro Romano Impero; percorrendolo in una serata fresca e stellata, indovinate chi ci ritroviamo davanti? Don Ribaldo e consorte, vestiti con gli indumenti evidentemente indossati al loro matrimonio, con il giullare e il muto che li fotografano e li riprendono. Ecco perché erano con loro, e perché l'uovo di Pasqua di Gallucci non si era potuto scartare prima.
Sarà perchè Praga non è enorme, sarà perché il destino si accanisce contro di me, incrociamo Don Ribaldo e i suoi per tutti i giorni del nostro breve soggiorno. Al momento della partenza è quasi un sollievo allontanarsi da questo losco e inquietante personaggio. Ma la navetta aeroportuale resta ferma per un lasso di tempo inspiegabilmente lungo... Certamente aspettiamo qualche ritardatario. Bene, dobbiamo solo pazientare un po'. Finalmente appare il colpevole, sorridente e giulivo. C'è bisogno che vi dica di chi si tratta? Salito sul veicolo, proclama tronfio che effettivamente si era sentito chiamare per tre volte, ma che lui, quando fa shopping, non conosce cause di forza maggiore.

Questo, amiche e amici, è il degrado di cui parla il titolo del post. Questa gente è stata attorniata dal brutto così a lungo che ormai lo incarna, tanto nel senso estetico che morale. Questi individui hanno passaporto italiano e possono recarsi in qualsiasi città della UE, proprio come me; ma, a differenza di me e dei miei amici, non possono essere certo definiti cittadini europei. Sono la schifezza degli italiani, ovvero la schifezza di un popolo che già non brilla per civiltà e cosmopolitismo. Scambiano la tolleranza e il rispetto che voi ed io consideriamo valori per debolezza, e godono del fastidio che arrecano agli altri, perché è qualcosa che si impone, per cui implica una loro affermazione. Sul loro senso estetico, credo sia meglio sorvolare. Anche questa, cari lettori, è Gomorra. Ministro Maroni, tu che tanto ti vanti di aver fatto contro le mafie, perchè non hai ancora assicurato Don Ribaldo da Casale alla giustizia? Quando lo vedremo finalmente al 41 bis, ridotto alla follia come il "professore" Cutolo, andare avanti e indietro nella sua angusta cella farneticando e smaniando, perché non ci sono orecchie da toccare? Fino ad allora questo non si potrà definire un paese civile, ma solo una babilonia in cui regnano l'arbitrio e la sopraffazione; in cui i singoli componenti dell'orchestra non seguono lo spartito della convivenza civile e del progresso comune, ma improvvisano ad libitum; e suonano, ebbene sì, a orecchio.

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