giovedì 6 marzo 2014

La bellezza e la solitudine

In quanti pezzi mi hanno ridotto i testicoli con La grande bellezza? Sono giorni che cerco di capirlo. Ogni volta che il grottesco chiacchiericcio generato dalla pellicola sembra essersi placato, mi arriva alle retine o ai timpani un nuovo episodio dell'infinita saga. Come spesso accade in questo paese, il film di Sorrentino ha spaccato la società italiana: c'è chi lo ama e chi lo odia. Io ho l'impressione di aver capito perchè.

Questo è un momento estremamente difficile e delicato per il nostro paese. Un momento che va avanti da anni ormai. Si potrebbe assumerne come inizio quello della crisi economico-finanziaria, o il colpo di stato soft che ha sostituito al governo Berlusconi (su cui tutto si può dire, meno che non fosse espressione della volontà popolare) quello di un tecnocrate non eletto. In ogni caso, la sensazione di attraversare una fase di trasformazione è netta. La scelta di sostituire Renzi a Letta è indicativa, da quel punto di vista.

Come sempre accade in tali fasi storiche, le società si spaccano. E, sebbene i sintomi di queste fratture siano nei discorsi e nelle prese di posizione, anche su argomenti apparentemente "innocenti" come un film o un libro, è nelle vecchie, stantie se volete, basi materiali dell'esistenza che va ricercata la loro essenza. A chi è piaciuto La grande bellezza? E perchè?

Il film è stato accostato, a mio giudizio impropriamente, a La dolce vita di Fellini. A una prima, superficiale occhiata, si capisce bene perchè. In realtà, se c'è qualcosa nel repertorio felliniano che somiglia a questo lavoro è Otto e mezzo. Entrambi raccontano una crisi. Ma mentre nel capolavoro del maestro riminese la crisi è personale, nel film premiato a Hollywood riguarda un intero popolo. E in quella decadenza generale, molto più profonda di quella raccontata ne La dolce vita, il dandy Gambardella si trova perfettamente a suo agio. Come ogni buon conservatore, è ben disposto a sacrificare la speranza in nome dello status quo. Status quo che per lui si identifica con l'adorazione del passato, tanto storico quanto personale. Non scrive più, non crede più in niente, e sembra quasi provare una perversa soddisfazione nel constatare che tutto muore, intorno a lui. Come dicevo, è un conservatore.

Un solo personaggio lo turba: la vecchia bizzoca. Pardon, come mi viene in mente di usare un lessico tanto irrispettoso di fronte alla santità? La suora ultracentenaria. La scena con cui si chiude il film è estremamente tetra, e io rabbrividisco al pensiero che amici, per di più di sinistra, l'abbiano trovata bellissima. La visione del mondo che ne viene fuori è aristocratica quanto triste. Io, ve lo ricordo sempre, sono semi-colto e rozzo, ma
una scena come quella avrò la proterva iattanza di contestarla fino alla morte. Il paese vecchio, morente, rinchiuso nel suo passato, e che solo in quello riesce a trovare consolazione, non è l'unica Italia che esista. Ce n'è un'altra che prova a guardare avanti, e che quelle maledette scale le salirebbe in quattro e quattr'otto, senza troppo sforzo, se la vecchia bizzoca si togliesse dai coglioni. E la saliremmo insieme, non da soli. Se i Jep Gambardella la smettessero di coltivare la decadenza e tornassero a scrivere, tornassero al lavoro, forse questo paese non sarebbe diretto da mafiosi vestiti dai migliori sarti di Roma. E capirebbe che la grande bellezza è quella ancora non vista, e che, se lavoriamo per costruirla, un giorno vedremo. Vedremo, al plurale.

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