martedì 2 giugno 2015

Io, noi e Daitarn 3

Cari amici del Bradipo, come vi ha lasciati questa tornata elettorale? Siete delusi, disgustati, sorpresi, sconvolti? In ogni caso, lo zio Brady ha deciso di proporvi un etto, un etto e mezzo di farneticazioni; se non sapete come passare questa mattinata di festa, ecco che il mio blog, come sapete umile, si rende anche utile.
 
Qui in Liguria, come sapete, ha vinto il centro-destra, favorito dalla diaspora dei civatiani. Questo per me è un risultato positivo. Adesso, prima che mi si lapidi virtualmente, devo affrettarmi a spiegare perché. Intanto comincio con il segnalarvi questo post, tratto da un blog ben più serio e colto di quello che state leggendo. Lo condivido nella sua interezza. Ma, sapendo bene quanto possa essere indolente l'essere umano, vi faccio un brevissimo sunto del suo contenuto: nel momento in cui la "Sinistra" fa cose che la Destra non si era mai azzardata a fare (quando Berlusconi minacciò di toccare l'art. 18 andammo a Roma in tre milioni, mi pare di ricordare), è assolutamente prioritario che quella sedicente sinistra venga spazzata via, per aprire nuovi spazi politici. Come vada fatto è materia di discussione. Siamo di fronte a un processo storico inedito, a meno di forzare analogie. E allora anche i deficienti possono dire la loro; io, naturalmente, ne approfitto.
 
Ricordate Daitarn 3, il robot pilotato dal freschissimo Aran Banjo, sempre conteso dalle sue due belle amichette Rejka e Beauty? Quando l'orfanello scemo e il maggiordomo finto-inglese non inscenavano intermezzi comici di mediocre livello, Daitarn combatteva i meganoidi, "mostri disumani" venuti da Marte per ridurre in schiavitù il genere umano. Ora, mentre Banjo si serviva del suo gigantesco robot (solo per arrivare alla cabina di comando doveva fare la tangenziale), i meganoidi si trasformavano in "megaborg". Questo processo poteva avvenire in due modi: o proiettando sul comandante meganoide degli strani raggi, oppure attraverso la fusione di più meganoidi, ed è su questo che mi vorrei soffermare. Molteplici identità si annullano in una sola: i meganoidi non erano altro che dei settari, degli identitari, dei fanatici. L'Italia, oggi, è il paese dei meganoidi. Di fronte all'impossibilità di riconoscersi in una Sinistra che non esiste più nell'arco costituzionale, scelgono o la strada del travisamento dogmatico della realtà (voto PD perchè sono di sinistra), o quella dell'anacoresi (astensione dal voto), o infine lo scisma. Tutti atteggiamenti, come vedete, riconducibili alla sfera religiosa. Tutti conseguenza del bisogno di riconoscersi in un Io superiore, sintetico, assolutizzante.
 
L'alternativa a questo Io totalitario, e per tanto incapace di azione politica significativa, è un Noi che non soddisfa la nostra ansia di identità, perchè presuppone che ognuno porti al mulino la sua. A qualcuno potrebbe sembrare che questo approccio renda complicato, magari impossibile, elaborare programmi e prefiggersi obiettivi. Lo è sicuramente. Ma è solo dal corpo sociale, da quel Noi variegato e contraddittorio, che può emergere un cammino da percorrere, una visione da costruire. Quando Daitarn si trova in difficoltà, o semplicemente quando si è stancato di fare a mazzate napoletane con i megaborg, ricorre a un'arma irresistibile: l'energia solare. E vince sempre, perchè respinge i suoi nemici alieni con qualcosa che è patrimonio comune del pianeta Terra, e quindi dell'intera specie umana. Il futuro della politica rappresentativa, in Italia come nel resto d'Europa, è esattamente quello. Bisogna catalizzare l'energia solare. Se il concetto di "sinistra" continuerà a designare un'identità, finirà per sparire; se invece si trasformerà nello studio di come catturare l'energia solare, i meganoidi hanno le ore contate.

domenica 24 maggio 2015

La prova del cuoco

Nell'aprile del 2012 scrissi un post sul Napoli di Mazzarri intitolato Non si frigge il pesce con l'acqua , in cui dicevo la mia sui risultati al di sotto delle aspettative di quell'annata. In quella sede assolvevo il tecnico di San Vincenzo, che a mio parere, con tutti i suoi limiti, aveva fatto il massimo possibile con la rosa a sua disposizione. Quando arrivò Benitez, e con lui alcuni giocatori di altissimo profilo, pensai che si stesse svoltando; oggi credo di poter affermare tranquillamente che mi sbagliavo, e mi trovo costretto a scrivere due righe sul fallimento di questa stagione.
 
Qualcuno si chiederà perchè non aspetto la fine del campionato, e di vedere se ci qualificheremo per la Champions o meno. Per me questo è ormai irrilevante. Penso che si sia visto abbastanza. E, se tre anni fa assolvevo Mazzarri, quest'anno giudico Benitez colpevole. Sia detto, en passant, che non sono preda di un accesso di titanismo: so benissimo che i miei verdetti lasciano il tempo che trovano. Come al solito, nel mio angolino di sano solipsismo faccio un po' quel che mi pare.
 
Dunque, dicevamo che Benitez è colpevole. Di cosa? Beh, per quanto mi riguarda è chiaro: Don Rafael, da buongustaio qual è, ha preteso di mettere insieme una sontuosa pietanza con ingredienti non adeguati. Sarà che quest'anno ho insegnato in un istituto alberghiero, ma la metafora culinaria mi sembra quanto mai azzeccata. Alla sua personale prova del cuoco, lo spagnolo si è visto mettere davanti un po' di verdura male assortita e nemmeno tanto fresca, una pagnotta dell'altro ieri e qualche etto di jamon serrano che si era portato da casa. Dando prova di scarso realismo o presunzione (delle due una, non si scappa), si è riproposto di preparare un piatto da gourmet, una cosa da palati raffinati. Si è affaccendato ai fornelli "sin prisa y sin pausa", mentre la salsa si azzeccava sotto e la maionese impazziva. Alla fine, in versione "fat Spanish waiter", ci ha servito la porcata senza battere ciglio.

A questo punto sarà anche il caso di notare che chi porta al grande chef il pane duro e la verdura della settimana scorsa non è un fulgido esempio per l'industria della ristorazione; e qui alludiamo al mai abbastanza vituperato cinecazzaro Aurelio De Laurentiis, furbacchione che il Napoli e i suoi tifosi tengono all'ingrasso come faceva la strega cattiva con Hansel e Gretel, senza però - purtroppo - l'intento e la possibilità di infornarlo quando raggiunga la stazza desiderata. Ma di questo ormai ci siamo anche stancati di parlare. La realtà è questa. Non ci servono i Carlo Crocco del pallone, ci serve gente pratica che sappia tirar fuori qualcosa dalla magra dispensa che ci ritroviamo. Rafa ha fallito la prova del cuoco. Avanti un altro, e che chiunque arrivi sappia che non si tratta di sollazzare i nostri palati, ma di placare la nostra fame.

venerdì 15 maggio 2015

Capa tosta

Cari amici, qualcuno mi accusa di scrivere solo di scuola, ultimamente. Bene, li faccio subito contenti: questo post parlerà di calcio. Ieri il Napoli è stato eliminato dall'Europa League, da una squadra che gli addetti ai lavori giudicavano non trascendentale. Una squadra, miei cari lettori, che sembrava alla nostra portata. Cosa è successo? Semplice: loro hanno segnato e noi no. Quando una compagine il cui intero attacco vale di meno del tuo centravanti fa più gol di te nell'arco dei 180 minuti, qualcosa non ha funzionato. Interroghiamoci (è un modo di dire, non voglio parlare di scuola!) dunque.

Questo film, a dir la verità, io l'avevo già visto. Si attacca, si cinge d'assedio la cittadella dell'area di rigore nemica, per poi dover capitolare davanti ai primi colpi di fionda del Davide di turno. Ieri, però, sono riuscito a fare un cosa che quando guardo il Napoli non riesco a fare quasi mai: mi sono distaccato, complice anche la profonda convinzione, maturata dopo appena pochi minuti dal fischio d'inizio, che non saremmo andati in finale. Grazie a questa distanza sono riuscito a guardare l'incontro con un disincanto che in genere mi riesce impossibile. Ed è allora, cari i loro, che ho avuto la mia epifania. Per spiegarvela ricorrerò, come al solito, al più pusillanime biografismo.

Quando ero un pargolo e giocavo con gli amici su campetti improvvisati della circoscrizione Vomero-Arenella, nessuno voleva mai fare il portiere. Alla fine, dopo lunghe e stremanti trattative, si faceva un po' a turno. Quando ci andavo io, in porta, ricordo che guardavo con molta apprensione lo svolgimento dell'agone, nella speranza, prodotta dalla consapevolezza di non valere cento lire come portiere, che gli avversari non arrivassero troppo spesso al tiro. Spesso, purtroppo, questa speranza rimaneva frustrata. La squadra si sbilanciava e rimanevano dei buchi in cui si infilavano gli avversari, procedendo poi a impallinarmi come una quaglia. Ieri, sera, da una prospettiva diversa, ho visto esattamente la stessa cosa. E secondo me Andujar si sentiva un po' come me quando mi toccava andare in porta.

C'è una differenza fra la filosofia speculativa e il calcio, e se guardate lo sketch dei Monty Python sulla partita fra filosofi capirete bene quale: nel calcio non conta tanto pensare bene, quanto il banalissimo vincere. Come? Fatemelo dire in spagnolo, ché alla fine poi Don Rafael è una persona amabile e simpatica, e ci piace il suo idioma: como sea. In un modo o nell'altro. Di stinco, di nuca, di tibia, di naso, como sea. Perfino di deretano, come il compianto Paulo Roberto Cotequinho, centravanti di sfondamento, al secolo Alvaro Vitali. Nel calcio bisogna essere pragmatici, contano i fatti. E allora, quando i fatti dimostrano che il tuo pensiero non è utile allo scopo, tu dovresti modificare il tuo pensiero. Don Rafael no. Come tanti allenatori di prima grandezza (questo non glielo nego certo), ha un credo, e la tifoseria si è conseguentemente spaccata fra chi crede in lui e chi lo contesta praticamente a prescindere dai risultati. In un inane festival della capa tosta, ognuno dice la sua verità, mentre il Napoli perde con il Verona, l'Empoli e altre bande di musica di quella risma, fallndo sfida dopo sfida.
 
L'anno prossimo è probabile che arrivi un nuovo mister. Si è parlato di Mihajlovic. Chiunque sia, la mia speranza è solo una: che la testa di costui abbia la malleabilità di chi sa che il calcio consiste nel fare un gol più dell'avversario, como sea.


 
 

sabato 2 maggio 2015

31 aprile



Cari amici del Bradipo, ieri non era 1 maggio. No, qualsiasi cosa stiate pensando, fidatevi: non era 1 maggio. Il 1 maggio è primavera e c'è il sole, ieri qui a Genova pioveva e faceva quasi freddo. Il 1 maggio è giorno di riposo per i lavoratori, e io ho passato il pomeriggio a correggere le verifiche dei miei alunni. Pile di verifiche da correggere, fanciulli a blocchi da educare. "Fanciulli a blocchi" è una locuzione usata non ricordo più da quale compagno/a di classe in una versione di greco. La causa di una scelta lessicale tanto infausta fu evidentemente l'incapacità di decostruire il significato per poi ricostruirlo nella propria lingua. Per farlo, è necessario un ordine mentale. Il lavoro, di qualsiasi tipo sia, consiste appunto in questo: mettere ordine, trasformare secondo precisi criteri generati dalla nostra mente al fine di ottenerne un vantaggio. E dunque io non potevo riposare, ieri 31 aprile, perché c'era tanto ordine da mettere negli elaborati e nelle menti dei miei discepoli.

Ancora in serata, mentre ammiravo le avvenenti cameriere della pizzeria Totò e Peppino di Brignole, un intrigante scorcio di hinterland napoletano nel cuore di Genova, pensavo a quelle verifiche. Hanno ragione i miei amici e lettori di questo umile blog a dire che sono diventato monotematico, che nella vita c'è altro dalla scuola. Sì, lo ammetto, ho un problema: ho la sindrome di Socrate. Ma prima che a qualcuno venga in mente di obbligarmi a bere cicuta (come se non bastasse l'inferiore qualità del caffè genovese) ci tengo a precisare che il mio amore per i fanciulli è di tipo rigorosamente platonico. Si tratta non già di disperdere il seme, offizio che ossessiona questa nostra epoca tristemente e aridamente votata al consumare, che senza la capacità di rigenerare equivale al distruggere; ma invece di piantare il seme del buon ordine.

Da quando sono all'IPSSA Bergese ho ripensato spesso a un concetto espresso da Thomas Paine in Common Sense e ripreso da William Godwin nella Political Justice, quello del governo come "male necessario". Un male che, secondo il buon William, può essere contrastato e debellato grazie a una "gradual illumination of the human mind". Ed è questo il punto, di questo post come ormai probabilmente di tutta la mia vita: contribuire, per quel poco che mi è possibile, a illuminare.

E continuiamo a saltare di palo in frasca, perchè dove sta scritto che l'ordine debba essere prevedibile e noioso? Peppino De Filippo, la cui immagine ieri campeggiava imponente su un muro del locale di ristoro già menzionato, era un uomo di destra. Era, diciamola tutta, fascista, cosa che diede luogo a proverbiali litigi con il fratello Eduardo. Ma ascoltate qualche intervista di Peppino, e capirete che era un uomo molto serio. Ho l'impressione che Peppino fosse una di quelle persone che si innamorano dell'idea di un ordine imposto dall'esterno perchè non credono, magari non immaginano neanche che sia possibile un ordine generato dall'interno. Del resto, l'argomentazione dei "treni che arrivavano in orario" in funzione di apologia del fascismo è ben più proverbiale dei litigi fra i due fratelli De Filippo.

E veniamo finalmente alla conclusione. Viviamo in un'epoca rivoltante nella sua violenza e nel suo fanatismo. Un'epoca fan accanita dell'ordine imposto. Il vostro amico Bradipo crede, forse ingenuamente, che sia assolutamente necessario e soprattutto possibile mettere ordine innanzitutto nelle nostre testoline. Per questo si ostina a zappare, svangare, arare l'ingrato campicello simbolico che gli è toccato in sorte. Nella speranza che un giorno riusciremo a liberarci del 31 aprile, e potremo goderci il sole e l'ozio di un 1 maggio conquistato insieme a una umanità più degna, più evoluta, più saggia.

giovedì 19 marzo 2015

Bartleby lo scrivano


Herman Melville ha dato vita a personaggi inquetanti. Proverbiale il capitano Achab, il marinaio ossessionato dalla balena bianca fino al punto di perdere la vita nel vano tentativo di catturarla. Un altro di quei personaggi è Bartleby lo scrivano, protagonista dell'omonimo racconto. Si tratta di un impiegato che ogni giorno siede in silenzio al suo posto in un mesto ufficio della New York di metà Ottocento e copia documenti. Bartleby non sembra avere un passato, né una personalità. Non parla con i colleghi, né con il capufficio, del quale suscita talvolta il risentimento con il mutismo nel quale si ostina a chiudersi. Esegue i propri compiti in modo pedissequo e non mostra il minimo spirito di adattamento, né la minima creatività di fronte alle difficoltà. Non è indifferente solo agli altri, ma anche a se stesso. Gradualmente, perde ogni interesse nel proprio lavoro, e smette dunque di eseguirlo. Il principale, pur essendo infastidito dal suo comportamento, lo prende a ben volere, rinunciando a licenziarlo nonostante sia ormai del tutto improduttivo. Quando scopre che Bartleby abita nell'ufficio, anziché cacciarlo o chiamare la polizia, trasferisce la sede dello studio legale. Saranno però i nuovi inquilini a farlo arrestare. Eppure perfino in carcere, dove il capufficio va a trovarlo in un estremo tentativo di salvarlo, Bartleby continua a mostrarsi indifferente a ogni cosa.

Perché vi parlo di questo signore, cai lettori? Perché oggi, grazie a uno dei miei alunni, ho avuto un'epifania. Ho capito in che direzione vanno le riforme della scuola vergognose che ci rifilano da 20 anni a questa parte: nella direzione di Bartleby lo scrivano. Vanno verso la creazione di un esercito di copisti apatici, senza fantasia, senza slanci,  capaci di accettare passivamente un destino infinitamente grigio e triste. Sterili, improduttivi, morenti fin dalla più giovane età. Per questo si rifiutano ostinatamente di dare vita a un lezione dinamica e partecipata. Scrivono, copiano dalla lavagna, riproducono ciò che altri hanno prodotto. Ad ogni tentativo di scuoterli dal torpore in cui si trovano (nonostante un dinamismo esteriore tanto più amaramente ironico in quanto contrasta con il totale immobilismo della loro vita intellettuale), rispondono come Bartleby "preferirei di no".

Io, del resto, sono un po' come il capitano Achab: non voglio darmi per vinto. Continuo a inseguire il mostro degli abissi, non mi darò pace fin quando non ne avrò fatto saponette e calzascarpe. Se dovessi sopravvivere, chiamatemi Ismaele; in caso contrario, affidate a Bartleby le pagine di questo umile blog, affinché possa divulgarle fedelmente ai posteri...

martedì 17 marzo 2015

Giovani merda


Cari amici, buonasera. Come vedete, oggi sono di umore particolarmente positivo. Sarà il tempo marzolino, questi ultimi scampoli di inverno che assalgono i miei seni paranasali, sarà la sconfitta con il Verona che non riesco ancora a digerire, fatto sta che mi trovo in uno stato d'animo che somiglia a questo cielo genovese: grigio e pesante. Come sempre, da buon apprendista vecchio (l'unico mestiere veramente nobile, sto cominciando a pensare), reagirò formulando critiche. Quella di oggi, come capirete facilmente dal titolo, è rivolta ai giovani.

Per secoli i giovani non sono stati altro che individui anagraficamente definiti, inseriti in una certa fascia d'età, dalla quale sapevano bene che sarebbero progressivamente usciti per entrare in un'altra. Ciò che li rendeva tali era il fatto di avere poco passato e tanto futuro. Siccome "del doman non v'è certezza", costoro si sforzavano di essere lieti e di godersi la vita. Erano insomma persone ragionevoli, sebbene di scarsa esperienza.

Poi, nella seconda metà del Novecento, abbiamo cominciato a parlare di loro come se fossero una specie animale a parte. I giovani sono stati indagati, analizzati, rivoltati come calzini, perchè gli "adulti" non li capivano più. Non era successo niente di strano, semplicemente che quegli adulti avevano smesso di essere ragionevoli, facendo in mezzo secolo due guerre mondiali e svariati milioni di morti, inaugurando nel mentre l'arma atomica. I giovani non potevano più fare finta di niente, e raccogliere con nonchalance il testimone di quella follia organizzata. E allora si appartarono, o per evadere o per provare a immaginare alternative al mondo minaccioso e inospitale che stavano per ricevere in eredità. O magari per fare entrambe le cose insieme.

Successivamente, una nuova catastrofe si è abbattuta sulla specie umana: la cosiddetta "fine delle ideologie". La qual cosa si è tradotta, tragicamente, nella fine delle idee, la fine del pensare. Ormai anche concepire un'alternativa è diventato impossibile. Ci hanno ficcato  a martellate nella testa l'idea che non dobbiamo più seguire nessuna bandiera, e siamo rimasti fermi. Per evitare di sposare dogmi, abbiamo svuotato il cervello, e non siamo nenache più in grado di formulare giudizi di valore sulle cose che ci riguardano. Alla testa di questo cambiamento epocale ci sono i giovani. Un esercito di morti viventi che davanti non ha niente, ma proprio niente, e non se ne cura. Nella migliore delle ipotesi, se vengono da famiglie colte, se gli hanno messo in mano qualche libro, usano gli strumenti che hanno acquisito per lamentarsi in modo insopportabilmente petulante delle loro innumerevoli paturnie. Sono vittimisti, autoindulgenti, profondamente alienati (un'alienazione che non subiscono, ma abbracciano con entusiasmo). Sono incoscienti, terrorizzati dalla libertà, assuefatti alla propria subalternità. Quando anche si ribellano, la loro è la logica dell'ammutinamento, non di una contestazione minimamente strutturata e consapevole. Questi giovani non sanno cosa sia un adulto, e non lo diventeranno mai. Diventeranno vecchi senza passare per il "via", e passeranno chissà quanti turni in prigione. Avranno solo imprevisti, nessuna probabilità di successo individuale o collettivo.

Io, cari lettori, sono nel mezzo del cammin di nostra vita. Ho qualcosa dietro, e davanti un cammino da fare che, date le circostanze, mette paura. Non posso trainare anche questo esercito di zombie. Ci sarà un buco grande così nella Storia, non ci possiamo fare niente. Possiamo solo ripararci sotto l'ombrello del nostro vissuto e aspettare che passi la nottata. I primi raggi del sole disperderanno queste tristi ombre, e potremo allora illuderci di aver solo sognato tanto orrore.

sabato 14 marzo 2015

Il potere di andare nel cesso e il potere di uscirne

"E non hai pietà tu di me?" Così Michelle Apicella, alter ego cinematografico del primo Nanni Moretti, apostrofava un suo alunno durante un'interrogazione in Bianca. C'è pochissima pietà nella nostra scuola, miei cari lettori. Pochissima pietà e quantità industriali di astio e diffidenza. L'ignoranza dei nostri pargoli non dipende dall'impreparazione dei docenti, o almeno non solo da quello; è prodotta, in larga parte, dalla quasi totale assenza di empatia fra insegnanti e alunni.

Ho introdotto un concetto in un post di qualche mese fa, quello della trincea. Tutt'ora la mia immagine personale su Facebook è Gianmaria Volontè in Uomini contro. Un insegnante coscienzioso oggi è ipso facto in trincea contro un'idea di società fondata sul più completo e arrogante disprezzo per l'idea della perfettibilità dell'uomo. I nodi stanno venendo al pettine, la civiltà dei consumi non riesce più a spargere benessere diffuso, e il capitalismo sta scoprendo il suo vero volto. Nel paese dei balocchi c'è sempre meno posto, il futuro ci riserverà sempre meno zucchero filato e sempre più manganelli. Sapere, in questa triste epoca, equivale praticamente a ribellarsi. Per questo la diffusione del sapere va boicottata, a partire proprio dall'istituzione che in teoria dovrebbe favorirla: la scuola.
Il modo principale in cui la scuola boicotta la diffusione del sapere è la creazione di un clima di sfiducia. Questo viene fatto in vari modi: tagli alle risorse, precarizzazione degli insegnanti, ma soprattutto assenza di dialogo. Escludere gli alunni dalla creazione delle regole che dovrebbero instaurare un clima favorevole alla loro formazione, che può aversi solo con la loro partecipazione attiva, significa condannarli a essere subalterni. Non sfideranno mai l'autorità sul piano della sua legittimità, cercheranno di aggirarla con dei sotterfugi o magari anche apertamente, ma solo sul piano della loro capacità di sfuggire alla sanzione; in questo modo, sostanzialmente la validano.

Recentemente la presidenza della mia scuola ha emanato una circolare in cui si vieta agli alunni di lasciare la classe durante le ore di lezione, circoscrivendo questa possibilità a due ricreazioni di dieci minuti l'una. La motivazione di questo provvedimento è il costante abuso che gli alunni facevano della normale, direi, facoltà di uscire dall'aula per andare in bagno. Trasformatasi la scuola nell'Accademia di Atene, ricolma di peripatetico filosofeggiare, colà dove si puote si è deciso di ricordare ai docenti che esiste un regolamento, e che va rispettato. La risposta di alcuni alunni a questa "astuta mossa padronale" (cit.) è stata quella di munirsi di un certificato medico attestante il loro presunto bisogno di recarsi continuamente ai servizi igienici.

Il vostro Bradipo, cari amici, si è molto arrabbiato. A suo parere, non si reagisce così a un'ingiustizia. Ora io dovrei fare uscire solo i furbacchioni, e lasciare a pisciarsi addosso quelli che non hanno trovato un medico compiacente? Ma, soprattutto, mi fa ribrezzo il fatto che, come mi pare sostenesse un famoso erotomane calvo, i carcerati diventano talvolta i propri carcerieri più efficienti. Io vi manderò tutti nel cesso, miei confusi discepoli, ma vorrei anche che ne usciste.

Scriveva il nonno di Frankenstein che non esiste, non può esistere una forma di governo scevra da coercizione, e che dunque qualsiasi governo è un male; ma è d'altro canto un male necessario, dal momento che la specie umana non è ancora in grado di farne a meno. Solo studiando, migliorando la nostra concezione del mondo, liberandola dalla sfiducia in noi stessi e nei nostri simili, potremo uscire dal cesso in cui ci vorrebbe tenere chiusi chi ha cara la necessità del male minore. Uscirne, per poi andarci quando ne abbiamo bisogno senza dover esibire certificati.