lunedì 16 settembre 2013

La solitudine del ciclope


Cari amici del Bradipo, oggi non ho niente di cui lamentarmi, nè alcuna osservazione da fare. Del raddrizzamento della Concordia m'importa sega, per cui ho scritto un breve raccontino. Prendete e mangiatene tutti.

La solitudine del ciclope

Dall’anfratto roccioso in cui aveva stabilito la sua dimora provenivano i fumi dell’arrosto. Si levavano in cielo in volute arricciate  come il vello dei montoni che aveva ucciso per il suo pranzo, e che riempivano l’aria del loro acre odore, ancora più penetrante adesso che erano lambiti dalle fiamme. La brezza alimentava il fuoco, e di tanto in tanto lo faceva crepitare. Quel suono si mischiava allo stormire delle fronde, al richiamo dei tordi, dediti ai frizzi e lazzi che da loro esigeva la stagione degli amori, e alle lontane, appena udibili bestemmie di un pastore che attraversava il sentiero, giù a valle.   
Facendo girare lo spiedo sul fuoco, pensava agli infiniti lutti addotti agli Achei, che a centinaia aveva ucciso e divorato, nei suoi quattrocentosettantasei anni di vita. Più che il loro gusto, a cui prediligeva quello dei montoni e delle capre, apprezzava la loro compagnia. Essi lo sollazzavano con la musica delle loro cetre, lo intrattenevano con i racconti delle gesta dei loro guerrieri, lo inebriavano con quella strana bevanda color rubino che né il fiume né le capre gli avevano mai offerto.
Ripensò a una sera d’estate, doveva essere stato quasi duecento anni prima, in cui aveva visto un pastorello intrattenersi con una fanciulla in riva al torrente che scorreva in quella striscia di terra che andava dai piedi della montagna fino al mare, poche centinaia di metri più in là. Il giovane l’aveva stretta in una strana morsa, che la ragazza non sembrava disdegnare. C’era una netta differenza fra quella stretta e quella con cui lui  stritolava i marinai che facevano naufragio sull’isola, prima di cibarsene. Le loro bocche si sfioravano, i loro corpi si contorcevano, ma pareva che lo facessero in una sorta di curiosa armonia. Non capì mai cosa stessero facendo.
Era solo. Non sapeva chi lo avesse generato. Non aveva mai visto un suo simile. Non sapeva cosa volesse dire l’amicizia, né tantomeno l’amore. Mangiava, dormiva, inondava il versante della montagna con le sue pluviali minzioni, e dove depositava le sue gigantesche deiezioni nascevano querce come gerani. Altro non faceva. Altro non conosceva.
Cominciò a guaire, prima sommessamente, poi sempre più forte, fino a quando il suo lamento straziante non saturò l’aria addolcita dalla primavera, fino a quando ogni creatura, dalla più minuta formica ai maestosi mufloni dalle lunghe corna, non si fu del tutto ammorbata l’anima. Poi si avvide che i montoni erano cotti, e cominciò a mangiare. Un morso, un guaito… un morso, un guaito… E così consumò il suo pasto.
Finito che ebbe di mangiare, si distese sul suo giaciglio di lana e paglia, e si assopì. Sognò di banchettare con gli uomini che venivano dal mare, di bere anfore e anfore della loro bevanda prodigiosa che induceva un’ottusa ilarità, e di danzare come loro al suono della cetra. Poi, in questo suo sogno, accadde una cosa molto strana: gli apparve una donna, come quella che aveva visto insieme al pastorello due secoli prima, ma di statura e corporatura proporzionate alle sue. Come lui, aveva un solo occhio, che lo guardava con infinita dolcezza. Cominciarono ad afferrarsi e strusciarsi come avevano fatto i due esseri umani tanto tempo prima, pensando di non essere visti.
Quando l’acuto verso di un nibbio in volo lo svegliò bruscamente, si guardò intorno per cercare quella bizzarra creatura, ma non vide nessuno. I resti dei montoni erano sparsi intorno a lui; altri segni di vita non era dato scorgere, fin dove arrivava la vista. Guaì a lungo, e a ragion veduta. Si percosse il petto, ed emise un ululato lancinante. Aveva capito. Quel sogno gli aveva rivelato la natura della sua condizione. Aveva capito che il destino del ciclope è la solitudine.
E fu con questa consapevolezza che il ciclope Claudio Pellegrini III scrutò l'orizzonte, con quello sguardo azzoppato dal destino, nella speranza di scorgere una vela in lontananza. Ma il mare gli rese solo il riflesso di un sole che splendeva a prescindere da ogni cosa, nel cielo terso del Peloponneso, solo come il suo occhio nella spaziosa fronte, solo come lui...
 

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