sabato 18 febbraio 2017

Cicerone, le canne e la libertà.


Il post di ieri ha acceso dibattiti, come prevedevo. Me ne beo, visto che il mio fine è sempre e soltanto quello di provocare una reazione, positiva o negativa che sia. Nell'epoca del pensiero unico, dell'autoritarismo invisibile, perfino uno sprovveduto come me può e deve farsi carico dell'irrinunciabile compito di fare ironia, nel senso socratico del termine. 

Dunque, per prima cosa constatiamo che tutta l'Italia, non solo Lavagna, è in collera con la madre di Giovanni; in seconda battuta, notiamo come questa morte venga strumentalizzata per fare una battaglia presuntamente libertaria sul diritto a farsi le canne (battaglia sacrosanta, finché riguarda consumi che avvengano fuori dalle istituzioni educative). Personalmente, per chiarire quello che ho scritto ieri e per aggiungere ulteriori ammonimenti da vecchio bacucco, tornerò a insistere su un altro aspetto.

Cari catecumeni, ormai sono tre anni che insegno nella scuola pubblica, e un'idea dei sedicenni di oggi me la sono fatta. Ho insegnato in una grande città e in provincia, in un professionale, un liceo e un tecnico, e vi scongiuro quindi di credermi se vi dico che, nella maggior parte dei casi, i ragazzi non hanno un Nord, niente in base a cui orientarsi, vanno a vento. Ad eccezione di quei pochi che hanno la fortuna di vivere in una famiglia vera, sono immersi in un vuoto assoluto. Avvertono vaghi malesseri ai quali non hanno la minima idea di come rimediare, dato che la scuola, ormai trasformata in poco più che un bivacco, non li aiuta a sviluppare le proprie capacità di analisi della realtà, né il proprio carattere. Vittime? Certo. Ma non di chi vorrebbe spingerli a cambiare.

E adesso, come si conviene al mio stile, passo alla modalità autobiografica. Quando io avevo quattordici anni, mi si è imposto di imparare a tradurre dal greco e dal latino; oggi, grazie alla valenza formativa di quei pomeriggi passati a bestemmiare i morti di Cicerone e Senofonte, sono in grado di insegnare un po' di inglese ai più abbelinati del reame. Ma se non fosse stata esercitata su di me una pressione severa e costante da parte della mia famiglia affinché mi impegnassi nei compiti scolastici, io non avrei mai imparato neanche la prima declinazione. L'essere stato costretto a farlo non costituisce una violenza perpetrata contro la mia libertà, e chi pensasse una cosa del genere si sbaglierebbe clamorosamente; il fatto è che a quattordici anni bisogna imparare ad essere adulti, e questo è difficile. Il richiamo della diversione è più forte di quello del dovere. La diversione: quella cosa a cui un adulto ben formato si dedica nel tempo libero e in modalità che non interferiscano con i suoi impegni.

E veniamo alle canne. Io sono un antiproibizionista. Se le bevande alcoliche sono acquistabili tranquillamente in un supermercato o in un'enoteca, non ha senso che la cannabis sia illegale. Il vino, tanto comune e radicato nelle tradizioni di qeusto paese, è potenzialmente più nocivo dell'hashish o della marijuana. Io lo bevo, in quantità modiche. Qualche volta, diciamo la verità, bevo un po' di più di quello che può essere definito "quantità modica". Ma - e qui casca l'asino - non lo faccio mai a scuola, o nelle ore precedenti alla mia entrata in classe. Una cosa del genere inficerebbe la mia sovrumana capacità di spiegare i verbi modali a gente che ha difficoltà perfino a scrivere il proprio nome (non posso mostrarvi le loro verifiche perché è contro la legge, vi prego ancora una volta di credermi sulla parola). Né tantomeno mi permetto comportamenti che possano essere configurati come reati, mentre sono a scuola. Cerco, nonostante la mia cazzonaggine congenita, di dare un esempio positivo ai miei alunni.

Chi sono le persone che si troveranno impreparate quando la vita e la Storia le chiameranno alla lavagna, dunque? Quelle che, invece di crescere nel lavoro e nell'impegno, sono rimaste piccole. Tutta la cannabis, tutte le macchine di lusso, tutte le pellicce, tutti i gioielli del mondo potranno distrarli, ma non cambieranno di una virgola il giudizio. E la galera peggiore a cui si possa essere condannati è l'incapacità di capire cosa ti sta succedendo, e perché: in una parola, l'ignoranza.

giovedì 16 febbraio 2017

Alla lavagna

Ho saputo della morte di Giovanni, il suicida di Lavagna, mentre facevo lezione. Non frequentava la mia scuola, ma alcuni dei miei alunni lo conoscevano. Frequentava un liceo sportivo, una delle tante sontuose florescenze della "combo" di riforme che ha messo in ginocchio il sistema educativo italiano. Ora, io non so - e preferisco non sapere - cosa si insegni in un tipo di scuola chiamata "liceo sportivo", ma so che Giovanni non era uno "studente che studia", come avrebbe detto Totò; era uno dei tanti ragazzi che la mattina vengono parcheggiati in un'aula, aspettando il momento della campanella, che li libera dall'obbligo di avere a che fare con quei quattro rompicoglioni che siamo noi. E allora li vedi in giro per Chiavari, dove sono concentrate tutte le scuole superiori della zona, o nella vicinissima Lavagna, che con le sue giostre rappresenta la Mecca degli sfaticati. 
Giovanni fumava droghe leggere, e questo non è scandaloso; ma, se mi permettete, a me che ho già dato agli stili di vita alternativi (due anni di militare al Tien'a Ment, sempre per parafrasare Totò), una cosa è farlo nel tempo libero, un'altra dedicare intere giornate a questo consumo. Io ogni sera mi apro una birra, ma dopo aver fatto lezione, aver preparato quelle del giorno successivo, corretto eventuali compiti; insomma, ho un tempo di lavoro e un tempo di svago. La scuola, molte lune fa, mi ha insegnato a fare questa distinzione.
La GdF, questi macellai, questi assassini di stato, è stata chiamata dalla madre di Giovanni. Il paesello, questa tristerrima cittadina di SUV e pellicce, di cattolicesimo bigotto e divorzio facile, di adulti distratti e figli allo sbando, si è indignato. Loro, i loro figli, li proteggono, e una cosa del genere non l'avrebbero mai fatta. Se Giovanni fosse stato figlio loro, passerebbe ancora le giornate a farsi le canne, tra la scuola e la strada, mai veramente distinte in quanto vissute con le stesse identiche modalità. 
 
Voi, che vi definite comunisti, o quantomento progressisti, e adesso parlate di brutalità poliziesca e legalizzazione delle droghe leggere (sulla quale peraltro concordo), siete sicuri che il problema - in questo caso - sia la repressione? Prima o poi la vita di ciascuno di noi, o la Storia - che è vita collettiva delle civiltà - ci chiama tutti alla lavagna; che vergogna sarebbe fare scena muta perché abbiamo passato una vita intera a scambiare il vuoto assoluto per la libertà. 

sabato 28 gennaio 2017

Il monopolio della forza


Ebbene, è arrivato il fine settimana. Dal momento che il cane mozzica lo stracciato, il tempo fa schifo e io ho tutta la scatola cranica indolenzita per via della sinusite. Viene così sventato, per l'ennesima volta, il pericolo che io possa godermi questi due giorni senza fanciulletti posseduti dal Maligno. Essendo costretto da un tasso di umidità del 4675% a restare a casa, scriverò.

Avrete letto della legge approvata recentemente in Russia (per ora solo da una delle due Camere), che "legalizzerebbe" la violenza domestica. Naturalmente si tratta dell'ultimo di una lunghissima serie di attacchi a un paese considerato nemico dalle elite europee e nordamericane, per motivi che ovviamente non hanno niente a che vedere con quei quattro valori di cartapesta che ci siamo ridotti a coltivare. La verità è che i Russi possono anche trovare una cura definitiva per il cancro, azzerare la disoccupazione e far crescere la palma da datteri in Siberia, saranno sempre cattivi. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì del modo in cui la notizia è stata travisata.

Andando sul sito della BBC ci rendiamo conto che questa legge, in effetti, ne corregge una precedente  che era piuttosto severa contro gli autori di violenze in famiglia. Il nuovo quadro normativo prevederebbe pene lievi per coloro che non causano danni fisici, a patto che non siano recidivi. Come possiamo vedere, siamo ben lontani da un semaforo verde offerto ai violenti. Sebbene la notizia sia stata prontamente associata al problema della violenza sulle donne, che come sappiamo bene fa tanta audience, a ben vedere questo aspetto c'entra poco e niente. Gli uomini che picchiano le loro donne lo fanno "per bene": i danni li fanno, eccome. Qui c'è un'altra cosa in ballo, e cioè il classico ceffone dato a un figlio o a una figlia quando passano il limite.

E nemmeno mi voglio addentrare nel discorso sulla validità del metodo mazza e panella, sul quale ognuno ha la sua idea e se la terrà. Il punto è come, dietro una patina di tolleranza e libertà, si nasconda il potere più dittatoriale e spietato che il mondo abbia mai conosciuto: quello del capitale. I bambini devono crescere liberi, senza costrizioni. Certo, perchè la pubblicità, la pressione dei pari (già belli indottrinati dai sacerdoti del consumo sfrenato) e il gran carrozzone dei mezzi di comunicazione non applicheranno su di loro nessun condizionamento, per carità. Non si permettano, mamma e  papà, di frapporsi tra questo colorato, simpatico totalitarismo e i loro figli. Gli unici che possono dare mazzate alla cecata sono i detentori del vero, unico potere che sopravvive in questa era petalosa: quello di guidare un gregge di imbecilli consenzienti alla fine della propria umanità.

domenica 22 gennaio 2017

Chi fatica e chi si arriccia i baffi

- E non vi arricciate il baffo...
- E pecché?
- Noi siamo napoletani, lo sappiamo che significa l'arricciatina di baffo...

Questo è un post semiserio, come si conviene a un globo terraqueo che ha perso la serietà. Lo ha dimostrato, in modo teatrale quanto patetico, da quando Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali negli USA. I sondaggisti, che qualche dato dovevano averlo alterato, a occhio e croce, hanno finto stupore; i commentatori, soliti volti noti, hanno dato fiato alle trombe come sempre, ovvero a vanvera; i bleeding hearts, gli educati alfieri del politically correct, si sono stracciati le vesti. Ma cosa è successo veramente? Bene, visto che ognuno ha detto la sua, parlando rigorosamente a vanvera nella stragrande maggioranza dei casi, ora lo faccio anch'io.

Già dal XIX secolo, cioè praticamente da neonato, il capitalismo industriale è entrato in una crisi di popolarità che nessun altro sistema aveva mai vissuto, se escludiamo le eccezioni della Riforma protestante e della Rivoluzione Francese. E questa crisi morale ha riguardato, presto o tardi, tutti i paesi in cui il processo di industrializzazione aveva luogo. La bile vomitata dalla borghesia su pensatori e attivisti socialisti, comunisti e anarchici era motivata da un fattore evidente: quei sovversivi avevano ragione. Si poteva pensare che il capitalismo fosse riformabile, ma che andasse riformato era un'evidenza che nessuno negava. E non - attenzione perché qua casca l'asino - perché il capitalismo fosse ingiusto, ma perché non poteva sopravvivere a lungo così come era.

E infatti ci sono volute due guerre mondiali per rimetterlo in sesto. La guerra è, oggettivamente, l'unico modo per far sopravvivere un sistema che necessita di un aumento continuo della produzione. Le bombe sono, dal punto di vista capitalistico, l'investimento migliore: si usano una sola volta, e poi devi rifare l'ordine. Ma, prima che un numero inconcepibile di tonnellate di bombe venisse sganciato sulle città europee, qualcuno negli Stati Uniti aveva già cominciato a capire che la giostra poteva continuare a girare solo se si cominciava a farci salire anche qualche inferiore, come avrebbe detto il Barambani. La civiltà dei consumi, quella che va in giro con la Ford modello T, se ne frega del proibizionismo e si rimpinza di pubblicità e gadget inutili, è l'unico modo per far sopravvivere un sistema irrazionale e violento. Se vuoi che il bambino si distragga e non ti dia fastidio, gli devi mettere la pazziella in mano. Altrimenti si accorge, bambino e buono, che lo stai stronziando, e diventa meno collaborativo.

Naturalmente, per avere il modello T, la casa col giardino e gli elettrodomestici bisogna lavorare. Questa è la semplice intuizione del fordismo: ti faccio lavorare e ti pago non dico bene, ma decentemente, affinché tu possa comprare quello che io vendo. In questo modo non solo io faccio un profitto, ma tengo anche buono un popolo, soddisfatto del proprio benessere; le rivoluzioni le fanno i disperati, non i figli degli avvocati e degli ingegneri, che magari si fanno crescere i capelli o portano i blue jeans, al limite distruggono le proprie vite con le droghe, ma difficilmente andranno mai oltre. Non sono lavoratori, sono gente che si arriccia i baffi. E, in quanto tali, nemici naturali di chi lavora. Per favore, non chiedetemi di spiegarvi questo passaggio, perché è così evidente che se non lo capite da soli non credo che potrò mai riuscire a spiegarvelo.

Dagli anni '80 in poi, abbiamo assistito a una graduale ma inesorabile ascesa di quelli che si arricciano i baffi. La classe media retrocede sempre di più con i suoi mediocri sogni di relativo benessere, e i baffi arricciati troneggiano su un mondo in cui la ricchezza è divisa sempre meno equamente. Qual è il problema? Che adesso il bambino non ha più la pazziella in mano. E, non più distratto né blandito da quelle briciole di benessere, sta sgamando il gioco. Non fatevi ingannare dal fatto che votano a "destra" e fanno discorsi "fascisti": stanno cominciando a capire. Per ora ce l'hanno con la globalizzazione, con i migranti, con il politicamente corretto; prima o poi, inevitabilmente, realizzeranno che il nemico vero è l'arricciatina di baffo. Chi ha velleità di intellettuale progressista dovrebbe cercare di capirlo prima di loro, prima che sia tardi; a patto,ovviamente, che riesca a resistere alla tentazione di arricciarsi quei cazzo di baffi.

martedì 17 gennaio 2017

Aristocrazia per tutti

- Cos'è che beviamo, Calboni?

Quella merdaccia di Calboni, essendo un fasullo da capo a piedi, sa bene come darsi un tono. Il geometra partorito dalla penna di Paolo Villaggio è maestro dell'arte del far vedere. Solo che, come tutti coloro che si arrampicano sul palo ben oliato dell'ascesa sociale, è a rischio continuo di rovinosi scivoloni. Fantozzi e Filini, che si portano la Prunella Ballor da casa, potranno non rendersene conto, ma chiunque abbia tanto così di cultura e di mondo visto e vissuto capisce quanto sia tristemente inferiore il maschio Alfa della megaditta. Non inferiore per aver avuto la sfortuna di nascere all'estremità sbagliata dei rapporti di produzione; inferiore perchè si vergogna di essere ciò che è, e prova a essere altro; e dunque ha accettato come un dato di fatto scontato, che non necessita di essere argomentato e dimostrato, figuriamoci affermato con la forza, la propria inferiorità.

E adesso accantoniamo il pessimo Calboni, e diamo uno sguardo a Mr. Wemmick, l'impiegato che prende Pip a ben volere in Grandi Speranze di Dickens. Wemmick vive in un castello con tanto di ponte levatoio, in cui si prende cura dell'anziano genitore e porta avanti un legame affettivo tenero e sincero con la fidanzata, Miss Skiffins. Se il giorno del suo matrimonio con quest'ultima Wemmick esce con una canna da pesca in spalla non è perchè si vergogna di quell'amore, ma piuttosto per difendere il proprio mondo affettivo e morale da quello ricco, potente, magari anche titolato ma essenzialmente plebeo nel peggiore dei sensi. Quello del suo datore di lavoro, l'avvocato senza scrupoli Mr. Jaggers, che vive e prospera raggirando il prossimo. In my private and personal capacity è la formula, buffamente ricalcata sul gergo legale, che utilizza ogni volta che vuole marcare il confine fra la merda che gli tocca mangiare in ufficio e la vita degna, addirittura esemplare, che si è costruito stoicamente nella dimensione personale.

Un mio amico sosteneva, in una conversazione su Facebook, che l'educazione (o istruzione, chiamatela come preferite) è per sua stessa natura aristocratica. Io sono d'accordo, ma bisogna intendersi sul significato dell'aggettivo. Oggi ho fatto verifica in 4A, e gli esiti sono stati sorprendenti. Per una volta, in positivo. Non che siano andati tutti benissimo, intendiamoci. Il punto è che certi 5 sono diventati 7, e certi 6 si sono trasformati in 8. Questo nel giro di un paio di mesi. Senza che io andassi incontro a uno stuolo di alunni "invalidi" semplificando i quesiti. Semplicemente, alcuni ragazzi avevano deciso che volevano fare meglio. Per dirla con Freire, ascoltare la propria vocazione storica e ontologica a essere di più. Questa è, in buona sostanza, "l'aristocrazia borghese" di Wemmick: la possibilità, la scelta di evolversi, di migliorare senza per questo sottrarre alcunché agli altri, l'unico argine che ci dà qualche speranza contro i Jaggers e i Calboni di questo mondo. Un ponte levatoio che si alza e si abbassa quando lo diciamo noi, in barba a tutti i soldi e tutto il potere dei veri plebei. Fino a quando il mondo non sarà una pacifica, consensuale confederazione di uomini e donne pienamente sovrani su se stessi.

lunedì 16 gennaio 2017

Concè, fa freddo dentro?

Cari i miei, dopo una lunga assenza sono tornato. Da ligure di adozione, la mia priorità è il mugugno: lamentarmi sistematicamente di tutto ciò che non va nella mia esistenza (ovvero pressoché tutto). E mugugnare è quello che farò.

Come spesso accade, mi trovo costretto a sfogare il mio disappunto di fronte allo fenomenologia dell'adolescente contemporaneo; un disappunto paragonabile a quello del signor Praline nel sentirsi dire che Bolton sarebbe il palindromo di Ipswich ("The palindrome of Bolton would be Notlob" osserva l'arguto avventore). Venerdì, e nuovamente stamattina, molti degli alunni della scuola presso la quale presto servizio si sono rifiutati di entrare in classe a cause delle temperature troppo basse registrate dal termometro all'interno del plesso. Dimentichi dell'assioma in base al quale l'alunno scalda il banco, essendo dunque da considerare fonte primaria di calore, essi si sono scagliati contro le gravi deficienze dell'impianto di riscaldamento, ritenendole ragione sufficiente per disertare le lezioni. E questo in un momento in cui si tirano le somme del primo quadrimestre, con le ultime interrogazioni e verifiche scritte ancora da effettuare.

Viene in mente la risposta di Concetta a Luca nella commedia dal vostro Bradipo spesso citata, a cui fa riferimento la foto: "Fa freddo! Il freddo non l'ho inventato io, l'ha inventato il Padreterno, perciò ti devi rassegnare! Fa freddo... fa freddo... fa freddo!" E Lucariello, che tutta la notte non ha potuto prendere calimma, stoicamente si alza, si lava e si veste in una casa gelata.

Tommmasino invece, 'o nennillo, non si alza se non gli portano la zuppa di latte, 'o zuppone, a letto. Questo giovanotto pigro, infantile, disonesto e ignorante è la vera icona della generazione a cui mi tocca insegnare. Una nidiata di eterni cuccioli viziati dalle madri nell'assenza o nell'incapacità di intervenire dei padri. Una adunata, sediziosa solo ed esclusivamente per i più futili dei motivi, di individui seriamente compromessi nello sviluppo psicoevolutivo  da un esercito di Concette, di nemiche della casa, nemiche dei figli, nemiche del proprio sangue.

La scuola è, effettivamente, una casa gelata. In tutti i sensi. Ma si capisce: "è il meso suo... lo deve fare". La stagione non è propizia. Educazione, sanità, servizi pubblici in genere sono voci in bilancio da tagliare quanto più è possibile. Il prezzo mi pare evidente: una generazione che, mentre le fanno il vuoto intorno, resta a letto ad aspettare la zuppa di latte.

martedì 1 novembre 2016

Narcodemocrazia

Da un po' non scrivevo, tutto preso com'ero dall'erculeo quanto vano sforzo di salvare qualche vita umana dal baratro del che "cazzo sta succedendo?" perpetuo. Il ponte dei morti mi ha portato consiglio. Questa pausa di riflessione e riposo, unita alla più recente delle mie periodiche ossessioncine, mi ha spinto a scrivere la presente. Se, come me, siete affascinati dalla figura di Pablo Escobar, vi consiglio due serie televisive e un documentario: le serie le trovate entrambe su Netflix, e sono Narcos e Pablo Escobar, el patron del mal. La prima è una produzione statunitense, e quindi è fatta molto bene, ma è parecchio romanzata e non coglie, a mio modestissimo parere, certi aspetti della vicenda del "capo dei capi"; la seconda è stata prodotta dalla televisione di stato colombiana, ed è quindi più modesta dal punto di vista qualitativo, ma certamente più attenta alla cornice politica e sociale della Colobia negli anni Ottanta e all'inizio dei Novanta. Il documentario, che consente di separare quanto c'è di reale nelle due serie dall'inventato (che è tanto, soprattutto in Narcos), si intitola Los tiempos de Pablo Escobar, e lo trovate qui.
Prima di addentrarci nella vicenda del "Robin Hood paisa", come fu definito Escobar, vi linko un articolo di Diego Fusaro. Che cosa c'entra? C'entra, in qualche modo. Parla della fine della borghesia, quella classe sociale che, tanto vituperata e tanto demonizzata, ha prodotto Charles Dickens, tanto per dirne uno. Ecco, Charles Dickens, uno che quando scriveva (e ha scritto tanto, come sappiamo), si occupava e si preoccupava del giusto e dello sbagliato, del morale e dell'immorale. La borghesia imperialista, razzista, classista dell'Ottocento sottoponeva a giudizio se stessa. Si assolveva, il più delle volte, ma si giudicava. 
E torniamo a  Escobar. Con i soldi della cocaina la Colombia si è arricchita, e di brutto. Ecco perché Escobar è diventato il criminale più ricco di tutti i tempi, ed ecco perché la società colombiana gli ha offerto per molti anni un sostegno più o meno unanime, con il silenzio e l'omertà, quando non proprio con l'aperta ammirazione. Con la sua politica di plata o plomo, denaro o piombo, Escobar ha creato un paese in cui l'accettazione della corruzione, ovvero della completa rimozione di ogni sistema di regole a favore del potere assoluto del soldo, spalancava le porte al benessere; ha inventato la narcodemocrazia. Non si fondava solo, né forse prevalentemente sulle armi, il potere di Don Pablo. Il popolo lo amava, per il suo impegno nella lotta alla miseria (Escobar avviò un programma edilizio per dare alloggi ai poveri di Medellin), per il suo ruolo di mecenate dello sport, ma quasi certamente anche perché vedeva in lui un uomo semplice che si era tirato fuori dalla povertà grazie alla sua berraquera, che sarebbe la cazzimma colombiana. 

Leggete l'articolo di Fusaro, leggetelo con attenzione. Forse converrete con me che Pablo Escobar, finalmente sconfitto dai suoi rivali (cartello di Cali in testa) più che dalla società cosiddetta "civile", è stato un araldo della nostra democrazia, dei nostri valori, della nostra visione della vita e del mondo. Berraquera, plata y plomo. Forse con questa faccia da Nobel per la pace vi piace di più.