martedì 24 settembre 2013

Ci sono Blanc, Proudhon e Marx seduti al bar...

Questo è un post che da un po' mi trattenevo dallo scrivere. Ma siccome dovunque mi giri vedo autoritarismo, rigidità, idiozia sclerotizzata, sono costretto a difendermi con la consueta arma dell'invettiva dialettica. Mettiamo le carte in tavola, poniamo fine ai sospetti e agli equivoci: voi mi dovete schifare con piena coscienza. Tanto lo so che la morte sociale, più volte paventata da queste pagine virtuali, non arriverà; se non altro, perchè mi leggete in quattro.

Oggi dovete avere un po' di pazienza con me, perchè dobbiamo partire da lontano. Per la precisione, dal 1846, data di pubblicazione del Sistema delle contraddizioni filosofiche di Pierre Joseph Proudhon. In questa opera il fiosofo francese polemizza con Louis Blanc. Chi è questo signore? Avete mai sentito o letto la massima "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni"? Questa frase non è di Marx, come pensano in molti, ma di Blanc, il più autorevole esponente di quello che allora in Francia si chiamava "socialismo di stato". Perchè lo critica Proudhon? Perché, secondo lui, una filosofia basata su questo concetto, apparentemente equo e di grande umanità, presuppone l'aderenza a un concetto di giustizia autoritario. Il concetto di giustizia distributiva contenuto in questo aforisma presuppone infatti che qualcuno abbia il compito, si arroghi il compito di decidere quali sono le mie capacità e i miei bisogni. Il rischio è che porti a una società in cui tutti gli animali sono uguali, ma i maiali sono più uguali degli altri, per dirla con Orwell. L'alternativa, per Proudhon, è la giustizia commutativa che regola i rapporti fra liberi produttori associati, sostenuti da un sistema di credito non più finalizzato all'accumulo e all'arricchimento di pochi, ma messo al servizio della collettività.

Non è mia intenzione entrare adesso in una discussione sulla validità del modello proposto dal rivoluzionario di Besançon; quello che mi interessa è la sua critica del concetto di giustizia distributiva, e l'intima relazione di quest'ultimo con il concetto di rivoluzione sviluppato da quella parte del movimento socialista che avrebbe maggiormente inciso nella storia a venire. Non è questa la sede per sviscerare la virulenta polemica scatenata dal giovane Marx nei confronti del più maturo Proudhon, per il quale pure aveva espresso ammirazione in precedenza. Tantomeno è il caso di schierarsi. Limitiamoci a constatare che la storia della Sinistra è, fin dagli albori, una storia di scazzi e rivalità personali. Quello che ci concerne, ora, è che Prodhon ha cominciato ad avere ragione sulla giustizia distributiva nel 1848, quando gli ateliers nationeaux di Blanc fanno clamorosamente fetecchia, e non ha ancora smesso. 
 
Se la classe mercantile è riuscita ad emergere, nel contesto della società feudale, e trasformarsi col tempo in classe dominante, è perchè non solo nei rapporti con le altre classi, ma anche in quelli fra i suoi membri, si erano instaurati modelli di comportamento funzionali alla sua crescita. Il feudatario depredava, esigeva, rapinava; il borghese lavorava e produceva. La dignità del lavoro, che secoli dopo sarebbe stata così strenuamente difesa dal Socialismo, è un prodotto etico della borghesia nella sua fase giovanile. Il mercante del Medio Evo commercia in prima persona, solca i mari, attraversa i deserti, si fa un culo come una capanna per arricchirsi. Tutt'ora il rapporto fra impegno personale e successo economico è un caposaldo della Weltanschauung borghese. Il limite di buona parte del pensiero di sinistra nel Novecento e in questo scorcio di nuovo millennio è stato non capire che quello spirito va preservato e ricreato - in diverse forme, è ovvio - in una società socialista. L'uomo deve essere protagonista del proprio lavoro. Sostituire un meccanismo di alienazione con un altro condanna inevitabilmente qualsiasi processo rivoluzionario al fallimento. 

Perfino oggi, dopo la scomparsa pressochè totale dello Stato dalle nostre economie (parlo a livello europeo), c'è chi ancora resta aggrappato a modelli rivendicativi assolutamente obsoleti. Si pensa forse che una società più giusta si possa costruire per sottrazione, che se si gratta via la patina di barbarie e iniquità sedimentata in secoli di capitalismo ci si troverà sotto un'Umanità già perfetta. Si crede, magari, che sia ancora possibile affidarsi a sedicenti avanguardie che marciano spedite alla testa di plotoni di fantasmi. Si pensa, per tornare al povero Proudhon, che il nemico sia l'eterodossia, e non la carenza di idee capaci non tanto e non solo di mobilitare e sostenere proteste, ma soprattutto di dare vita a un'alternativa, di far germogliare il seme di un nuovo mondo di stare insieme, di dividersi il lavoro e i suoi frutti. Di realizzare la democrazia, a livello tanto politico quanto economico, e dunque di realizzare il Socialismo, che è la sua più vera e piena essenza.

Ma forse sono io a sbagliare, nel dare troppa importanza a queste elucubrazioni postprandiali, effetto di una digestione tanto laboriosa e difficile quanto il progresso sociale di una paese e di un continente decrepiti e stanchi. Mah, non lo so. Intanto, smetto di marciare con i fantasmi, e mi affaccio a guardare il drappello scalcagnato e multicolore che passa, al chiasso di mille inni dissonanti e confusi. Dopo tutto, solo la morte mette tutti d'accordo. Noi vivi siamo condannati dalla Storia a cambiare continuamente idea.

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