Robespierre e Di Pietro, due acerrimi nemici del garantismo. Sotto: un allegro raduno di giustizialisti.
L'Italia è un paese strano. Ma strano davvero. Ovunque nel mondo esistono e vengono applicate tecniche di comunicazione politica volte a focalizzare l'attenzione degli elettori su alcuni argomenti piuttosto che altri, e cercare di far passare in sordina notizie che non si vogliono al centro del dibattito pubblico. In Gran Bretagna, ad esempio, lo straordinario successo di Tony Blair è stato costruito per buona parte grazie al contributo di eccellenti spin doctors come Alastair Campbell e Peter Mandelson. Bill Clinton aveva usufruito dei servizi di un think tank altrettanto formidabile. Eppure, fuori dai nostri confini nessuno si sogna di provare a negare l'evidenza e sovvertire la percezione comune di eventi che hanno ben poco di ambiguo o equivoco. Qui da noi è da un decennio e mezzo che si ripete sistematicamente tale operazione. Il cav. Silvio Berlusconi ha fatto irruzione sulla nostra scena politica e l'ha trasformata in uno spettacolo di illusionismo da fiera di paese. Lui, il Magnifico Silvio, è in grado di farci vedere minacce comuniste assolutamente inesistenti, o trasformare mafiosi in eroi. Ma stavolta il mago di Arcore si è superato: ci ha riportati dritti dritti nella Francia del 1789.Si è creato un intollerabile clima giacobino, le toghe rosse vogliono sovvertire la volontà popolare, la democrazia è in pericolo. Guardiamo il volto rude e schietto di Tonino Di Pietro e improvvisamente, sim salabim, vediamo un parruccone incipriato che in francese, senza la minima inflessione molisana, tesse l'elogio della ghigliottina come soluzione di ogni male. Come non inorridire? Ci sono gaglioffi della peggiore specie, ricolmi d'odio e risentimento sociale, che vogliono intercettare le nostre conversazioni telefoniche, cercando il più insignificante pretesto per far scendere sul nostro capo la mannaia della rivoluzione bolscevica (sì, in nome dell'Amore e della Libertà un piccolo salto cronologico è perfettamente legittimo); come non essere annichiliti dal terrore? D'altra parte, si sa, gli italiani li schiodi dal loro atavico immobilismo solo con le minacce. Con la paura del pericolo rosso ci hanno fatto accettare vent'anni di dittatura e una guerra per la quale eravamo attrezzati come la Juventus per vincere lo scudetto. Dunque, non possiamo che invocare il garantismo, parola-amuleto che i nostri politici, faccendieri e lestofanti di varia estrazione invocano ognora come un ecumenico 31 salvatutti.
Ma cosa vuol dire garantismo? Proviamo a chiedercelo. Anzi, facciamo così: proviamo a immaginare come spiegheremmo a uno straniero cos'è il garantismo. Io, che annovero tra i miei interessi il far finta di essere il figlio illegittimo di Gary Lineker, ho fatto questo simpatico esercizio di ipotetica esegesi politico-filosofica. Di fronte a me c'è John Smith, un suddito qualsiasi di Elisabetta II, che si trova in Italia per lavoro e ha bisogno di imparare la nostra lingua; pertanto ha cominciato a leggere i nostri quotidiani, e si è imbattuto in un termine oscuro, che per quanti sforzi facesse non è riuscito a comprendere. Garantismo, appunto. Ora mi chiede di illuminarlo, e io mi trovo subito di fronte alla prima difficoltà: non esiste un termine analogo in inglese. O, se esiste, lo conoscono solo lo staff dell'OED e del Merriam-Webster. Dovrò dunque, con il mio inglese parzialmente fluente come la chioma di un metallaro di mezza età, provare a dare a John Smith un'idea di questo italianissimo fenomeno.
Partirei probabilmente dagli albori della Repubblica Italiana, ricordandogli come questa sia nata sulle macerie di una dittatura, e come dunque fosse una priorità assoluta per i nostri Padri Costituenti evitare il ripetersi di persecuzioni politiche, vigliacche rappresaglie, delazioni e varie altre amenità che avevano contraddistinto la "allegra" gestione dell'ordine pubblico e della giustizia durante il ventennio. Noterei quindi come la nostra Costituzione esprima quelle più che legittime preoccupazioni, e come tutto il nostro sistema giuridico e giudiziario sia quindi molto attento al rispetto dei diritti dell'imputato e delle procedure processuali. A questo punto introdurrei il concetto di "garanzia", così come viene inteso in questo contesto, arrivando alla conclusione che il garantismo è quell'orientamento culturale fondato sulla convinzione che la giustizia debba essere esercitata sempre in modo equo, misurato, senza sacri furori e senza eccessi di emotività. Sarebbe ormai relativamente semplice insegnargli il significato dell'antonimo di garantismo, ovvero "giustizialismo". Ma John Smith sarebbe soddisfatto di questa spiegazione?
Mi permetto di ipotizzare una risposta negativa al quesito testè posto da me medesimo. Osserverebbe, quasi certamente, che si tratta di affermazioni una più scontata di un'altra. Che le leggi ben scritte sono chiare, senza ambivalenze o ambiguità, e senza grossi margini di interpretazione. Che il magistrato si limita ad applicarle, così come le forze dell'ordine si limitano (o dovrebbero limitarsi) a mettere gli individui sospettati di reati a disposizione del potere giudiziario. Sosterrebbe che le pene devono essere commisurate ai reati e, qualora appaiano troppo severe, sta al potere legislativo modificarle .
Se poi John Smith avesse anche una certa conoscenza della nostra storia e della nostra cultura, potrebbe anche spingersi oltre. Potrebbe ipotizzare che il garantismo è una categoria italiana, non traducibile e non esportabile con facilità, perchè nasce da una concomitanza di circostanze molto peculiare, forse unica nell'Europa occidentale, che ha prodotto un risultato nefasto: l'Italia è forse l'unico paese di questa zona del mondo a non essere mai diventato una nazione (sulla Spagna mi astengo dal formulare un giudizio per "insufficienza di prove"). Noi abbiamo paura del concetto stesso di nazione. Ci sa di fascista, di autoritario, di reazione. Eppure si tratta di un concetto indispensabile per dare a un popolo il senso di comunanza necessario a evitare la disgregazione e il "si salvi chi può" a cui alludevo nel post precedente. Se non impariamo a riconoscerci nella parola "Italia", nella sua Costituzione, nelle sue istituzioni e le sue leggi (per quanto possiamo dissentire dal loro contenuto), saremo sempre presi d'assedio da bifolchi secessionisti e furbacchioni mafiosi, e non diventeremo mai il paese prospero e civile che dovremmo essere per vocazione storica.
Sono assolutamente certo che alcuni di voi in questo momento sono perplessi o confusi nel leggermi, e forse si stanno convincendo che le mie facoltà mentali siano state definitivamente compromesse dall'alcol. Ma che cazzo dici, Bradipo? Non ti seguiamo più...Mischi concetti di destra e di sinistra...ma come la pensi allora???
Purtroppo, carissimi amici e amiche, il povero Bradipo ha vissuto esperienze di radicale sradicamento che ne hanno sconvolto il patrimonio ideologico, rendendolo un ripugnante e ambiguo crocevia di nozioni e credenze. Come quando, guardando una partita del 6 Nazioni di rugby che l'Italia giocava a Murrayfield, Edimburgo, ho visto 80.000 uomini, donne e bambini alzarsi per cantare insieme Flower of Scotland, inno non ufficiale della Scozia (nazione peraltro senza stato), dalla prima all'ultima nota, senza sbagliare le parole e senza andare penosamente fuori tempo come capita sempre a noi. Perdonatemi, ma cose del genere mi fanno riflettere. E mi fanno arrivare alla conclusione che noi, quelli che dovrebbero essere scaltri, disincantati e svelti di comprendonio, invece non abbiamo capito una fava della cosa più importante per un popolo: il senso di appartenenza.
Spesso noi non ci sentiamo italiani quanto napoletani, milanesi, romani, oppure comunisti, fascisti, anarchici e così via. Tra l'individuo e la nazione in Italia ci sono la famiglia, il campanile, l'appartenenza politica, la confessione religiosa e perfino, cazzo, la squadra del cuore. Per noi metterci d'accordo non vuol dire trovare una soluzione di compromesso che sembri giusta e valida al maggior numero possibile di persone; vuol dire fare la somma algebrica delle assurde e ingiustificate pretese di questa, quella e quell'altra fazione o tribù, e in culo all'interesse comune. Altrimenti, cari amici, non riesco a spiegarmi come sia possibile il perdurare sul nostro territorio di vergognose situazioni di collusione fra politici "democraticamente eletti" e organizzazioni criminali. La verità è che, al momento di spartirsi il potere, la mafia è una forza in campo come le altre; cosa importa che la sua stessa esistenza sia incompatibile con il concetto del monopolio della forza da parte dello stato, fondamento di qualsiasi sistema giuridico moderno? E che c'è di strano se nei quartieri popolari di Napoli, Palermo o Bari la gente vede con favore i traffici dei boss locali, e cerca di impedire con ogni mezzo le retate delle forze dell'ordine? Quella è la loro classe dirigente. Gomorra non è una città, è una nazione intera. Dovrebbe avere una bandiera. Lo stato è un intruso, e basta.
Non è a caso che cito la criminalità organizzata. I mafiosi e i loro fiancheggiatori in Italia sono fra i principali sostenitori del garantismo, per ovvi motivi. E hanno gioco facile, grazie alla nostra predisposizione al sospetto verso concetti che per un tedesco o un britannico sono scontati. I rigori del 41 bis possono sembrare eccessivi a chi, per formazione ideologica, vede la pena come una sorta di cammino spirituale verso il pentimento e la salvazione (come siamo cattolici in questo!); personalmente, in base al già citato principio della commisurazione del castigo al crimine, credo che un regime carcerario particolarmente rigido sia una punizione del tutto adeguata a una persona che ha dichiarato guerra all'intero consorzio civile e alle sue regole elementari di rispetto reciproco. Non mi piace, inoltre, l'espressione "pentito". Preferisco di gran lunga "collaboratore di giustizia". Per me un mafioso resta un mafioso, e tutte le agevolazioni che riceve in cambio delle informazioni fornite sono da considerarsi frutto di una scelta strategica, non di un'indulgenza papale.
E veniamo alla politica. Esistono tre tipi di voto in Italia: quello di appartenenza ideologica, quello di opinione e quello dettato dall'interesse personale, clientelare o meno che sia. Il primo e il terzo decidono senza dubbio i risultati di qualsiasi confronto elettorale. C'è da noi un rapporto fra elettori ed eletti completamente rovesciato rispetto alla norma del mondo occidentale: dal momento che noi "apparteniamo", per ragioni culturali o di portafoglio, a questa o quella forza politica, loro non sono tenuti a dimostrarsi degni della fiducia ricevuta, tanto li voteremo comunque. Non sono loro a mettersi al nostro servizio, ma noi ad essere perennemente al servizio del potere. Duecento anni fa ci dividevamo in chi tifava per Napoleone e chi tifava per le monarchie conservatrici, fermo restando ovviamente che chiunque ci avesse governati l'avrebbe fatto senza interessarsi minimamente all'interesse comune; oggi non è cambiato molto. Alle ultime elezioni regionali in Campania si sono fronteggiati due personaggi come al solito vecchi e compromessi (lo so che Caldoro è anagraficamente giovane per gli standard italiani, ma io mi riferisco alla mentalità e all'impostazione politica). All'indomani della vittoria del centro-destra, Facebook è stato inondato di moniti millenaristi che volevano la Campania irrimediabilmente avviata verso un baratro senza fine. Ma queste persone sono andate in letargo durante il lungo e controverso regno di Bassolino? Hanno dimenticato l'intervista di Report, quando l'allora governatore sbottò contro il giornalista per aver osato fargli una domanda non concordata? Come se fosse una naturale prerogativa dei potenti quella di decidere quali domande possono essere loro poste, e quali no? Detto molto semplicemente, quello che l'incidente dimostra è che i nostri politici non si sentono responsabili nei nostri confronti del loro operato, ma solo depositari di un potere che non va sottoposto ad alcun tipo di controllo.
Nemmeno quello della magistratura, perchè per fare la politica in Italia bisogna sporcarsi le mani. Siamo irragionevoli se pretendiamo il rispetto della legge da parte di chi più di ogni altro dovrebbe rispettarla, perchè occupa incarichi istituzionali. Se il ghibellino ruba, tu fai finta di guardare da un'altra parte. Altrimenti che facciamo, lasciamo vincere i Guelfi? Continuiamo pure a lamentarci di Berlusconi, della P2 e della P3, di Cosentino e dei suoi dossier, di Puttanopoli e di Bertolaso. Tanto al governo ci sono loro, a livello nazionale come a quello locale. E le mani sporche sono quelle che maneggiano i soldi. Ma attenzione alle intercettazioni, perchè un giorno potrebbero colpire chiunque di noi. O magari (più probabilmente) un ghibellino che si spartisce la torta con i vecchi amici. Facciamole pure, ma con prudenza. Diritto di stampa sì, ma con moderazione. Legalità, certo, ma senza lasciarci prendere la mano.
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