giovedì 28 marzo 2013

Libero: un romanzo di deformazione


Cari amici e lettori, la vita è un triste affare. Il tempo è brutto, ho il cranio pieno di muchi, ho dormito male. Eppur bisogna andar. Non è che adesso mi viene un'idea sotto la doccia, mentre mi lavo il pube (ve lo giuro!) e me la tengo per me. Tanto più che si tratta di un'idea che mi ronza per la testa da un po', e il contatto del sapone con i miei naughty bits non ha fatto che metterla a fuoco.

Ebbene, il protagonista della nostra storia si chiamerà Libero. Libero, tipico nome rosso, nome da figlio di partigiani. Orbene, e dico orbene, una volta Libero militava nel PCI. Con tutti i dubbi, le remore, i tentennamenti che la pressoché totale inerzia e mancanza di integrità di quel partito poteva suscitare. Ma qual era l'alternativa? Alla lotta armata Libero non ci ha mai creduto, anzi; magari si è concesso qualche sorrisetto saccente e un po' - diciamola tutta - meschino, quando l'ha vista sconfitta. Il PSI era praticamente la banda di Rififì, per cui stare a sinistra voleva dire stare nel PCI. Amen.

E che faceva il PCI? Boh? Se aveva una strategia, non era da tutti capirla. Come il Lindo Ferretti ante-conversione, Libero si ricordava di discorsi belli tondi e ragionevoli, ma in qualche modo si era convinto che l'esasperata intellettualizzazione della sua sinistra fosse un fatto naturale, necessario, che il bizantinismo dei suoi dirigenti fosse prova di una profonda capacità analitica. Ogni tanto usciva un film di Nanni Moretti, e la catarsi era compiuta, come una sorta di schizofrenica liturgia.

Un giorno, mentre Libero stava facendo i piatti, gli arrivò la notizia che stavano buttando giù il muro di Berlino. Siccome Libero, a dispetto del nome che gli avevano dato il babbo e la mamma, senza muri perimetrali veniva preso da attacchi di agorafobia, gli venne un panteco. E mo'? Che fare? I colonnelli sembravano confusi, stravolti, impreparati. Meno male che quel superbo stratega di Achille Occhetto prese in mano la situazione, e ritagliò uno spazio in cui la sinistra italiana potesse stare dopo la fine della storia, senza dare fastidio, senza il timore di doversi confrontare con un'offensiva del nemico che, a dispetto di ogni tentativo di ripiegamento, l'aveva travolta. "Entriamo tutti nel fortino", disse questo basset hound con i baffi, e non usciamone più. Io porto i dischi di De Gregori, tu porta i film di Nanni, per l'abbonamento all'Unità si fa la colletta. Non dovremo mai più temere la luce del sole.

Mentre i nostri eroi discettano dottamente sulla poesia di Majakovskij e le ragioni storiche della NEP, senza peraltro muovere una falange, non dico un dito, per provare a costruire una via italiana al socialismo, arriva la notizia che hanno arrestato Mario Chiesa: è cominciata Tangentopoli. Prima che i compagni riescano a farsi un'idea della portata di questo fenomeno, hanno messo dentro mezza Italia. A questo punto, mentre il giovane e frizzante cinefilo Veltroni legge il Vangelo e i più anziani piangono di nostalagia pensando alle salamelle del tempo che fu, il compagno D'Alema ha un'idea: la destra non c'è più, mettiamoci al posto loro! Non possiamo più prendere ordini da Mosca; ebbene, li prenderemo da Londra, Bruxelles e Washington. I vecchi balzano in piedi (si fa per dire), spellandosi le mani in un applauso interminabile, Walter pregusta un festival pieno di vescovi e cardinali seduti in prima fila. Signore e signori, il potere. 

Qualcuno comincia a dare segnali di impazienza. E passi per i porporati, ma stare con uno come Blair mai e poi mai! Fondiamo un altro fortino, compagni! Naturalmente, ci arriva anche un bambino, se devi chiuderti in un fortino, tanto vale stare in quello più grosso e meglio difeso. Eppure chiunque fuoriesca dal fortino di Libero finisce invariabilmente per costruire la sua palizzata, tempestivamente circondata e assediata dagli indiani. Altro che conquista del West, qui è fortunato chi sopravvive.

Libero si mette in riga, che altro potrebbe fare? Contrordine, compagno, i preti non si mangiano. D'ora in poi solo tofu e cous-cous. E va bene, basta che mi date le mie quattro mura, ve l'ho detto che ho l'agorafobia. E così Libero resta nel fortino, che man mano si va riempendo di quelli che in inglese si direbbero strange bedfellows. Visto che il mercato ha trionfato, e che adesso è ufficiale: ai lavoratori gli puzzano i piedi, i padroni sono bravi e belli, bisogna rimettersi a studiare. E siccome quelli come Libero sono gli unici in Italia a saper leggere e scrivere, il nuovo corso della destra italiana lo devono dettare loro. Quegli altri hanno fondato un partito insieme a mafiosi e massoni per salvare il culo di Berlusconi, mica per governare, e poi apparano una licenza elementare ogni tre. Hanno già abbastanza da fare. Quelli là, lo sappiamo, sono quelli che ai compiti in classe copiavano sempre, e nella peggiore delle ipotesi papà li mandava all'istituto di recupero. Forza, Libero, mettiamoci a lavorare, 50 anni di socialdemocrazia non si distruggono da soli.

Taglio. Voce fuori campo su schermo nero: "Mannaggia alla Madonna di Pompei, ma è possibile che devo passare la vita a lavorare part time in un fetente di call center per 400 euro al mese?" Primo piano sul volto di Libero, recante un'espressione di arcigna determinazione, fra Giuseppe Stalin e il Drugo. Man mano che la telecamera si allontana, una voce narrante ci racconta i suoi pensieri.
"Mi chiamo Libero, ho 62 anni e voto per il Partito Democratico. Un tempo questo paese faceva paura: se non beccavi una coltellata da un fascista, rischiavi di saltare in aria mentre prendevi un treno. Eravamo in preda alla violenza, alla divisione ideologica, alla confusione. Ma oggi tutto questo non esiste più. Tanto abbiamo fatto per l'Italia, e tanto altro possiamo fare. Vieni anche tu nel fortino. Unisciti a noi, e non dovrai mai più temere la luce del sole".

Titoli di coda?

...continua

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